Elly Schlein scarsamente seguita da deputati e senatori in parlamento: ‘Deputati 25 su 67 – Senatori 17 su 38’

Elly Schlein, forte della vittoria alle primarie, non sembra essere altrettanto solida all’interno del partito. Il rischio scissione, ventilato sin dalle prime ore della sua inaspettata vittoria, sembra ancora lontano, ma guai a sottovalutarlo. Gli indizi che vanno in questa direzione sembrano preoccupanti per la tenuta della giovane segretaria: l’addio del fondatore del Pd, Giuseppe Fioroni, le anime riformiste che non si sentono rappresentate, le anime più radicali che la spingono verso il Movimento 5stelle. E anche i gruppi parlamentari del Pd sembrano scappare dal controllo dell’aspirante anti-Meloni. I numeri, sia alla Camera che al Senato, preannunciano una distanza siderale tra la segreteria e suoi parlamentari.

Schlein rappresenta la sinistra social (senza la “e” finale) di oggi, una sinistra minoritaria dei diritti di genere e delle lotte intersezionali è quanto di più lontano esista in natura dagli interessi dei lavoratori (i quali, infatti, votavano le destre di Meloni, Lega e Cinquestelle già prima di Schlein).

Il Pd era già attraversato da tendenze radicaleggianti e dal populismo anticapitalista, ma Schlein è l’esponente legittima di questa unica proposta politica nata nella sinistra mondiale.

Schlein ha offerto agli elettori di sinistra una vera proposta di cambiamento rispetto al continuismo di Bonaccini, con il quale semplicemente l’attuale agonia del Pd si sarebbe prolungata.

La conseguenza diretta della sua elezione è la fine del Pd a vocazione maggioritaria e la trasformazione del partito in una specie di “Arci diritti” destinato a rappresentare la parte più elitaria delle ztl cittadine, oltre che il Pigneto, Nolo e la brigata dei cuoricini sui social. La cosa più preoccupante è che in breve tempo potrebbe portare il Pd a essere fagocitato definitivamente da Giuseppe Conte.

Il partito che la Schlein proverà a fare, al di là delle retoriche unitarie post voto, sarà in apparenza un nuovo Pd ma in realtà sarà la rivisitazione dei vecchi Ds, in salsa populista, che già Zingaretti aveva provato a realizzare: una giovane leader che sembra – o peggio crede – di guardare al futuro ma che porterà il più grande partito del centrosinistra italiano nel passato.

Mentre gli iscritti affidandosi a Bonaccini avevano scelto un posizionamento più riformista in linea con la sua azione di amministratore pubblico, che abbandonasse l’orientamento demopopulista della segreteria di Zingaretti (quella di Letta non fa testo perché scelta con un operazione di palazzo di natura esclusivamente correntizia e priva di un orientamento politico), gli elettori e i simpatizzanti, una parte consistente dei quali proveniente probabilmente da Art.1 rientrato nel Pd con una operazione che resta per ora molto opaca, all’opposto hanno imposto, potremmo dire, una segretaria legata ai circuiti dell’estremismo massimalista, che porta alle estreme conseguenza la linea politica di Zingaretti e rompe in maniera drastica con la tradizione riformista che era una dei caratteri costitutivi del Pd.

Si apre dunque al di là del fair play postprimarie un problema politico di dimensioni gigantesche: perché mai gli iscritti dovrebbero affidarsi a una segretaria e al suo gruppo dirigente che non hanno scelto e che risultano portatori di indirizzi politici molto diversi da quelli che avevano auspicato?

Il popolo delle primarie in realtà ha rifiutato la scelta proposta e quel milione di votanti aveva piuttosto il profilo militante degli eredi di Occupy Pd, delle Sardine, di quelli che confondono il laburismo con il peronismo della Cgil, di quelli che volevano cambiare nome al partito, dei pacifisti amici di Vladimir Putin, fusi con i vecchi massimalisti postcomunisti amanti della Ditta. Una opa come molti l’hanno definita di chi puntava a ribaltare il risultato dei circoli del Pd e che aveva trovato una papessa straniera di grande richiamo – una giovane donna lgbt coraggiosa e libera – per portare a termine una operazione di trasformazione del Pd in un partito radicale minoritario nel cui DNA il dirittismo si combina con i richiami al pacifismo antiamericano, alla decrescita felice, all’ambientalismo antagonista e al vecchio armamentario assistenzialista di tanta tradizione comunista e democristiana: in sostanza i Ds nella versione XXI secolo, fotocopia del Movimento 5 stelle di Conte.

