Articolo 18: la Fornero ha veramente ragione?

La ministra Fornero ha segnalato che la modifica dell’articolo 18 è solo una piccola parte della riforma, un piccolo capitoletto, e che non dovremmo focalizzarci solo su quello, dato che altri cambiamenti epocali miglioreranno la vita dei precari. Prendiamola in parola e andiamo a vedere quali altri importanti innovazioni la bozza di riforma riserverà a noi precari e precarie.

Come si sente spesso ripetere, il contratto a tempo indeterminato “dominerà sugli altri”. Ma questo non è un cambiamento, dato che già oggi i contratti di lavoro subordinato devono essere a tempo indeterminato a meno che non sussistano importanti ragioni organizzative. La stragrande maggioranza dei contratti precari, atipici, di collaborazione, sono già illegittimi. Con gli avvocati del Punto San Precario vinciamo quotidianamente cause contro aziende che usano contratti precari per pagare di meno lavoratori subordinati che lavorano in azienda, hanno un orario fisso, eccetera.

Il contratto a tempo determinato non potrà essere prolungato per più di 36 mesi, dopo di che sarà obbligatoria l’assunzione a tempo indeterminato. Bene, oggi la legge dice esattamente la stessa cosa, anche se in casi particolari prevede una proroga di otto mesi. Per scoraggiare l’uso del tempo determinato (che, ricordiamolo, per noi precari è già un miraggio dato che perlomeno paga contributi, tredicesima, Tfr, ferie, ecc) si aumenta la contribuzione dell’1,4%. Non è certo un gran deterrente per le imprese: stiamo parlando di una spesa mediamente di 20-30 euro al mese in più a fronte della possibilità di scaricare il lavoratore senza problemi.

Per i contratti “atipici” i contributi saranno aumentati dell’1% all’anno sino al 2018. Vuol dire che i precari e le precarie continueranno per anni a non versare abbastanza contributi e quindi a non maturare pensioni dignitose. Sarebbe stato semplice, una misura di civiltà minima, parificare le aliquote contributive con quelle dei contratti a tempo determinato e indeterminato, punto. L’obiezione è questa: le imprese scaricherebbe sul lavoratore i costi dell’aumento, diminuendo il salario netto.

Questo ci porta a un altro problema: non c’è nessun intervento sui salari. Nessun tentativo, nemmeno timido, di obbligare le imprese a pagare un salario minimo adeguato al contratto nazionale di categoria. Altrimenti si potrebbero tranquillamente aumentare i contributi e contemporaneamente impedire alle aziende di farli pagare ai lavoratori.

Resta invariata la giungla delle oltre quaranta forme di contratto oggi in vigore, dalla collaborazione a progetto alla somministrazione, e chi più ne ha più ne metta, che creano confusione, dividono i lavoratori all’interno delle aziende rendendoli più ricattabili e si prestano ad abusi di ogni tipo. Sarebbe stato semplice abolire le forme di contratto più abusate e semplificare il panorama permettendo la stipulazione di solo tre o quattro tipologie contrattuali. Ricordiamo che la riduzione delle forme contrattuali era stata una delle prime promesse di Fornero.

Mancano interventi sul welfare e sui diritti. Certo, viene resa impossibile la firma delle dimissioni in bianco al momento dell’assunzione (una norma cancellata a suo tempo da Sacconi) e si introduce in via sperimentale l’obbligo di “paternità” che cerca di introdurre un po’ di parità a scapito del ruolo subalterno delle donne e del peso del welfare familiare. Ma i precari e le precarie assunti con una delle quaranta e più forme contrattuali atipiche continueranno a non avere diritto non solo alla maternità, ma nemmeno alle ferie, al Tfr, alla tredicesima, alla rappresentanza sindacale, alla malattia. Infine, ci sono timidi tentativi di regolamentare gli stage, vero e proprio serbatoio di lavoro gratuito per le imprese, e le finte partite Iva.

E il reddito? Lo sbandierato (dalla stessa Fornero) reddito di base è semplicemente sparito dal dibattito. La misura di welfare universale che esiste in tutta Europa e tutela i precari e le precarie dalla ricattabilità estrema a cui sono soggetti oggi, non è più all’ordine del giorno. Al suo posto c’è l’Aspi, una riformulazione dell’assegno di disoccupazione che non è certo universale (non tutti possono accedervi) e non cambia le carte in tavola a chi vive nella precarietà.

Insomma, c’è ben poco da festeggiare: l’unico risultato certo di questa riforma è rendere precari tutti e tutte, anche chi fino a poco fa si riteneva garantito, abolendo l’articolo 18. In cambio non ci sono sostegni ai precari e non si riduce la portata della precarietà, che è sempre di più la forma strutturale di abbassamento dei salari e dei diritti adottata dalle imprese italiane.

Argo Fedrigo

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