Presentazione di ‘Calafiore’ romanzo di Arturo Belluardo

Giovedì 11 aprile si è tenuta alla TAG di Roma la presentazione del nuovo romanzo di Arturo Belluardo, “Calafiore” (Nutrimenti Edizioni, € 17). Arturo Belluardo è alla sua seconda prova narrativa, dopo il fortunato esordio con Minchia di mare (Elliott, 2017), con la quale ci racconta le peripezie di un perdente: l’obeso, bulimico Calafiore. Ossessionato dal cibo, spinto dalla sua compagna Serena a patetici ed esilaranti tentativi di dimagrire, Calafiore percorre la sua spirale di sconfitta abbandonando amore, lavoro e casa. Cercherà il riscatto, tentando di battere il Guinness per chi mangia più tramezzini in un quarto d’ora. Ma non ha fatto i conti con due giovani angeli della morte, due cannibali che hanno deciso di divorarlo in diretta web.

E’ un romanzo potente e tenero, delicato e grottesco,  che mescola generi e linguaggi, comico e splatter, e che propone un’amara e grottesca riflessione sulla ‘società che mangia’ fino a divorare sé stessa. Libro che già al suo esordio vede sponsor d’eccezione, dal critico Stefano Gallerani, che lo ha presentato alla TAG come “un romanzo divertente, intelligente, satirico politico e esistenzialista con personaggi a tutto tondo e memorabili caratterizzazioni”, alla veterana Rossana Campo che ha definito Belluardo “uno scrittore vero, esagerato, pirotecnico, dolcissimo”.

Arturo Belluardo, come le è venuta l’idea di questo romanzo, di parlare di un bulimico e della sua ossessione per il cibo?

E’ partito tutto da un lavoro su di me, sulle mie ossessioni. Fino all’anno scorso ero un obeso grave, pesavo quarantacinque chili in più: per risolvere il problema, oltre a sottopormi a un intervento chirurgico, mi sono messo a riflettere su cosa fosse questa pulsione che mi spingeva a ingurgitare senza alcun limite, per il solo gusto di ficcarmi il cibo in bocca. E a riflettere sulla schizofrenia della nostra comunicazione che, se da un lato, ti spinge verso stili di vita salutistici, verso diete dai nomi improbabili, la tisanoreica, la diarroica, che ti impone modelli fisici iperpalestrati e perfetti, uomini muscolo tatuati e dalle sopracciglia depilate, dall’altro ti bombarda ossessivamente con il cibo: se accendi il televisore ci sono dappertutto trasmissioni sulla cucina, Masterchef, La prova del cuoco, Camionisti in trattoria… Cibo che è solo immagine patinata, inconsistente, non ha odore, non ha sapore. Ecco, pensi a come si può collocare, cosa può provare una persona con disturbi alimentari davanti a tutto questo.

E a questo si aggiunga la ridicolizzazione sociale dell’obeso. Mentre a nessuno verrebbe in mente di chiamare “storpio” una persona con problemi di deambulazione, per i grassi non è così: chiunque si sente autorizzato a fare battute sulla tua forma fisica, a chiamarti “Ciccio”, a consigliarti una dieta, a darti manate sulla pancia. Nessuno pensa che l’obesità è una malattia dell’anima.

Perché ha voluto introdurre due cannibali nella storia? E’ un elemento forte da trattare, quasi un tabù…

La mia è una storia dal retrogusto politico, è la società che mangia i suoi figli, che mangia se stessa. Mi sembrava significativo mettere in mezzo due cannibali, due giovani angeli della morte, che, senza un vero motivo, agendo di puro istinto, si mettono a mangiare le persone. E poi, per darsi una motivazione, decidono di divorare a loro volta chi fagocita la base debole della nostra società, chi sfrutta senza pietà gli uomini neri, i clandestini, per poter prosperare. Ho portato all’estremo il ragionamento che c’è alla base del veganesimo: e cioè, se io per nutrirmi sono disponibile a cibarmi di altri esseri viventi, perché non posso mangiare un mio simile? Che differenza c’è tra un vitello e un uomo? Dov’è il tabù allora?

Quali sono stati i suoi riferimenti letterari per questo romanzo?

