‘Il giorno di un Dio’, scritto e diretto da Cesare Lievi, andato in scena al Teatro Argentina di Roma

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Roberto Staglianò, una recensione su ‘Il giorno di un Dio’, andato in scena al Teatro Argentina di Roma. 

                                                                         Il giorno di un Dio

Questa non è una recensione facile, forse è la più difficile che io abbia mai scritto finora. Userò spesso la prima persona singolare, perché quella che emerge vuole essere la mia voce interiore e la mia libera testimonianza in qualità di spettatore che è rimasto seduto sulla poltrona rossa del Teatro Argentinadi Roma  fino alla fine dello spettacolo, fino all’ultima battuta recitata, fino al momento di congedo con il pubblico. Andare via prima che lo spettacolo sia concluso e terminato è quasi sempre una forma e una grave mancanza di rispetto, di offesa all’arte. Tranne nelle rare eccezioni di vilipendio e violenza (fisica o verbale) gratuita.

Nonostante io abbia visto una dozzina di persone lasciare la sala, mi sento di affermare che quella non era una giustificata rimostranza. Premesso ciò, le mie considerazioni su ‘Il giorno di un dio’, nel pieno e totale rispetto della libertà di espressione di tutti, vogliono essere una riflessione libera ancor prima che critica. Sotto forma di domande che rimarranno volutamente aperte, anziché tesi o giudizi dal carattere dogmatico.

Cesare Lievi è un regista teatrale, scrittore e drammaturgo con una carriera internazionale plasmatasi nei principali e prestigiosi teatri del mondo, dal Metropolitan di New York alla Scala di Milano e all’Opernhaus di Zurigo. Ha curato diverse regie in Austria e Germania nonché la direzione artistica del Teatro Stabile di Brescia e del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.

Ricorrendo i cinquecento anni della Riforma protestante e luterana, Lievi ha portato in scena ‘Il giorno di un dio’, un lavoro teatrale su Martin Lutero con un cast di quattro attori tedeschi e quattro italiani sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma, dal 12 al 21 gennaio Inteso come uno spettacolo realizzato in due lingue, l’italiano e il tedesco, quasi come a voler simboleggiare il punto di rottura e la fine dell’unità linguistica europea del latino determinata dall’opera rivoluzionaria di Lutero, il quale si era ribellato al padre prima e al Papa dopo. L’ultimo atto della sua rivoluzione lo riserverà direttamente rivolgendosi a Dio.

La prima cosa che mi sono chiesto è stata perché lasciare parti recitate in tedesco e pezzi di monologhi non tradotti in italiano. Al contrario, le parti recitate in italiano non sono state proiettate costantemente in forma scritta e in tedesco  Mi sono chiesto se le parti recitate fossero le stesse, non conoscendo il tedesco. Perché lasciare allo spettatore una sensazione di incertezza e di mancanza nella narrazione?

Perché non è stata esplicitata e qual è il senso della scelta di un uso del codice linguistico, non nella sua accessibilità e fruibilità nel flusso della narrazione? Perché la lingua tedesca per un italiano come me che non sa parlarlo o comprenderlo, è stato utilizzato quasi come un elemento di performance in un’operazione definita ‘teatrale?’.  Se sfugge o manca il senso di un lavoro di regia, di drammaturgia, di improvvisazione o rappresentazione è teatro, arte visiva o cos’altro ancora? Se vengono smantellate e distrutte quelle poche, semplici e universali regole, quelle che sono funzionali alla decodifica del linguaggio del corpo e della parola è distruzione nichilistica o è il preambolo per costruire qualcosa?

L’opera realizzata in dodici scene, dodici immagini che, usando un linguaggio cinematografico, realizzano a livello estetico una fotografia sublime, perfetta ed esemplare nella sua mise en scène con tre sipari, trasparenti e non, posti su tre livelli diversi, che servono a preparare e separare spazi e quadri diversi  A volte lo spettatore assiste alla creazione della scena con i tecnici vestiti di nero che portano tavoli, poltrone, vettovaglie, piante e altri oggetti. A volte i sipari intercambiabili disvelano gli ambienti perfettamente composti e ricreati, assolvendo anche al compito e all’utilizzo come lavagne luminose. Il livello degli attori è notevole  Dodici frammenti che partendo dal ricordo di Martin Lutero spaziano e aprono finestre e visioni contemporanee sull’evoluzione della società, il rapporto che c’è tra Dio, il padre e l’uomo, il figlio. Il rapporto tra un padre, una madre e un figlio. L’ascesa verso l’alto e la caduta in basso, rappresentate da quattro lunghe scale metalliche. La parola di Dio e la sua interpretazione. L’autorità. La coscienza e la libertà, la tolleranza e l’intolleranza, il fanatismo e la guerra. La decadenza e l’importanza della parola scritta, dei libri. La sopravvivenza e la necessità dell’ordine, sono tutti contenuti molto interessanti, forse un po’ troppi, ma che senso ha far mancare un continuum volto alla comprensione?

Un lungo e costante esercizio di visualizzazione simbolica e di contrapposizione concettuale? Curioso è rilevare una sorta di aporia se pensiamo che Lutero tradusse il Codice, il corpus, la Bibbia in tedesco. E lo fece realizzando un ponte metaforico: mantenne il rispetto verso il testo originale e trovò il modo di essere innovativo. Al punto che Steiner nota come la sua traduzione sia diventata un monumento della lingua tedesca, nella sua esistenza culturale.

Ne ‘Il giorno di un dio’ un personaggio dice che non c’è peggior cosa di un ricordo morto. Un ricordo che non parla. L’ultima domanda che mi rimane allora è la seguente: il Teatro è di tutti o di poche élite? È  un bisogno inclusivo o un’esigenza artistica escludente?

Roberto Staglianò

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