Recensione di Roberto Staglianò su ‘Disgraced’ di Ayad Akhtar, in scena fino al 18 marzo al Teatro India di Roma

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Roberto Staglianò la recensione sullo spettacolo ‘Disgraced’ in scena fino al 18 marzo al Teatro India di Roma. 

 

‘Disgraced’ è in scena dal 6 al 18 marzo al Teatro India di Roma con la traduzione e la regia di Jacopo Gassmann, coproduzione del Teatro di Roma e Teatro della Tosse di Genova. Un titolo-espressione che letteralmente significa ‘caduto in disgrazia’. In una ulteriore trasposizione è stato rielaborato, nell’allestimento torinese dell’opera, diventando ‘Dis-crimini’, gioco di parole tra ‘crimini’ e ‘discriminare’. E in effetti viene quasi naturale parlare di crimini, discriminazione, l’integrazione e il bisogno di sentirsi integrati. Ma anche di quelle zone d’ombra dell’animo umano, dove risiede il nostro doppio con l’arrivismo, i tradimenti, i pregiudizi, le ipocrisie e le prepotenze.

Sono i temi fondamentali di di questa tragedia classica che è un dramma fortemente contemporaneo. Dove tutto si fonde e viene scompaginato, fino alla detonazione. Disgraced è una commedia salottiera solo in apparenza dove le ‘buone maniere’, una buona dose di chiacchiere e manierismi intellettuali nascondono macchie di buio, inganni, verità inconfessabili che arrivano a diventare disprezzo, rabbia e violenza verbale e fisica. Questa narrazione iniziale affettata è funzionale allo sviluppo della storia che è teatro di parola fino al momento della perdita di controllo. Solo allora si rivelerà la caducità reale ed evidente, non più nascosta, di quelle vite e di quelle (dis)umanità che fino a poco prima erano avvocati di successo, colti galleristi liberal, artisti della pittura.

Sicuramente conoscerà molto bene questi luoghi dell’anima e questi ambienti Ayad Akhtar l’autore dell’opera che ha vinto il premio Pulitzer nel 2013. Personaggi e contesti progressisti, New York, coppie miste, l’America del post 11 settembre infettata e messa a dura prova da un crescente razzismo che determina discriminazioni anche in ambienti protetti come quelli del mondo dell’arte o della buona società

Akhtar è nato a New York nel 1970, ma cresciuto a Milwaukee in una famiglia originaria del Pakistan, musulmana, colta e di vedute liberali. Entrambi i genitori erano dottori. La passione per la scrittura si è rivelato presto. Fu una professoressa ad accorgersi del suo talento, quando l’allora giovane ragazzo aveva quindici anni. Iniziò così il suo personale viaggio nella letteratura europea: Kafka, Rilke, Camus, Musil. In Italia fa un corso con Grotowski e si laurea alla Browne University. Solo quando viene allo scoperto, raccontando il suo mondo, la sua esperienza personale il suo essere pakistano e americano, il mondo si accorge finalmente di lui e inizia ad avere successo. Scrive tre pièce teatrali e un romanzo American Dervish, tradotto in Italia con il titolo La donna che mi insegnò il respiro. Disgraced fino ad oggi rappresenta la punta dell’iceberg del suo percorso e della sua opera.

La storia inizia con Amir ed Emily, In una stanza dalle pareti bianche, con un arredamento ricercato e raffinato, quello di una casa studio. lui è un avvocato finanziario che sta  costruendo una carriera di successo allontanandosi però dalle sue radici culturali. Le sue origini sono pakistane, è cresciuto  e si è formato in America,  si autodefinisce un apostata. Amir è un uomo lacerato che esorcizza i suoi fantasmi nascondendosi  in quella che definisce essere la sua ‘fase di intelligenza’. Al suo fianco c’è Emily, la sua compagna. Una ofisticata pittrice newyorkese, wasp, vagamente snob, la quale  sta portando avanti una ricerca su temi islamici. Quando loro decidono di invitare a cena il gallerista Isaac e sua moglie  Jory, quella che inizia come una  conversazione diventa poi un confronto e infine uno scontro molto acceso  al punto che i rapporti tra i protagonisti verranno per sempre modificati e le loro esistenze saranno inevitabilmente segnate  dallo sviluppo tragico di quei fatti.

Tre sono gli eventi scatenanti che faranno precipitare le cose, mandando in rovina i loro rapporti in un crescente e asfissiante gioco di angoscia e rapporti di forza in quella bolla di sapone splendente, ma così tanto fragile.

Il primo è il ritratto che Emily sta facendo ad Amir ispirandosi al ‘Ritratto di Juan de Pareja’ Del Velasquez, mentre entre lui indossando un paio di mutande nere porta avanti i suoi affari parlando al cellulare. Ritrae un momento di quotidianità ed intimità della coppia con accennate riflessioni e punti di vista soggettivi. Il secondo evento e la richiesta di Abe, giovane nipote di Amir, di intercedere in tribunale in difesa di un Imam accusato di terrorismo e, infine, la cena.  Ben presto gli spettatori scopriranno che i tre uomini e le due donne, in realtà, sono molti di più. Ognuno porta in sé una doppia personalità ed è Prigioniero di vincoli imposti dall’esterno o autoimposti. Lo stesso interno di appartamento borghese solo nelle fasi iniziali è uno sfondo bianco e neutro, ben presto diventa un tappeto, un ring di pugilato, una parete dove vengono videoproiettati simboli e segni di un set sempre più feroce, una finestra che riflette senza pietà crudeli ombre cinesi. Aleggia la presenza di Fassbinder sull’intera messa in scena fino a rendersi evidente nella sequenza della cena. Uno schema è un gioco al massacro dove nessuno è ingenuo, senza colpe, innocente. L’interpretazione degli attori è serrata, magmatica e incandescente, scandita da una regia asciutta, precisa e attenta alla costruzione e all’evoluzione della trama. Il tema del doppio e dei suoi multipli infiniti trova nel teatro la sede eletta per quella che diventa un’analisi chirurgica, impietosa e al tempo stesso salvifica. È un disegno, una trappola ho una rete dalla quale è difficile districarsi?  È solo confusione o una diffusa sordità che uniforma le grida come il silenzio?  Tutto questo è Disgraced,

Roberto Staglianò

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