Io sono nato e cresciuto a Siracusa, dove si cresce a “pane e tragedia”, parto sempre dai classici per i miei lavori: in questo caso Procne e Filomela, ma soprattutto il “Tieste” di Seneca, al quale viene imbandito un banchetto con la carne dei propri figli. Ma il mio romanzo è intriso anche di cultura pop, per cui tutto il mondo della Marvel Comics la fa da padrone, Galactus, il divoratore di mondi, soprattutto. Per la struttura e per l’uso iperrealistico e quasi acido del linguaggio mi ha molto influenzato “Lo cunto de li cunti” di Basile e naturalmente il mio amato Gadda. Per scrivere dei cannibali, ho consultato un’ampia “enciclopedia” mostruosa, il cannibale di Rostov tanto per citarne uno, ma non mi è servito a niente. O quanto meno mi è servito a delimitare il perimetro della mia scrittura: non volevo fare dei miei cannibali, Marta e Federico, due psicopatici, ma due ragazzi normali. Mi sono avvalso della lezione di Cormac McCarthy, un maestro nel descrivere avvenimenti atroci con una sapienza da entomologo. Di una qualche utilità mi è stato “Jungle Ways” di William B. Seabrook, un grande scrittore di viaggi, grande alcolista e grande amico di Gertrude Stein, che racconta molto dettagliatamente il suo incontro con i cannibali.

Che lavoro ha fatto sul linguaggio?

Per raccontare la storia di Calafiore ho spinto molto sul pedale del comico, del grottesco e della tenerezza, volevo che il lettore si affezionasse a quest’uomo enorme e triste, che non provasse repulsione per lui, ma che entrasse dentro lo schermo di adipe che lui si è costruito negli anni. Calafiore è un buono, un ignavo, un essere, se vogliamo, amorfo, ma incapace di fare del male, uno che si lascia scorrere la vita addosso senza esserne protagonista. Al tempo stesso, ho voluto relegare i personaggi che lo circondano ( la compagna Serena, il cugino anoressico Mauro, la figlia Giada) nello stereotipo, nella bidimensionalità, come se il grasso impedisse a Calafiore di coglierne lo spessore e lasciasse tutto in superficie.

Per i cannibali è stato tutto molto più complicato: poiché non sono io stesso capace di entrare nella testa di due mostri, ho cercato di raffreddare la materia, che era già di per sé bollente di suo, adottando un linguaggio fortemente letterario e limitandomi a descrizioni glaciali degli orrori che perpetravano. E giocare sull’effetto di straniamento per rendere ancora più terribili gli avvenimenti

Il romanzo è dedicato, tra l’altro, a Paolo Villaggio. Potremmo dire che Calafiore é figlio di Fantozzi?

Sicuramente nel costruire il personaggio dell’impiegatone eterna vittima della burocrazia e del potere che lo divora, una qualche ispirazione ai racconti di Villaggio c’è stata: ma del Villaggio scrittore però, quello che sentivo la domenica mattina alla radio leggere i racconti di Fantozzi. Grande penna, sopraffatta poi dalla macchietta cinematografica. Fantozzi però è soprattutto vittima di se stesso, del suo atavico servilismo e della sua adulazione del potere. Calafiore forse è più un capro espiatorio, un uomo che deve soffrire per mettere in luce i peccati degli altri.

In realtà di Paolo Villaggio ho sempre ammirato il modo spietato con cui parlava della sua bulimia, con grande coraggio, soprattutto per essere un uomo. Raccontava di come gli fosse impossibile alzarsi di notte, aprire il frigorifero e non smettere di mangiare finché non lo svuotava. E’ difficile che gli uomini confessino le loro nevrosi e le loro debolezze: preferiscono passare per “magnoni” e riderci su, mentre il grasso è proprio l’epitome della sofferenza, non dell’allegria.

Quali sono i suoi progetti futuri?

Intanto partirà la “tournèe Calafiore”: presenterò il libro l’11 maggio al Salone del Libro di Torino, il 15 maggio a Roma con la Scuola di scrittura “Genius” in una serata evento che unirà scrittura e degustazione. Poi ci sarà Milano, libreria Centofiori il 23 maggio, Catanzaro il 27, il Festival Marina di Libri a Palermo ai primi di giugno, Siracusa, Catania e Caltagirone a fine giugno, Vasto il 13 luglio. Poi mi piacerebbe riprendere il progetto “Parole e ombre”, che l’anno scorso ha avuto un bel successo combinando scrittura, fotografia e performance, magari dandogli un taglio tematico. Mi riprometto anche di lavorare alla riscrittura del mio primo romanzo, Il ballo del debuttante, ancora inedito, a una raccolta di racconti e… alle sirene!

Barbara Lalle

 

 

 

 

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