Mario Draghi e il cambio di rotta sull’euro

Il board della Bce ha ammesso per la prima volta che l’euro, la moneta unica dell’Unione Europea, non è un processo irreversibile. Ma c’è un prezzo da pagare, al di là delle possibili turbolenze per un ritorno alla vecchia moneta: il pagamento di tutti i debiti con la stessa Bce.

Un’inversione di rotta  rispetto allo scorso luglio 2012, quando dallo scranno più alto della Bce Draghi promise di fare tutto ciò che fosse necessario (Whatever it takes) per salvare l’euro e l’eurozona e sottolineò come la moneta unica fosse un ‘processo irreversibile’.

Nella replica ad una interrogazione dei Cinque Stelle al parlamento europeo, Draghi ha spiegato che nel caso un paese lasci l’euro, la sua banca centrale deve prima pagare tutti i debiti con la stessa BCE: ‘If a country were to leave the Eurosystem, its national central bank’s claims on or liabilities to the ECB would need to be settled in full’. Di quanto si parla? La frase di Draghi è in fondo ad una lettera in cui si spiegava perché l’Italia è fortemente indebitata con la BCE attraverso il sistema di pagamenti del Target 2 (un effetto indiretto del Quantitative Easing). Il debito con l’eurosistema della nostra banca centrale (come si ricava dallo stato patrimoniale della Banca d’Italia a dicembre 2016) è al momento pari a circa 356,5 miliardi di euro a cui vanno sottratti i crediti, per un indebitamento netto pari a 312 miliardi. Si tratta di quasi il 20% del nostro Pil.

Questo debito non potrebbe in alcun modo essere ridenominato in lire perché non è sotto diritto nazionale. Inoltre dovrà essere estinto prima dell’uscita, perché le banche centrali non partecipanti all’euro (come sarebbe la Banca d’Italia dopo l’Italexit) non possono avere posizioni debitorie verso il sistema.

Il messaggio è chiaro ed è rivolto in primis all’Italia e a quanti hanno al loro interno movimenti euro-scettici abbastanza forti: volete uscire dall’euro? Nessuno vi trattiene a ogni costo, purché prima regoliate i rapporti di debito/credito vigenti con il resto dell’Eurozona.

 In cambio l’Italia chiederebbe un’assistenza finanziaria per sostenere la nuova valuta e i conti del nostro paese. E qui le cose si metterebbero molto male: un terzo del debito pubblico italiano è infatti posseduto da soggetti esteri (ma una parte è in via di assorbimento grazie dal QE). In una trattativa per un’uscita ‘concordata’, l’Italia potrebbe essere costretta ad accettare la non ridenominazione di questi titoli di debito. E si rischierebbe il disastro.

Il messaggio di Draghi è però rivolto anche a Berlino: non soffiate sul fuoco, perché se spingerete l’Italia ad uscire dall’euro, è evidente che le sue banche non avranno in un solo colpo tutti i 360 miliardi di euro da pagare ai creditori dell’area, per cui a catena fallisce tutto il sistema, anche perché con la certa svalutazione che subirebbe la nuova lira introdotta da Roma, il peso dei debiti italiani (in euro) diverrebbe insostenibile.

L’euro è un marchingegno monetario nel quale avremmo fatto bene a non entrare. Ma i costi di uscita sono talmente impraticabili che l’unica strada sensata è quella di aggiustarlo in corsa. Ogni altra soluzione non è una soluzione, ma un problema molto più grande. Non si tratta di cedere alla logica thatcheriana del There Is No Alternative (TINA), ma di creare le condizioni per alternative che non siano peggiori della situazione attuale.

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