Saras nella bufera, non solo cassa integrazione: nella raffineria dei Moratti si cerca il petrolio dell’Isis

Bufera sulla raffineria Saras di Sarroch. Proprio mentre per la prima volta nella sua lunga e importante storia alza le braccia e invoca la cassa integrazione per i suoi lavoratori, la Saras della famiglia Moratti viene travolta da una indagine ancora tutta da chiarire.

La raffineria petrolifera, una delle più grandi in Europa e delle più avanzate in termini di complessità degli impianti, si trova nel distretto industriale di Sarroch, gestito dalla controllata Sarlux sulla costa sud occidentale della Sardegna. Nel 2015, Sarlux ha acquisito gli impianti petrolchimici limitrofi di proprietà di Versalis, Gruppo ENI, espandendo la produzione della filiera petrolchimica.

A partire dal 2016 è operativa a Ginevra la controllata Saras Trading SA, che tratta l’acquisto di grezzi e altre materie prime per la raffineria del gruppo, la vendita dei suoi prodotti raffinati e svolge attività di trading conto terzi operando da uno dei principali hub internazionali per gli scambi sulle commodities petrolifere.

Fondata nel 1962 Angelo Moratti, è controllata dai figli Gian Marco e Massimo attraverso due società in accomandita che detengono poco più del 25% del capitale e che sono legate da un patto di sindacato che la rende non scalabile. Quotata in Borsa dal 2006, con un inizio disastroso che vide i titoli crollare dell’11%, Saras capitalizza circa 1,7 miliardi di euro e sforna 300mila barili di petrolio al giorno, 15 milioni di tonnellate l’anno, arrivando a rappresentare circa il 20% della capacità totale di raffinazione italiana di petrolio. A Sarroch, quasi tutta la forza lavoro è impiegata qui: impiega circa 2mila dipendenti.

Saras si occupa anche della vendita all’ingrosso di prodotti petroliferi e dispone di una rete di circa 100 stazioni di servizio nel sud della Spagna. Nel 2013 il colosso petrolifero russo Rosneft aveva rilevato, in accordo con la famiglia, una quota del 21%. Ma l’unione tra i due, che avrebbe dovuto portare a una joint-venture per la lavorazione e la vendita di petrolio e derivati, è stata chiusa nel 2016 a causa delle sanzioni contro la Russia.

Ora, l’azienda non solo sta andando per la prima volta verso lo stato di crisi, ma deve rispondere di accuse gravissime. Da qualche mese si susseguivano le voci di un possibile stato di crisi del comparto industriale di Sarroch. Negli ultimi giorni queste voci si sono fatte sempre più insistenti, fino a oggi, confermando peraltro il trend negativo del comparto petrolifero, piegato dalla crisi Covid.

Sarroch è sempre stata una sorta di isola felice dal punto di vista dell’occupazione, perché la Saras dà lavoro, e ricchezza, a interi territori. Ma sul suo passato, e presente, pesano ombra piuttosto oscure. In primis l’inquinamento del territorio, che l’aveva portata negli anni Duemila a diversificare la propria attività avviando un impianto di gasificazione a ciclo combinato per convertire i residui della raffinazione inaugurando anche un parco eolico a Ulassai, provincia di Nuoro.

Ma soprattutto oggi, proprio poche ore dopo l’annuncio della possibile Cassa integrazione per i lavoratori, si materializza il sospetto che proprio attraverso la Saras sia giunto in Italia il petrolio dell’Isis.

12 milioni di tonnellate di oli minerali che avrebbero consentito alla società controllata per il 40% dalla famiglia Moratti di falsare il mercato, grazie a prezzi d’acquisto molto vantaggiosi, e frodare il Fisco per qualcosa come 130 milioni di euro. E, non ultimo, ai terroristi di Daesh di finanziare la jihad, partendo da uno bonifico considerato sospetto da 60 milioni.

Il sospetto è della Procura distrettuale antiterrorismo di Cagliari, che il 30 settembre scorso ha perquisito gli uffici della società a Cagliari e a Milano. Risultano ora indagati i vertici dell’azienda, dal Cfo, Franco Balsamo, al capo dell’ufficio commerciale, Marco Schiavetti. Le ipotesi di reato vanno a vario titolo dal riciclaggio al falso, per finire ai reati tributari.

Tutto sarebbe iniziato tra il 2015 e il 2016, quando nelle raffinerie della Saras di Sarroch arrivarono 25 navi cariche di greggio di origine irachena e provenienza turca, secondo i pm Guido Pani e Danilo Tronci. All’epoca il Kurdistan, approfittando del conflitto scatenato da Daesh in Siria e in Iraq, aveva dato il via alla commercializzazione del greggio estratto dai suoi giacimenti senza l’autorizzazione da parte del governo di Baghdad.

L’ipotesi che oli minerali di “proprietà” dell’Isis fossero arrivati nelle raffinerie sarde era già stata avanzata anni fa in una inchiesta di Report, accusa immediatamente smentita dall’azienda e da Federpetroli.

L’origine del prodotto, scrivono ora i magistrati, risulta attestata tramite dichiarazioni non idonee né ufficiali. Il carico, stando alla ricostruzione degli inquirenti, è della Petraco Oil company, ed è stato acquistato dalla Edgwaters Falls, società delle Isole Vergini, che a sua volta lo avrebbe comprato il carico da un’azienda turca. Prima c’era stato un’ulteriore passaggio: i turchi lo avrebbe a loro volta acquistato in Iraq.

Edgwater Falls, secondo la Guardia di Finanza, è “una società di comodo”, off shore, della Petraco. I finanzieri ritengono inoltre che il carico sia arrivato direttamente dall’Iraq, senza mai passare dalla Turchia, e che la sua gestione non sia stata passata sotto l’ente petrolifero di Stato iracheno, che è, scrivono i pm, “l’unico autorizzato dal diritto internazionale”. A muoverlo sarebbe stati prima i terroristi di Daesh e poi i curdi.

Una ricostruzione supportata, ritengono gli inquirenti, dai bonifici. Saras avrebbe infatti versato circa 14 miliardi alla Petraco, soldi che poi si perdono verso società “gemelle” come Edgewaters.

In un caso, un bonifico di 217 milioni di dollari viene destinato alla Powertrans, società turca che, secondo gli inquirenti, è “soltanto una cartiera utilizzata per fornire la documentazione commerciale che occultasse il rapporto diretto con il venditore curdo, non legittimato sul piano internazionale”.

4 miliardi sarebbero invece finiti al ministero dell’Economia e delle Risorse naturali curdo. In quel periodo, aggiungono i pm, i pozzi “finiscono sotto il dominio delle milizie islamiche”. Dalla documentazione acquisita, si legge ancora nel decreto di perquisizione, presso la filiale tedesca di Unicredit “è emersa un’operazione di storno di 60 milioni effettuata dalla Edgewaters al governo curdo, per cui “si può ragionevolmente ipotizzare che la restituzione del denaro sia dipesa dal fatto che la proprietà del greggio, in quel periodo, non era più curda ma dell’Isis”.

La Saras, che negli anni scorsi aveva smentito la ricostruzione di Report, si dice tranquilla respingendo nuovamente in maniera “ferma” ogni associazione del nome della società “al contrabbando di petrolio e di carburante, in quanto del tutto priva di fondamento e lesiva della immagine propria e dei collaboratori del gruppo”. E spiega di aver fornito tutta la documentazione richiesta dalla magistratura. Sulla stessa linea anche Federpetroli.

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