Epatite B: incredibile scoperta del San Raffaele di Milano

L’epatite B, nella sua forma cronica, è una malattia che affligge oltre 250 milioni di persone al mondo ed è tra i primi fattori per il rischio di cancro al fegato. Il sistema immunitario di chi ne viene colpito non riesce a debellare il virus, che continua a riprodursi nelle cellule del fegato. Ora però tutto potrebbe cambiare: al San Raffaele è stata scoperta una molecola che riattiva il sistema immunitario.

La scoperta è stata pubblicata su Nature, firmata da un gruppo di ricercatori dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano e dell’Università Vita-Salute San Raffaele guidati da Matteo Iannacone, a capo dell’unità di Dinamica delle Risposte Immunitarie, in collaborazione con Luca Guidotti, vicedirettore scientifico dell’Istituto e professore ordinario all’Università Vita-Salute San Raffaele, e Renato Ostuni, group leader del laboratorio di Genomica del sistema immunitario innato

Il virus dell’epatite B si trasmette tramite sangue infetto, per via sessuale o da madre a figlio durante il parto. Dopo il contagio si può verificare o la forma acuta – da cui si guarisce con la terapia adatta – o quella cronica – che solitamente colpisce i bambini contagiati alla nascita.

L’epatite B è una patologia che colpisce il fegato e che in Italia conta oltre 1600 nuovi casi all’anno. È causata dal virus HBV che nel 95% dei casi scatena un’infezione acuta che guarisce in pochi mesi. Nel restante 5% il virus non viene debellato completamente e l’infezione diventa cronica.

Il sintomo più caratteristico è il colore giallastro (ittero) della lingua, della sclera dell’occhio e della pelle, associato a stanchezza, debolezza, perdita di appetito, calo di peso e febbre. In alcuni casi la malattia può essere asintomatica.

La diagnosi si fa attraverso gli esami del sangue, che rilevano la presenza di specifici marker (transaminasi, antigeni e anticorpi).

In fase acuta occorrono per la cura almeno un mese di riposo e una dieta leggera, povera di grassi e di proteine, ricca di carboidrati semplici e complessi. Nella fase cronica si utilizzano farmaci antivirali, che agiscono inibendo la produzione del virus. Dopo uno o due mesi di trattamento il Dna dell’Hbv non è più dosabile nel sangue. Nonostante ciò, nel 90% delle persone il virus permane nelle cellule epatiche in forma latente (portatori inattivi) ed è perciò necessario il controllo da parte di un epatologo, che una volta all’anno eseguirà una visita e prescriverà gli esami del sangue e un’ecografia del fegato. Il restante 10% delle persone, dopo 4-5 anni di assunzione dei farmaci, distrugge completamente il virus.

La malattia si previene con il vaccino, obbligatorio in Italia dal 1991 per i nuovi nati (fino al 2003 anche per i dodicenni), che viene somministrato in tre dosi con iniezione intramuscolare e fornisce nella quasi totalità dei casi (99%) un’immunità permanente.

I ricercatori del San Raffaele  hanno lavorato su tecnologie di imaging cellulare e genomica e dei topi, trovando che esiste un sottotipo di linfociti T che attacca il virus, ma non lo elimina nella sua forma cronica. Il funzionamento dei linfociti T ha dato alcune informazioni agli studiosi.

“La prima – illustra Iannacone – è che la scarsa capacità di reazione dei linfociti al virus dell’epatite B è diversa da quella che si osserva in presenza di altri virus o di cellule tumorali. Anche in alcune di queste patologie la risposta immunitaria è soppressa, ma il meccanismo con cui avviene è diverso”. In altre parole, ci sono farmaci che si usano per stimolare il sistema immunitario ma non funzionano con l’epatite B cronica.

Tuttavia, i ricercatori hanno trovato le molecole che possano riattivare il sistema immunitario. Una di questa è stata sperimentata con successo ed è l’interleukina-2, una molecola-messaggero del sistema immunitario, ma gli studiosi sono fiduciosi e credono che sia solo la prima di una serie.

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