Ma a questa mutazione del significato delle primarie si è aggiunta un’altra anomalia dovuta al fatto che la cosiddetta opa è riuscita solo parzialmente. Infatti a differenza di tutte le precedenti primarie nelle quali il vincitore aveva surclassato i contendenti, nel caso di domenica scorsa la distanza tra i due avversari è molto più contenuta – circa 7 punti percentuali e poche decine di migliaia di voti – a testimonianza del carattere fortemente divisivo dell’operazione. La vittoria vale solo il 53 per cento, non il 70 o quasi come era accaduto con Veltroni, Bersani e Renzi, e anche con lo stesso Zingaretti che aveva vinto con un piattaforma simile a quella della Schlein; cioè può contare su un maggioranza risicata, che dà – meglio dire darebbe – agli sconfitti una forza che non avevano mai avuto i perdenti delle precedenti tornate di primarie, anche se si tratta di un insieme di figure e di aree politiche molto diverse tra di loro, che dal 2018 si sono dimostrate del tutto inadatte a costruire una opposizione interna in vista di una alternativa di matrice riformista: se ne è chiamato fuori primo fra tutti Bonaccini, mentre i pochi riformisti rimasti nel Pd fanno a gara a giurare fedeltà alla nuova segretaria.

Ma unire il Pd che tutti i segretari promettono subito dopo essere stati eletti questa volta sarà ancora più difficile perchè la base valoriale e programmatica del partito rappresentata da Schlein è una visione politica del tutto estranea alla tradizione delle socialdemocrazie europee.

È un «modello Lula» come lo ha definito qualche settimana fa Preziosi su “Il Domani”, basato su una santa alleanza di stampo populista tra cristianesimo e socialismo per seguire il pensiero di Bettini, che va dalla Comunità di Sant’Egidio al pacifismo cattolico, dalla Caritas a Landini, passando per pezzi di Art.1, vecchi sodali di D’Alema e Bersani, eredi della sinistra antagonista di Sel e dintorni, all’Anpi, casa matta ideologica i Sinistra Italiana, all’Arci e all’ambientalismo radicale dei movimenti del “No”.

A questo modello si è contrapposto Bonaccini nel tentativo di mantenere il Pd dentro la sua originaria identità di partito riformista seppur non demonizzando posizioni radicali. Ma lo ha fatto senza coraggio, senza rivendicare la centralità della scelta riformista come visione strategica e come cartina di tornasole di una sinistra moderna, che ha il governo del paese e non la rappresentanza dei “poveri” come sua precipua finalità, e senza opporsi con forza alla deriva populista rappresentata dalla sua antagonista, in nome di un unitarismo senza scopo e senza radici, che non fossero le sue buone prestazioni di amministratore: troppo poco per fronteggiare l’offensiva demopopulista che avevano fatta propria quasi tutte le vecchie oligarchie di sinistra e non solo interne al Pd, più volte sconfitte da Renzi.

La nascita del Pd aveva rappresentato il tentativo di mettere insieme i riformisti provenienti da diverse esperienze politiche della Prima Repubblica in un partito della nazione, maggioritario per vocazione, che si candidasse alla guida del paese rappresentando una polarità di intessi sociali e ideali ancorati alle più alte tradizioni repubblicane. Un partito argine, appunto, costituito dalle sinistre democratiche saldamente ancorato all’Occidente e all’Europa, consapevole che il governo della globalizzazione le chiamasse a una sfida di cambiamento profonda e radicale, che andava assunta con coraggio, senza smarrire la tensione alla

