Per ‘jobs act’, come è noto,  si intende un piano per il lavoro che contiene proposte per la ripresa dell’economia e dell’occupazione. Il nome fa riferimento agli American Jobs Act che nel 2011 il presidente Usa Barack Obama presentò al Congresso, contenenti una serie di misure per il lavoro. Si trattava di sgravi fiscali per le piccole e medie imprese e per i lavoratori, con un taglio del 50% delle trattenute sui salari per pensioni e sanità fino alla fine del 2012, riduzioni delle trattenute pagate dai datori di lavoro per altri 65 miliardi di dollari al fine di incoraggiare le assunzioni, e altri interventi.

In Italia, il termine Jobs act fa riferimento alla riforma del mercato del lavoro promossa dal governo Renzi tra il 2014 e il 2015 e caratterizzata in sintesi dall’introduzione del contratto a tutele crescenti (con il sostegno al reddito per i disoccupati reso universale), da alcune modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e dall’abolizione del contratto a progetto.

Due, in particolare, i provvedimenti cardine della riforma: il decreto legge 20 marzo 2014, n. 34 (meglio noto come decreto Poletti, dal nome del ministro del Lavoro Giuliano Poletti) e la legge delega 183/2014, n. 183, che demandava al governo una serie di decreti legislativi di attuazione in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, oltre che sul riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva, tutti provvedimenti emanati nel corso del 2015.

Che il Jobs Act abbia mancato gli obiettivi di diminuire la precarietà e rendere stabilmente più appetibili per i datori di lavoro i contratti a tempo indeterminato è ormai molto più che un sospetto dei sindacati o un’accusa delle opposizioni: basta guardare gli ultimi dati Inps sull’andamento di assunzioni e licenziamenti nel 2016. Ma ora, a due anni esatti dal suo varo, a sancire il flop di una delle riforme simbolo del governo di Matteo Renzi è un working paper della Fondazione Adapt, il centro studi fondato dal giuslavorista Marco Biagi due anni prima del suo assassinio per mano delle Nuove Brigate Rosse. La valutazione arriva dunque da una fonte cui non si può imputare un pregiudizio negativo nei confronti della flessibilità, considerato che porta il nome di Biagi la legge che ha introdotto in Italia i contratti a progetto, il lavoro occasionale e quello a chiamata.

 ‘Il Jobs Act può essere cambiato: nella struttura degli incentivi, che devono essere strutturali e non a spot; nelle normative sui licenziamenti, che devono essere corrette nei licenziamenti disciplinari e per motivi economici’,  dichiara Cesare Damiano, Presidente della Commissione Lavoro alla Camera: ‘Nel primo caso va prevista una gradualità prima di intervenire con un licenziamento disciplinare: richiamo orale, richiamo scritto, sospensione dal lavoro e poi licenziamento. Sul licenziamento economico non è accettabile che questo avvenga in aziende che fanno profitti e che non hanno alcuna crisi: in questo caso va prevista la reintegrazione del lavoratore. Il Jobs Act non è un tabù e noi proponiamo di cambiarlo.