‘Le ragioni dell’Infanzia’ con Tato Russo per Pirandello al Teatro Bellini di Napoli

Pièce in tre atti dalle forti tinte emotive, è in scena al Bellini di Napoli, ‘La ragione degli altri’ riscritta da Tato Russo, dall’opera del premio Nobel per la letteratura Luigi Pirandello.

Datato fine 1895, il lavoro ha avuto una sofferta scelta del titolo: prima ‘Il nido’, cambiato in ‘Il nibbio’ e successivamente in ‘Se non così’, per poi chiamarsi definitivamente appunto ‘La ragione degli altri’, col quale fu ribattezzata quando fu rappresentata per la prima volta dalla Compagnia Stabile milanese di Marco Praga al Teatro Manzoni di Milano, il 19 aprile 1915, impreziosita dalla interpretazione della grande Irma Gramatica.    Originale riscrittura da Pirandello, quella di Tato Russo – che ne è anche regista e interprete principale – punta al recupero dell’autenticità di un dramma borghese, in cui dalla formale accettazione del tradimento parte un processo di acquisizione del dramma interiore vissuto dai personaggi  La chiave forgiata da Russo apre le porte all’attualizzazione del lavoro di Pirandello, scovando nei meandri dell’animo umano le emozioni reali delle figure coinvolte: innanzitutto le tre del triangolo – nel quale le due figure femminili sono dominanti per quanto apparentemente soccombenti – e quella di un padre sofferente perché apparentemente non ascoltato dalla figlia tradita e sommessamente sanguinante nell’animo.

La messa in scena va ben oltre la paternità del novecento e del razionalismo, per spingersi all’interno della tragedia familiare, riuscendo ad evitare il grottesco, con la sua densa e pregnante umanità e la sua palpabile disperazione che rende vivi i personaggi, ormai liberi dalle maschere, sul palcoscenico come nella realtà che recitano. Non quindi guidati appropriatamente dall’autore e dal suo gioco, ma pienamente umani e concreti ‘carne autentica’, tesi verso una scelta squisitamente introspettiva e di approfondimento sulla natura umana e sulla morale.

La trama nella trama narra di un giornalista dalla vita concitata e frenetica, Leonardo, sposato con la generosa ed agiata Livia, che intrecciata una relazione con una ex fidanzata, Elena, da questa ha una figlia. Quella figlia che la moglie non può avere, in quanto sterile.  La prassi o, per tanti, la ‘ragione’, vorrebbe che Leonardo lasci Livia per andare a vivere con l’amante, per costruire insieme a lei una famiglia completa.

Ma, c’è sempre un ‘ma’ nell’opera pirandelliana, che indaga costantemente l’animo umano e ciò che si cela dietro tante apparenze e soprattutto penetra dietro i formalismi, le situazioni di facciata.

Il ‘ma’, stavolta, è costituito dalla presa d’atto da parte di quello che potrebbe apparire di primo acchito un dongiovanni, dell’essere ancora innamorato della consorte. Una moglie paziente, ragionevole, altruista, animata da una forza interiore che ne fa la vera protagonista di questo lavoro e per alcuni versi pure uno dei più bei personaggi creati da Pirandello Leonardo non vuole separarsi e mettere su un nuovo nucleo: decide di rimanere con Livia e questa decisione è come una nuova dolorosa scelta che rischia di smembrargli l’anima, giacché dall’altro lato c’è una figlia, quella che Livia purtroppo non è riuscita a dargli ‘perché Dio non ha voluto’.

È a questo punto che la moglie, ormai certa dell’amore saldo coniugale, ma comunque ferita profondamente per il tradimento subito dall’uomo amato e ancora di più per quel concepimento a lei negato, strategicamente punta tutte le sue carte sulla vendetta più tremenda ed efficace: il perdono! Lo fa convinta e in pace con i suoi principi con quella che lei reputa essere la giusta morale.