Ma ora tutto questo è stato di fatto distrutto da un lavoro pervicace durato un decennio di cui la vittoria della Schlein è l’esito, e non l’origine, che aveva per obbiettivo quello di costruire un partito di sinistra classista, al posto di quello repubblicano ipotizzato al Lingotto, che raccogliesse, in una chiave inevitabilmente minoritaria, tutti i residui delle tragiche sconfitte che essa ha subito negli ultimi settant’anni, dal Pci al movimentismo estremista, all’ambientalismo radicale, all’antiamericanismo ideologico, all’antifascismo militante, al massimalismo salottiero, al pacifismo parolaio. Ma se nel Pci il nesso tra sinistra, democrazia e nazione era riuscito nei momenti chiave della storia repubblicana a farsi strada dentro la coltre dell’ideologia, il Pd schleiniano lo ha esplicitamente abbandonato, opacizzando dunque la ragione che giustificava la esistenza stessa di quel partito nato 15 anni fa.

Il Pd  è un partito in perenne fuga da sé stesso, come è stato scritto, che ha trovato nella Schlein il segretario che gli fa fare l’ultimo miglio verso l’ambito approdo dell’unità delle sinistre, ma che regala alla destra sovranista di Giorgia Meloni la possibilità di occupare indebitamente il posto di garante della collocazione internazionale dell’Italia e il punto di riferimento della resistenza ucraina.

Ma l’Italia ha bisogno che nel campo del centrosinistra ci sia un partito liberaldemocraico, popolare e di massa, con una esplicita vocazione maggioritaria, che riannodi i fili tagliati tra il riformismo e la nazione: questo va fatto subito perché altrimenti a perdere sarà il paese, le sue forze di lavoro sane e impegnate, i suoi giovani alla ricerca del loro futuro, le sue donne che devono essere sostenute per compiere ancora una parte del loro lungo cammino di emancipazione.

Ma il guaio non è solo per il Pd: l’elezione di Schlein non è una buona notizia nemmeno per l’Italia, perché il paese perde il pilastro costituzionale e repubblicano su cui si è appoggiato in questi anni, perde l’unico partito dotato ancora di qualche adulto nella stanza capace di governare situazioni complesse come quelle che stiamo vivendo.

Le prime ore in Transatlantico, nelle vesti di neo-segretario del Pd, sono una doccia fredda per le aspirazioni di Elly Schlein. Il nodo centrale della questione è sempre lo stesso e colpisce, di volta in volta, tutti i nuovi segretari: i gruppi parlamentari spesso sono formati da persone avverse al cerchio magico del nuovo numero uno. Nel caso di Elly Schlein, i deputati e senatori che non l’hanno appoggiata alle primarie potrebbe diventare preoccupante. “A Montecitorio – rivela la Stampa – i deputati che hanno sostenuto Schlein sono 25 su 67”. Al Senato non va meglio: “17 su 38”.

Il rischio che corre Elly Schlein è grosso: non controllare le truppe parlamentari si traduce in una difficoltà continua nell’imporre una linea chiara al partito. I cosiddetti “lupi” parlamentari, pronti a dissociarsi dalla linea imposta dalla segreteria, non sembrano preoccupare Schlein che risponde piccata: “Li affronteremo”.

Insomma, l’ennesima grana per la nuova segretaria e per il Pd, sempre più frammentato al suo interno. Il gap tra riformisti e massimalisti, nel Pd guidato da Schlein, sembra incolmabile. Una distanza che, alla lunga, andrà a erodere il suo successo e modificare la sua posizione politica. Gli attacchi arrivano da tutte le parti, dentro e fuori dal partito. Il Terzo Polo, per voce dell’asse Renzi-Calenda, ha già cominciato la sua crociata anti-Schlein. Si sono espressi Matteo Renzi, Carlo Calenda e Maria Elena Boschi, i principali esponenti centristi.

Il leader di Italia Viva ha parlato di “fine del riformismo nel Pd” e il numero uno di Azione ha bacchettato il Pd parlando di un “partito populista e radicale”. L’ esponente di Italia Viva, Maria Elena Boschi, raggiunta dal Corriere della Sera, ha aggiunto: “Nel Partito democratico non c’è più spazio per i riformisti”.

