Da Washington, precisamente dall’Atlantic Council, uno dei principali think-tank Usa, specificamente focalizzato su politica estera e rapporti transatlantici, arriva un report firmato da quattro analisti (tra cui spicca il nome di Jorn Fleck, senior editor dello Europe Center del think tank, cioè della divisione che si occupa del Vecchio Continente) è significativamente intitolato: “Dispaccio da Roma: la stabilità politica dà all’Italia la possibilità di entrare sotto la luce dei riflettori”.
Il ragionamento dei quattro autori è assolutamente lineare: e parte dalla “relativa stabilità” che – cosa tutt’altro che usuale per noi – contraddistingue oggi la politica italiana e la condizione del governo Meloni.
La posizione della premier è salda – spiegano gli analisti – sia per gli elevati tassi di approvazione nei sondaggi sia per la mancanza di “reali minacce” dall’opposizione o all’interno della sua maggioranza. Questo consente all’azione dell’esecutivo di avere potenzialmente un maggior impatto in politica estera: il report cita l’occasione della prossima presidenza italiana del G7, ma poi vira su tre aspetti strutturali: la necessità di “rimettere al centro il Mediterraneo” (è la questione del fianco Sud della Nato, mentre ovviamente oggi l’Alleanza è molto concentrata sul suo lato orientale), la prospettiva del corridoio India-Medio Oriente-Europa, e il Piano Mattei lanciato da Meloni (sia in termini di grandi opere infrastrutturali sia nell’ottica di fare dell’Italia un hub energetico dell’area). Quindi, in supersintesi: stabilità in casa come precondizione per un rinnovato protagonismo geopolitico italiano.
Tornando al dibattito politico domestico, sarà bene che i nemici del governo vengano a patti con una nuova realtà: due termini che di solito in Italia si usano intercambiabilmente (atlantismo ed europeismo) non sono necessariamente sinonimi. Probabilmente non lo sono mai stati: ma oggi non lo sono certamente, e meno che mai automaticamente.
Se ne dovrebbero trarre alcune conseguenze. La prima: può certamente far danno ma ha meno chances di riuscire il solito gioco di usare le istituzioni Ue per aggredire un governo italiano “sgradito”. Meloni può difendersi da queste minacce non solo contando di più in Ue ma anche grazie a un saldo rapporto con Washington.
La seconda: se il motore del governo fatica a girare sul piano delle riforme nazionali, il posizionamento in politica estera è stato invece eccellente sin dall’inizio. Tutto (Africa, energia, difesa, per citare solo tre macro-aree) non va più pensato tanto e solo in ottica europea, ma va collocato in una cornice geopolitica e geoeconomica ancora più vasta, oggettivamente legata al confronto – destinato a durare a lungo – tra Occidente e potenze asiatiche. E una netta scelta di campo, senza ambiguità, era e rimane indispensabile.
La terza: certo che l’Italia è e rimane protagonista in Ue, anche come paese fondatore. Ma occorre evitare che eventuali novità in Europa (ad esempio sul piano della difesa) si traducano in un posizionamento “terzo” tra Nato e avversari dell’Occidente, dando l’idea (purtroppo, non solo in Germania, alcuni sono stati e sono ancora sensibili a una simile narrazione) che Bruxelles debba divergere anche da Washington. L’Italia può e deve spingere in senso opposto: fortificando, non attenuando, la relazione transatlantica.
La quarta: tutto ciò che l’Italia desidera in termini di maggiore protagonismo energetico, nel Mediterraneo, in Nord-Africa (non di rado in aperta competizione con la Francia: di qui il nervosismo di Parigi e di non pochi riferimenti italiani dei vertici politici transalpini) richiede una relazione solida e una chiara fiducia degli alleati americani. Non si tratta di un’opinione: ma di un fatto con cui chiunque abbia un poco di realismo deve misurarsi.