Non solo, propone anche di accettare in casa sua la figlia di quella rivale che le aveva portato via – pur temporaneamente, ma i propositi dell’ altra erano ben diversi e puntavano sul ‘per sempre’ – l’affetto del coniuge comprendendo che suo marito non può separarsi dal proprio sangue, un uomo non può farlo!.  È il trionfo della comprensione e l’annullamento dell’orgoglio, mirato al bene principale – e moralmente ineccepibile -: quello che tutela l’infanzia, quindi la piccola e il suo avvenire La bambina ha pieno diritto ad una vita serena ed agiata e soprattutto ad avere il cognome del padre, ed attraverso questo, ha diritto all’accettazione piena del suo esistere da parte della società.

Se, inizialmente, Elena reagisce violentemente alla proposta di privarsi della propria figlia, alla fine è costretta a convincersi che la ‘ragione’ è quella degli altri e non la sua: quest’ultima rischia di apparire a tutti – nella finzione scenica che è essa stessa realtà, agli occhi del Marstro e dei tecnici ed assistenti, così come a quelli degli spettatori in platea  una logica egoistica e disumana e non più il grido doloroso di una madre privata della sua piccola, che pure otterrà un futuro benestante e dignitoso, possibilità che dovrebbe farla subito riflettere e prevalere sul possesso della sua creatura diventata, al di là della volontà delle parti in causa, oggetto di competizione. Proprio come tante volte, troppe, accade ai giorni nostri in caso di separazione dei genitori: basta guardarsi intorno per ritrovare nel quotidiano questo dramma sempre più diffuso, sempre uguale e ripetitivo.

Infine, nessuna vergogna, nessuno scandalo intaccherà o, peggio, sconvolgerà la rispettabilità di ciascun protagonista della storia, dominato dalla necessità di rincorrere una ragione che non sarà mai la propria, ma d’altri.

È un esperimento interessate quello che Tato Russo calibra a dimensione pirandelliana, non senza differenza, a tratti acuta, dal grande autore, slegandosi da esso e focalizzando il divenire su di una compagnia teatrale – teatro nel teatro – che si sta preparando ad inscenare la commedia in oggetto. Ma nel secondo atto del lavoro di Russo, la forza pirandelliana torna a giusta ragione con tutto il suo vigore, e va in scena – sempre sulla scena – il terzo atto della commedia originale pirandelliana, stavolta privo dei rumori che hanno caratterizzato il primo, ambientato a casa di Elena, dove avviene il grande scontro delle due rivali  La moglie (Giulia Gallone) e l’amante (Giorgia Guerra) si affrontano con ferocia e disperazione che penetrano gli spettatori, grazie alla intensa interpretazione delle attrici, all’energia e al consapevole amore oltre che al rispetto per il grande Pirandello.

Entrambe le donne sono determinate a difender più che il proprio bene – per il quale mostrano poco interesse – quello che più hanno a cuore.

Livia ed Elena pugnano come guerriere, con una forza estrema, del tutto sconosciuta a qualsiasi uomo, ancora più lontana e superiore rispetto a ‘quell’uomo’. Impacciata e timida la figura di lui (Armando De Ceccon) che vorrebbe derimere ciò che non è in grado di derimere e non riesce nemmeno a recuperare un minimo di dignità in quel contesto tanto più grande di lui.

È l’annullamento del sé teso alla felicità dell’altro, ancora più evidente a tratti nella moglie.

Le proprie ragioni abdicano dinanzi alle ragioni degli altri. La propria stessa personalità viene cancellata in uno sforzo sublime a favore di quella degli altri  Le due donne si investono vicendevolmente con intense battute che fanno parte direttamente o meno, ma comunque, della vita di ciascuno, del dramma individuale e interpersonale, oggi come e più di ieri, evidenziando la grandezza del Nobel Pirandello, attraverso l’assoluta e trionfale contemporaneità del testo.

È la bambina, nella sua totale innocenza, quindi priva di morale – falsa o autentica, giusta o meno che sia – e di alcuna inibizione, a determinare la conclusione mirata alla salvaguardia delle sue ragioni, imprescindibili e al di sopra di tutto, anche delle stesse vite di chi la circonda.

