Jobs act: quali effetti ha avuto sul mercato del lavoro

Il Jobs Act ha introdotto nell’ordinamento italiano un nuovo tipo di contratto a tempo indeterminato con costi di licenziamento crescenti in proporzione all’anzianità, abrogando al contempo la reintegrazione prevista dall’art 18 dello Statuto dei Lavorati per i licenziamenti senza giusta causa nelle imprese con più di 15 dipendenti.

A partire da una banca dati che segue nel tempo tutte le imprese private che hanno avuto per almeno un mese tra i 10 e i 20 dipendenti nel periodo 2013-16,  questa riforma è stata associata ad un aumento della mobilità delle imprese e troviamo che l’introduzione del nuovo contratto ha aumentato le assunzioni nelle imprese con più di 15 dipendenti rispetto a quelle più piccole.

Il “Jobs Act” è stata la principale riforma varata nella scorsa legislatura. Il suo tratto distintivo è stato l’introduzione, a partire dal marzo 2015, del contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti a tempo indeterminato. Questa riforma è stato varata in parallelo a una forte decontribuzione (fino a 24 mila euro in 3 anni) per ogni assunto a tempo indeterminato nel 2015 e valida per i successivi tre anni.

Degli effetti di questi interventi sul mercato del lavoro si è molto discusso in questi anni e molto rumore si è fatto in campagna elettorale. A livello aggregato, il periodo del jobs act (2015-2016 e 2017) è stato un triennio con forte crescita degli occupati. Secondo l’Istat tra il 2015 e il 2017 gli occupati sono cresciuti di circa 800 mila unità. Mentre il 2015 è stato all’insegna della crescita dei contratti a tempo indeterminato, i due anni successivi hanno visto una forte crescita dei contratti di lavoro a tempo determinato, cresciuti nel 2017 di 340 mila unità.

Il disegno sperimentale può utilizzare la discontinuità esistente alla soglia dei 15 addetti, dovuta al fatto che il nuovo contratto a tutele crescenti ha reso più flessibili le assunzioni e i licenziamenti delle imprese con più di 15 addetti mentre ha lasciato pressoché invariati i costi di licenziamento per le imprese sotto la soglia dei 15 dipendenti.

Un aspetto tecnico riguarda la definizione di soglia e di dimensione aziendale. Secondo i giudici del lavoro la misurazione della dimensione aziendale ai fini dell’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, — vigente prima del Jobs act — riguarda tutti i lavoratori.

Secondo le indicazioni del Ministero del Lavoro, al fine del computo degli addetti si devono contare esclusivamente i lavoratori dipendenti, siano essi a tempo indeterminato o a termine. Questi ultimi, tuttavia, vanno calcolati soltanto in base al numero medio di addetti nei 24 mesi precedenti. Inoltre i dipendenti a tempo parziale vanno conteggiati in base al numero di ore effettivamente lavorate.

In sostanza, la forza lavoro deve essere calcolata come dipendenti equivalenti a tempo pieno, pesata per la durata del contratto medio negli ultimi 24 mesi. Questa misura di “forza aziendale” non è semplicissima da calcolare e non è nemmeno chiaro che un datore di lavoro sia sempre pienamente consapevole della propria forza aziendale. Boeri e Garibaldi (2018) utilizzano una misura di forza aziendale calcolata dall’INPS che tiene si conto dei lavoratori a tempo parziale, mentre non pesa i lavoratori a tempo determinato degli ultimi 24 mesi.

La mobilità delle imprese intorno alla soglia è aumentata. In particolare, il numero delle imprese che supera la soglia dei 15 addetti è passato da 10 mila al mese prima della riforma a circa 12 mila al mese nei 15 mesi dopo la riforma, anche se i passaggi di soglia dopo il dicembre 2016 – quando la decontribuzione è stata fortemente ridotta – hanno subito una decelerazione.

Al tempo stesso, la probabilità che un’impresa cambi la propria dimensione è effettivamente aumentata. Un modo per misurare la mobilità aziendale è il cosiddetto indice di Shorrock, un numero compreso tra 0 e 1 che descrive la probabilità che un’azienda in un dato intervallo cambi posizione nella distribuzione delle imprese per classe dimensionale. L’indice è aumentato di 4 punti percentuali dopo il Marzo 2018.

I risultati scientificamente più interessanti e rigorosi riguardano gli effetti del nuovo contratto sulle assunzioni e licenziamenti a tempo indeterminato. Le imprese sopra la soglia (quelle che indubbiamente operano con maggior flessibilità) hanno, dopo il marzo 2015, aumentato le assunzioni a tempo indeterminato del 50 percento rispetto alle imprese più piccole. Queste ultime – va ricordato- non hanno subìto alcun cambiamento sostanziale della normativa sui licenziamenti loro applicabile col nuovo contratto. Inoltre, la decontribuzione non influisce su questo risultato dal momento che si applica uniformemente sia alle piccole che alle grandi imprese.

 Riguardo ai licenziamenti, il risultato è molto simile, e viene evidenziato un aumento dei licenziamenti di circa il 50 percento tra le imprese più grandi rispetto alle piccole imprese comprando la situazione prima e dopo il Marzo 2015.

Il nuovo contratto ha chiaramente reso più flessibile il mercato del lavoro e aumentato la mobilità di imprese e lavoratori. Per molti anni, Matteo Renzi ha sostenuto che il nuovo contratto avrebbe aumentato le assunzioni. Susanna Camusso sosteneva invece che sarebbero aumentati i licenziamenti. Avendo a disposizione le carriere lavorative di circa 6 milioni di lavoratori, sappiamo oggi in modo scientifico che avevano entrambi ragione su questo punto. Va peraltro ricordato che l’aumento di assunzioni del 50 percento corrisponde a un numero molto più grande rispetto all’aumento dei licenziamenti del 50 percento, e che l’occupazione totale è aumentata nel triennio analizzato.

 

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