In cerca della famosa prateria politica il Terzo Polo – nome provvisorio “Italia in azione” – adesso accelera la costruzione di una cosa vera, un nuovo partito, una offerta politica terza stretta tra i radicalismi di una destra-destra e una sinistra schleinizzata: si situa in questa terra di mezzo la prateria calendian-renziana, se l’analisi si rivelerà giusta e la strada sgombra.

Il comitato politico cui hanno partecipato i massimi dirigenti di Azione e Italia viva si è riunito confermando che il dado è tratto. Ora si punta a cambiare marcia e anche un finora guardingo Matteo Renzi si dice pronto a correre. Si lavorerà a un Manifesto dei valori e sul nome/simbolo per la fine di marzo, poi partirà tutta la fase di costruzione vera e propria del partito e la raccolta delle adesioni, dopo l’estate sarà tutto fatto. Si è deciso che non si torna indietro.

L’analisi di fondo è quella che Carlo Calenda, poi Maria Elena Boschi e Renzi spiegano da quando si è appreso, anche con stupore da parte del leader di Italia viva, della vittoria di Elly Schlein, una novità che «cambia pelle» al Pd sospingendolo in una collocazione di sinistra-sinistra e che di per ciò stesso libera forze in sofferenza dentro e ai confini di quel partito, i tanto evocati riformisti, e pur non essendo in corso – ha chiarito Renzi – nessuna «campagna acquisti» le porte sono spalancate per accogliere chi ormai ritiene che il riformismo del Pd debba vivere altrove.

Dice Renzi che «vengono giù – all’improvviso, tutti insieme – gli alibi di chi ancora pensava di poter coltivare il riformismo dentro il Pd», ed è uno schema chiaro: nella radicalizzazione di destra e sinistra espressa dai volti femminili di Meloni e Schlein ecco che per un spinta uguale e contraria acquista senso una proposta di centro riformista collocata al di fuori dei blocchi in un disallineamento che il sistema proporzionale delle Europee potrebbe premiare.

È probabile che siano consistenti entrambe le ipotesi di lettura ma se è così non sta scritto da nessuna parte che il Terzo Polo – non dimentichiamo, uscito ammaccato dalle ultime Regionali – di per sé possa insinuarsi con forza tra le due estreme. Vedremo le tendenze e soprattutto i fatti.

Sulla scadenza delle Europee Renzi è fiducioso: «Già adesso infatti Azione e Italia Viva, insieme a Più Europa, sommate fanno più del 10 per cento. E la lista unitaria di tutti gli amici di Renew Europe, anche quelli che come Più Europa forse non entreranno magari subito nel partito unico, sarà la novità delle Europee 2024».

Se Calenda e Renzi e i rispettivi gruppi dirigenti (in verità non sempre in sintonia) sapranno mettere un po’ di ciccia politica e organizzativa, tanto fuoco e molto pensiero attorno a quello che per ora è solo un ragionamento politico, la cosa può diventare interessante per il sistema politico nel suo complesso. A questo punto dipende solo da loro.

La tenuta di Elly Schlein sarà condizionata sicuramente dalla composizione della sua segreteria. Al momento è ancora in alto mare. Non è chiaro chi saranno i nuovi capigruppo, chi avrà ruoli decisici, chi ci sarà della “vecchia guardia” Pd e molto altro ancora. Certo è che, i primi nomi di chi potrebbe affiancare Elly Schlein, non sono all’insegna del moderatismo e della ricomposizione con i gruppi parlamentari. Nella lista radicale e radical chic di Elly Schlein potrebbe trovare spazio Mattia Santori, il fondatore delle Sardine. Altri posti potrebbero essere occupati dai deputati Marco Furfaro, Chiara Gribaudo e Marco Sarracino. Quasi sicuramente troveranno spazio Peppe Provenzano, già vicesegretario con Letta e Francesco Boccia, responsabile Enti locali.

Circa Redazione

Riprova

Ue, faccia a faccia Meloni-Costa: ‘Leadership condivisa e pragmatica. Valuteremo le priorità della premier Meloni’

Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha ricevuto  a Palazzo Chigi il presidente eletto del …

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com