Mondo di sinistra e l’ossessione della cultura patriarcale colpevole dell’omicidio di Giulia Cecchettin

La sinistra usa il dramma dell’omicidio Giulia Cecchettin per attaccare il governo e il centrodestra. I progressisti a caccia di qualche decimale in più nei sondaggi sfruttano anche la morte di una ragazza di 22 anni per fare propaganda contro i conservatori. Un copione già visto ma che questa volta sfocia nello sciacallaggio. E nel mirino è finito l’intero universo maschile, senza alcuna distinzione.

secondo il fronte rosso alla base dell’omicidio di Giulia Cecchettin  ci sono un’impronta culturale ben precisa che chiama alla responsabilità gli uomini e una concezione del modello patriarcale che influenza in maniera negativa gli assassini. Ma davvero è così? Per Nicola Gratteri si tratta di un’interpretazione non aderente alla realtà, che invece è assai complessa e si inserisce in un contesto che tira in ballo anche il ruolo della famiglia.

Il procuratore di Napoli, intervistato da Giovanni Floris nel corso dell’ultima puntata di Dimartedì su La7, è stato interpellato proprio sul caso della morte della studentessa 22enne di Vigonovo. Negli ultimi giorni nei talk show e negli spazi di dibattito pubblico è tornato centrale il tema dei femminicidi, con la sinistra che non ha perso occasione per puntare il dito contro il patriarcato indicandolo come responsabile di una deriva di violenza contro le donne e di una serie di aggressioni sulla base del genere.

Tuttavia per Gratteri non si tratta di una cultura diffusa nel nostro Paese e nel territorio tanto da essere considerata una componente essenziale dei reati in questione. “No. Questi reati sono il risultato dell’abbandono dei giovani di decenni, di cattiva educazione e di egoismo dei genitori che non seguono i figli”, è stata la replica puntuale all’osservazione di Floris sul fattore del patriarcato. Di fronte a una “famiglia sbagliata” lo Stato e la scuola devono certamente intervenire, ma il procuratore di Napoli ha fatto notare che “prima viene la famiglia”.

A tal proposito ha sottolineato la necessità dell’intervento degli assistenti sociali: a suo giudizio, di fronte a casi di criminalità e di forte rischio per il futuro dei figli, sarebbe doveroso togliere la patria potestà ai genitori “e non aspettare che si nutrono di cultura mafiosa o sbagliata e poi quando hanno 15 anni che li togli a fare se ormai…?”. Gratteri ha invitato a promuovere finanziamenti importanti, ad esempio garantendo il servizio del tempo pieno a scuola.

C’è chi ha avanzato teorie assurde, imputando a tutti gli uomini la colpa per i femminicidi.  Un’accusa choc, come se fosse il genere di appartenenza a determinare la responsabilità. Un ragionamento che via via si va diffondendo in maniera pericolosa anche perché si crea un effetto paradossale: etichettando la collettività come colpevole si finisce per deresponsabilizzare chi invece ha commesso con le proprie mani un femminicidio. Sulla cultura patriarcale  vi è stato uno scontro di fuoco tra Giorgia Meloni e Lilli Gruber, con il presidente del Consiglio che ha respinto la strumentalizzazione politica dell’omicidio di Giulia Cecchettin.

In un editoriale dal titolo “Le difficoltà del maschio ad accettare la sconfitta”, Luca Ricolfi fornisce  sul Messaggero uno spunto di riflessione per il dibattito sulla violenza contro le donne, invitando a tenere conto delle “evidenze empiriche” nella ricerca delle cause. Ed è sulla base di queste evidenze che formula la sua “ipotesi”: le radici della violenza contro le donne non vanno cercate nel patriarcato, ma nella “cultura dei diritti”. Il ragionamento di Ricolfi parte dal cosiddetto “paradosso nordico, ovvero il fatto che “i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrano nei Paesi considerati più civili, o addirittura in quelli più avanzati in materia di parità di genere”. “Non tutti lo sanno, ma nei civilissimi Paesi scandinavi, in Germania, in Francia, nel Regno Unito, le donne rischiano la vita più che in Italia. In Europa solo Irlanda e Lussemburgo hanno tassi di uccisione delle donne minori che in Italia. E se allarghiamo lo sguardo alle società avanzate non europee, solo in Giappone le cose vanno meglio che in Italia: Paesi come Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Israele, Corea del Sud hanno tutti tassi di uccisione maggiori di quelli italiani”, chiarisce il sociologo, ponendo la domanda “come mai?”.

Il “paradosso nordico” e le “evidenze” ignorate

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