‘L’infinito dei campi di grano’, recensione di Giorgia Nicodemi

Giovedì 11 aprile, al Teatro Trastevere in Roma, è andato in scena, unica data, lo spettacolo polisensoriale L’infinito dei campi di grano, per la regia di Giancarlo Moretti, tratto dal libro Aliene sembianze di Roberto Michelangelo Giordi, raccolta di racconti che racchiude storie di migrazioni, follia, libertà e resistenza.

Sul palco, la mirabile sinergia tra lo stesso Giordi, autore anche delle musiche, e Michelangelo Nari.

La mise en scène è scevra di orpelli retorici e si affida al mero gioco di suono e luci per esaltare le capacità attoriali (e canore!) di Nari e l’istrionismo di Giordi.

“Sono nato l’11 novembre alle falde del Vesuvio”, ci dice di sé il Narratore e subito ci prende per mano guidandoci nel ricordo della sua infanzia napoletana, infanzia diversa, infanzia aliena. A Napoli dunque, città sospesa tra la terra e il cielo, nasce e cresce un bambino apparentemente uguale, ma profondamente diverso dagli altri, forse – ce sta nu grande segreto– nato dalle stelle. Un bambino, che diventa progressivamente uomo senza conoscere il proprio nome e quindi sé stesso.

“Per mia madre esistevo, lei era un’aliena come me. Per lei esistevo e basta”.

Ma per esistere al mondo c’è bisogno della morte ed è in punto di morte che la madre lo rimette al mondo rivelandogli il proprio nome, Giorgio.

Odore di terra bagnata, campi di grano, l’azzurro del cielo, la grande festa pagana della preparazione delle conserve di pomodoro, opus alchemico campano: les intermittences du cœur di Giorgio diventano le nostre, mentre la musica ci porta lontano. Intraprendiamo lo stesso suo viaggio, novello Odisseo, esule e alieno, alla ricerca della propria identità, attraverso la voce delle sue pulsioni interiori e della sua immaginazione (il proteiforme Giordi), al ritmo delle stazioni, mordendo una mela che non è quella del peccato ma quella dell’atheleia.

Il viaggio ci conduce a Parigi, nuova Atlantide, in cui la pioggia è come Godot e Giorgio, nel caos di Belleville, è solo un pizzaiolo italiano. Nel vuoto arido dell’indifferenza della grande città, un venditore di ombrelli lancia il suo richiamo: “Mesdames et Messieurs achetez parapluies!” Ma la pioggia non arriva, o forse sì, o forse sono solo gli alieni, su flotte di astronavi, o forse è il richiamo oscuro degli antichi Ausoni che risuona dentro Giorgio e lo riporta a Napoli.

E se Van Gogh, il più celebre degli alienati, ci diceva che “ci sono campi di grano che si estendono all’infinito sotto un cielo cupo”, Giorgio, alieno apolide, uno, nessuno e mille altri, sotto l’azzurro del cielo di Napoli, capisce che la vita è unica, irripetibile, sacra e che non si vive nell’oblio, bensì nella memoria dell’infinito dei campi di grano.

“E quando tutto sarà finito e compiuto, volando ritorneremo alle stelle, con le astronavi fatte di sogni. Solo nella fine c’è un nuovo inizio”.

Giorgia Nicodemi

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