Meloni al Cairo per un Summit per la pace in Medio Oriente

Giorgia Meloni ha ribadito al Summit per la pace del Cairo che “l’Italia è pronta a fare tutto ciò che è necessario” per arrivare a “una soluzione strutturale” della crisi in Medio Oriente, “sulla base della prospettiva dei due popoli, due Stati”. Il premier non ha nascosto le difficoltà insite anche nel vertice, che vede Paesi arabi ed europei su posizioni di partenza diverse. Ma ha puntato su ciò che unisce per “continuare a dialogare e ragionare”. Uno sforzo necessario “per il quale è importante essere qui”. E ciò che unisce è innanzitutto evitare l’allargamento del conflitto ad altre aree e ad altri piani, evitare di fare il gioco dei terroristi, che punta ad azzerare qualsiasi possibilità di stabilizzare l’area. “Sarebbe una cosa molto, molto stupida – ha avvertito Meloni – cadere nella trappola di Hamas“. A margine dei lavori Meloni ha anche avuto un bilaterale con il presidente dell’Anp, Abu Mazen.

Meloni ha aperto il suo intervento al Cairo con la netta condanna dell’attacco del 7 ottobre a Israele, parlando di “efferatezza senza precedenti”, che “lascia inorriditi” e che si deve “condannare senza ambiguità”. Un passaggio che ha un valore politico molto forte, perché proprio la condanna netta di Hamas, secondo quanto trapelato, mancherebbe dalla bozza delle dichiarazioni finale del vertice, insieme a un altro passaggio considerato cruciale per l’Europa e sul quale pure Meloni si è soffermata nel corso del suo intervento: quello sul diritto di Israele a difendersi.

Per l’Italia, ha spiegato Meloni, era “doveroso” partecipare al vertice del Cairo, per lo storico ruolo di “ponte per il dialogo tra Europa, Mediterraneo e Medio Oriente” e anche per la fiducia nel fatto che il summit, al di là dei diversi punti di vista iniziali, possa concentrarsi su un punto di interesse comune “perfettamente sovrapponibile” per tutti i leader presenti al tavolo, ovvero che “ciò che sta accadendo a Gaza non si trasformi in una guerra di religione, in uno scontro tra civiltà, rendendo vani gli sforzi che pure coraggiosamente in questi anni sono stati fatti per normalizzare i rapporti”.

“L’impressione che ho io, e lo dirò con la franchezza che mi è propria – ha proseguito Meloni – è che per le modalità con le quali si è svolto fosse questo il vero obiettivo dell’attacco di Hamas: non difendere il diritto del popolo palestinese, ma costringere a una reazione contro Gaza che minasse alla base ogni tentativo di dialogo e creasse un solco incolmabile tra i Paesi arabi, Israele, l’Occidente, compromettendo definitivamente pace e benessere di tutti i cittadini coinvolti, compresi quelli che si dice di volere difendere e rappresentare”. “Il bersaglio” di Hamas, ha messo in guardia il premier, “siamo tutti noi e io non credo che noi possiamo cadere in questa trappola, sarebbe – ha sottolineato – una cosa molto, molto stupida”.

Meloni, quindi, ha voluto ribadire con forza e chiarezza “tre punti fermi”. Il primo: “Il terrorismo ha colpito il mondo musulmano più di quanto abbia colpito l’Occidente. Le azioni terroristiche hanno indebolito le legittime istanze dei popoli, soprattutto nel mondo musulmano. In questa dinamica si inserisce la scelta di Hamas, che usa il terrorismo per impedire qualsiasi dialogo”. “Nessuna causa – ha proseguito il premier – giustifica il terrorismo, nessuna causa giustifica donne massacrate e neonati decapitati, volutamente ripresi con una telecamera. Nessuna causa. Di fronte ad azioni di questo tipo uno Stato è pienamente giustificato a rivendicare il suo diritto all’esistenza e alla difesa”.

“Ma”, ha aggiunto Meloni con altrettanta fermezza, “la reazione di uno Stato non può e non deve mai essere motivata da sentimenti di vendetta. Uno Stato fonda la sua reazione sulla base di precise ragioni di sicurezza, commisurando la sua forza e tutelando la popolazione civile. Questo è il confine nel quale la reazione di uno Stato deve rimanere di fronte al terrorismo e io sono fiduciosa – ha sottolineato – che sia anche la volontà di Israele”

Infine, il terzo punto: l’Italia considera “priorità immediata l’accesso umanitario, indispensabile per evitare sofferenze ai civili”, ma anche “esodi di massa che contribuirebbero a destabilizzare questa regione, cosa – ha sottolineato Meloni – di cui non abbiamo bisogno”. Il premier quindi ha riconosciuto l’importanza del lavoro fatto in questo senso da molti degli attori presenti alla conferenza, ha ricordato l’aumento degli aiuti a Gaza  stabiliti dall’Ue e ha ricordato che anche l’Italia lavora in questa direzione, ma che considera indispensabile “un rigidissimo controllo su chi utilizza le risorse”. Poi un passaggio sull’apertura del valico di Rafah, che ha consentito l’ingresso nella Striscia di Gaza dei primi aiuti.