Russo mette l’accento sugli stereotipi diffusi e conosciuti del mondo teatrale, tratteggiando in maniera indovinata, ad esempio attraverso l’effetto sapientemente comico dato dai ‘Rumori fuori scena’ di Michael Frayn. Fornisce la sua interpretazione di un tema che ha visto cimentarsi molti autori e tra essi i grandi Fellini ne ‘I vitelloni’, Risi nel suo ‘I mostri’.

È un regista che ironizza marcatamente sul ruolo di regista, quello interpretato da Tato Russo che pretende di essere chiamato ‘Maestro’ a prescindere, esige continue manifestazioni di devozione, incespica spesso, ma non perde occasione per rimarcare le pecche altrui, dimentica la parte e sniffa cocaina, pur raccomandando al giovane aiutante di non toccare quella ‘medicina’.. ed è allora che il pubblico di chiede se stia tutelando la sua roba o voglia proteggere l’altro, inesperto, dal vizio.. o entrambe le cose.

Sia gli attori che i tecnici sono costretti ad esaudire le sue continue e spesso immotivate richieste – per sbarcare il lunario bisogna fare anche questo: amara verità anche nella società contemporanea dove a far l’attore, si ci ritrova purtroppo spesso a dover fare i conti con la precarietà, le difficoltà nel reperire i finanziamenti, la mancanza di puntualità – divenuta proverbiale – nell’erogazione degli stessi, l’indifferenza di una società poco incline al pensiero riflessivo, la superficialità degli spettatori frequentemente presi dall’ossessione del “giusto rapporto qualità/prezzo” ovvero dal timore di avere pagato troppo la poltrona. Un attualissimo spaccato di professione dalle note dolenti.

Gli attori sulla scena, sono dunque soggetti pure alla conditio costrittiva – alla quale finiscono col ribellarsi ad una ad uno – di indossare una maschera, e qui il riferimento a quei ‘Sei personaggi in cerca di Autore’ che si presentano, ma in effetti hanno sbagliato commedia.

C’è una scenografia che sembra non arrivare mai, laddove il Teatro Unione di Viterbo appare defraudato delle quinte e si possono provare le battute con la bimbetta, che sarà in scena soltanto in chiusura dello spettacolo.

Poi c’e la sarta, attrice mancata – ed il regista non perde l’occasione per rimarcarlo – , non proprio simpatica agli attori, che insegue i destinatari dei suoi costumi.

Il pubblico assiste – in partenza incuriosito, dopo un po’ infastidito o solo perplesso – alle modifiche della commedia di Pirandello, decise da un prepotente regista, interpretato da Tato Russo, determinato a stravolgere la tematica pirandelliana. Attraverso continue prove della commedia, sottoposta a revisioni, tagli, sostituzioni, ai tanti immancabili problemi e ritardi dietro le quinte, Tato Russo rende palese la sua denuncia e la sua rivoluzione: via le maschere e largo alle passioni, alla carne viva, alla verità che nel teatro devono trovare ampia e dignitosa affermazione, anche attraverso la discussa scelta di un linguaggio che il regista si sforza di rendere quanto più comprensibile possibile, ricorrendo pure al turpiloquio – non sempre e non da tutti gradito – finalizzato a una recitazione più realistica e ad aggiungere intensità, mentre elimina i termini dialettali e semplicizza i discorsi originali, per attualizzare ed anche per alleggerire la pièce puntando ad una maggiore fruibilità da parte del largo pubblico. Una scelta precisa.

da Luigi Pirandello
riscritto, diretto e interpretato da Tato Russo
con
Tato Russo, Renato De Rienzo, Massimo Sorrentino, Armando De Ceccon, Giulia Gallone, Giorgia Guerra, Francesco Ruotolo, Claudia Balsamo, Riccardo Citro, Carolina Scardella
scene Peppe Zarbo
costumi Giusi Giustino
musiche Zeno Craig
disegno luci Roger La Fontaine
produzione TTR il Teatro di Tato Russo
Fino all’11 febbraio al teatro Bellini.

Teresa Lucianelli

Circa Redazione

Riprova

DEBUTTO NAZIONALE – “La storia di un uomo chiamato: FRANCESCO” 3 maggio ore 21.00 Teatro San Raffaele

Per la prima volta viene portato in scena a Roma lo spettacolo, scritto e diretto …

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com