Epatite C e tasso di risposta con regime sperimentale pangenotipico di 8 settimane

L’agenzia statunitense Fda ha attribuito la designazione di terapia altamente innovativa  al regime sperimentale anti-Hcv di AbbVie.   Questo riconoscimento viene concesso a terapie sperimentali per il trattamento di condizioni serie o potenzialmente fatali in base a evidenze cliniche preliminari che ne dimostrano la capacità di offrire un miglioramento sostanziale rispetto alle terapie esistenti. La decisione della Fda si è basata sui dati clinici di fase 2 ottenuti in pazienti di genotipo 1 per cui era fallita una terapia pregressa con agenti antivirali ad azione diretta (Daa).

Attualmente in fase 3 di sperimentazione clinica, glecaprevir/pibrentasvir (G/P) è allo studio per il trattamento dell’infezione cronica da virus dell’epatite C. Si tratta di un regime sperimentale pangenotipico, ovvero efficace su  tutti i principali genotipi del virus Hcv (genotipo 1-6), capace di dare una risposta a esigenze cliniche tuttora insoddisfatte.

La maggior parte dei pazienti che attualmente convive con Hcv non ha ancora ricevuto il trattamento anti-Hcv, e l’epatopatia di cui soffre è ancora nelle prime fasi e non è ancora progredita in cirrosi,  ha affermato il Dr. Stefan Zeuzem, autore della sperimentazione e Direttore Del Dipartimento di Medicina presso il J.W. Goethe University Hospital di Francoforte, Germania.  È questo il motivo per cui sono particolarmente promettenti questi dati iniziali che dimostrano tassi elevati di risposta Svr in questi pazienti con Hcv, ottenuti con sole otto settimane di trattamento con il regime glecaprevir/pibrentasvir».

Il trattamento della durata di otto settimane con una singola somministrazione giornaliera  di glecaprevir/pibrentasvir (G/P) ha ottenuto un tasso di risposta virale sostenuta per 12 settimane (Svr 12) nel 97,5 per cento per i principali genotipi dell’epatite C cronica. Nessuno fra i pazienti arruolati nei bracci di trattamento della durata di otto settimane in tre sperimentazioni registrative ha dovuto interrompere il trattamento a causa di eventi avversi.

Questi risultati rappresentano un passo in avanti verso il traguardo, che è quello di offrire un potenziale trattamento pangenotipico, che richiede una singola somministrazione giornaliera e una durata di sole 8 settimane,  a pazienti non cirrotici fra cui anche pazienti che non hanno mai ricevuto trattamenti anti-Hcv in precedenza. Il  programma registrativo è quasi giunto alla conclusione, e sarà possibile  sottomettere il  regime pangenotipico di nuova generazione alle autorità regolatorie entro la fine di quest’anno negli Stati Uniti, e nei primi mesi dell’anno 2017 nell’Unione Europea e in Giappone.

La sostenibilità economica dell’introduzione delle terapie innovative per il trattamento dell’Hcv per il nostro Servizio Sanitario Nazionale, è al centro di un dibattito che coinvolge istituzioni, clinici e pazienti.

Attualmente, un paziente su due con epatite C non ha accesso al trattamento con i farmaci innovativi: la gestione delle infezioni Hcv-correlate rappresenta un onere clinico e sociale di estrema rilevanza nel nostro Paese.

Ad oggi, tra costi diretti e costi indiretti assorbiti dalle patologie Hcv-correlate per il Servizio Sanitario Nazionale e per la società italiana, si stima un impatto medio annuo pari a 1,05 miliardi di euro  di cui il 61,4% imputabile a costi indiretti (riduzione della produttività) e il restante 38,6% a costi diretti (cure e assistenza).

Su circa 300.000 pazienti diagnosticati, si stimano circa 150.000 soggetti eleggibili al trattamento con i farmaci innovativi. Ampliare i criteri di eleggibilità al trattamento con questi ultimi, a fronte di un maggiore impegno iniziale in termini di risorse, porterebbe nel medio-lungo termine contribuire ad ammortizzare i costi per il Servizio Sanitario Nazionale dovuti alla natura cronica dell’epatite C.: questo è quanto emerge dallo studio di farmaco-economia condotto dall’Università di Palermo con l’Università Tor Vergata di Roma.

Abbiamo simulato uno scenario entro un orizzonte temporale di 5-10 anni mettendo a confronto gli attuali criteri restrittivi con una diversa strategia che prevede un allargamento dei criteri a pazienti con epatite cronica e fibrosi F2,   spiega Calogero Cammà, Professore Ordinario di Gastroenterologia e Direttore della Scuola di Specializzazione in Gastroenterologia dell’Università degli Studi di Palermo,  le principali evidenze emerse sono tre: la quantità di anni di vita salvati è risultata essere maggiore allargando i criteri, si produce cioè più salute, che è certamente il primo e più importante obiettivo; trattare un maggior numero di pazienti richiede oggi maggiori risorse, ma c’è un ritorno economico, perché si riducono i costi diretti (ricoveri, trattamenti, complicanze, personale sanitario, etc); allargando i criteri non solo si abbattono questi ultimi ma si riducono in maniera sostanziale anche i costi indiretti, legati alla riduzione della produttività.

Il virus dell’epatite C era invisibile ma, ora,  una fotografia lo ha finalmente svelato. Il virus dell’epatite C, identificato nel sangue fin dal 1989, è stato osservato da un’équipe di ricercatori francesi assistiti da ingegneri e tecnici di microscopia elettronica dell’università di Tours.

Questo piccolo virus, come tutti quelli dell’epatite, infetta specificamente le cellule del fegato e le porta alla distruzione.

Per diffondersi, esso si nasconde nelle lipoproteine Vldl nel momento in cui queste ultime vengono secrete nel sangue dalle cellule epatiche: una strategia che permette al virus di sottrarsi alla vigilanza del sistema immunitario.

Generalmente, i virus vengono identificati attraverso gli anticorpi prodotti dall’organismo oppure grazie alla microscopia elettronica, come nel caso del virus dell’epatite B nel 1967 o di quello dell’epatite A nel 1977.

In compenso, il virus dell’epatite C è rimasto a lungo inaccessibile ai ricercatori, anche perché, fino al 2005, è stato impossibile coltivarlo in vitro. E anche una volta che i ricercatori sono riusciti nell’impresa, non è stato facile l’isolamento delle particelle virali. La chiave del successo è stata la messa a punto di una tecnica di isolamento di queste fragili particelle viro-lipidiche direttamente nella coltura in vitro. Una volta isolate, le particelle sono state ingrandite circa 600 mila volte dal microscopio elettronico e poi fotografate, rivelando al loro interno il virus.

La scoperta potrebbe accelerare la messa a punto di un vaccino: un’impresa che è stata ostacolata dal fatto che, oltre a utilizzare numerosi mezzi per sfuggire al sistema immunitario, il virus è molto variabile.

Nel mondo sono 180 milioni le persone infettate. Nuovi farmaci, come gli antivirali ad azione diretta, bloccano il meccanismo che consente al virus di moltiplicarsi a livello genetico, ma il loro costo è ancora un ostacolo al loro utilizzo su larga scala.

Un vaccino potrebbe essere una soluzione più accessibile.

Moreno Manzi

 

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