“Novità incoraggianti”, l’ha definito Meloni, ringraziando per questo al Sisi e tornando sul tema della “grande preoccupazione per gli ostaggi nelle mani di Hamas”, tra i quali ci sono anche cittadini italiani, e per i quali chiede il “rilascio immediato, a partire da donne, bambini e anziani”, insieme alla richiesta di far uscire da Gaza i soggetti fragili e i cittadini stranieri. “Bisogna fare l’impossibile – ha detto Meloni – per evitare una escalation di questa crisi e di perdere il controllo di quello che può accadere, perché le conseguenze sarebbero inimmaginabili”. “Il modo più serio per ottenere questo risultato – ha chiarito Meloni – è riprendere un’iniziativa politica per una soluzione strutturale della crisi sulla base della prospettiva dei due popoli, due Stati. Una soluzione che deve essere concreta e avere una tempistica definita”. “Il popolo palestinese ha diritto ad avere un nazione che si governa da sé, in libertà, accanto a uno Stato di Israele cui deve essere pienamente riconosciuto il diritto all’esistenza e alla sicurezza. Su questo – ha concluso il premier – l’Italia è pronta a fare tutto ciò che è necessario”.

Israele non ha ancora lanciato un’invasione su larga scala dell’enclave palestinese annunciata a poche ore di distanza dagli attentati di Hamas del 7 e 8 ottobre. Gaza City e le altre maggiori città del nord della Striscia sono ormai quasi completamente rase al suolo, rievocando alla memoria le immagini della città ucraina di Mariupol dopo gli attacchi della Russia. Tuttavia, tra le rovine ci sono i tunnel di Hamas, trappole e i pericolosi esplosivi Efp ad attendere le forze di difesa israeliane (Idf), che per questo non hanno ancora messo piede nella Striscia.

Mortai, razzi, missili, mine anticarro, fucili e anche i parapendii usati per superare il muro di Gaza. Sono quasi tutti sistemi forniti dall’Iran, ma una piccola parte è arrivata dalla Corea del Nord e dalla Siria

Efp sta per explosively formed penetrator. Letteralmente un esplosivo di penetrazione, e si tratta di ordigni esplosivi improvvisati (Efp), cioè artigianali, inventati in Iran e temuti da tutte le truppe occidentali mai arrivate in Medio Oriente. In particolare, gli Efp hanno terrorizzato l’esercito degli Stati Uniti durante la sua invasione dell’Iraq, per la loro portata e potenziale distruttivo di gran lunga superiori rispetto ad altre mine.

La fitta rete di tunnel sotterranei della Striscia di Gaza,  complesso sistema  nato negli anni Ottanta durante l’occupazione israeliana. Ieri come oggi, dai cunicoli passano beni di prima necessità e armi

Come ha scritto su X l’analista John Spencer, capo del dipartimento di studi sulla guerriglia del Modern war institute, “tra le molte sfide che l’Idf dovrà affrontare in una campagna di terra a Gaza ce n’è una che abbiamo temuto quotidianamente in Iraq: l’ordigno esplosivo iraniano Explosively formed penetrator”. Infatti, tra le armi catturate da Israele nei primi raid di risposta contro Hamas, si trovano decine e decine di Efp che però, assieme alle altre, costituirebbero appena il 20% dell’arsenale dei fondamentalisti.

È praticamente certo, quindi, che Hamas abbia disseminato di Efp i suoi tunnel e le strade della Striscia di Gaza, in corrispondenza dei punti di accesso che verranno usati dalle Idf per l’invasione su larga scala. E nonostante le truppe israeliane siano consapevoli e preparate al pericolo, è altamente improbabile riuscire a scampare a questi esplosivi negli spazi angusti delle città distrutte o per le truppe impegnate nella ricognizione dei tunnel. Tra i vari motivi per cui l’attacco di terra da parte di Israele non è ancora cominciato, come ha confermato alla Cnbc l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Daniel Kurtzer, vi è anche la preoccupazione tattica delle conseguenze di questi ordigni sulle truppe di fanteria.

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