I funerali di Stato di Giorgio Napolitano saranno domani, 26 settembre, in piazza Montecitorio

L’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è morto, a 98 anni, nella clinica romana Salvador Mundi, dove era ricoverato da tempo. Le condizioni dell’ex Capo dello Stato si erano complicate negli ultimi giorni.

Nato a Napoli il 29 giugno del 1925, è diventato Presidente della Repubblica il 15 maggio del 2006. È stato il primo presidente a essere eletto per un secondo mandato, il 20 aprile 2013. Un bis al Quirinale non era infatti riuscito mai a nessuno. E la rielezione ha aperto una nuova strada politica come dimostra il secondo mandato di Sergio Mattarella.

Funerali di Stato e lutto nazionale per Giorgio Napolitano, il presidente emerito della Repubblica italiana. Il sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano ha annunciato la disposizione delle esequie di Stato con la proclamazione del lutto nazionale per il giorno delle celebrazioni dei funerali, che si terranno domani alla Camera, in piazza Montecitorio, con una cerimonia laica. Fino ad allora, le bandiere nazionali ed europee saranno esposte a mezz’asta su tutti gli edifici pubblici in Italia e sulle sedi delle rappresentanze diplomatiche e consolari italiane all’estero. Mentre i capi di Stato e i vertici delle istituzioni internazionali continuano a ricordare l’ex presidente con messaggi di cordoglio, arrivati anche da Vladimir Putin.

La camera ardente in cui sarà possibile rendere omaggio a Napolitano è stata  allestita al Senato, con l’apertura al pubblico prevista a partire da ieri,  domenica alle 10 alla presenza del presidente della Repubblica e del presidente del Senato. Dalle 11 l’accesso è stato  aperto a tutti fino alle 18 e poi dalle 10 alle 16 di oggi. Intanto, il tributo a Napolitano, una delle figure più influenti nella storia politica italiana, continua senza sosta. “Mi unisco al popolo italiano e al mondo nel lutto per la perdita dell’ex presidente Giorgio Napolitano, uno statista che ha dedicato la sua vita alla democrazia, ai diritti umani e all’unità europea. Le mie più sentite condoglianze alla sua famiglia e al popolo italiano”, ha scritto su Twitter il segretario di Stato americano Antony Blinken.

Parole di cordoglio anche dal presidente francese Emanuel Macron, che ha definito Napolitano una “figura eminente della politica italiana, europeo convinto”. “Piango la scomparsa dell’ex Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano”, ha scritto invece in una nota la presidente della Commissione Europea, Ursula Von Der Leyen. “Un imponente statista italiano, con un forte cuore europeo. È stato un’ancora di stabilità per il suo Paese nei momenti difficili, profondamente convinto che un’Europa unita fosse nell’interesse dei suoi cittadini”, ha aggiunto la presidente della Commissione. Condoglianze sono arrivate anche dalla Russia: “Caro signor Mattarella, la prego di accettare le mie più sentite condoglianze per la scomparsa dell’ex presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano”, ha scritto Vladimir Putin in un messaggio inviato al Quirinale.

“È venuto a mancare – ha scritto il Cremlino – uno statista eccezionale”. Quindi Putin ha elogiato Napolitano definendolo un “vero patriota italiano” e ha sostenuto: “Nella sua giovinezza Napolitano lottò coraggiosamente contro il fascismo nelle file della Resistenza e poi ha servito fedelmente per molti anni il suo paese, anche come presidente e in altre alte cariche governative”. Putin ha poi ricordato di aver avuto la fortuna di parlare con Napolitano in diverse occasioni e “conserverà per sempre un caro ricordo”.

Napolitano aveva iniziato la militanza politica nel Pci nel 1945, dopo essere passato, come molti universitari di quell’epoca, dal Guf (gruppo universitario fascista). Il liceo classico, fra Napoli e Padova, gli aveva invece regalato l’interesse per la cultura, soprattutto per il teatro. Quindi, la laurea in Giurisprudenza alla prestigiosa Federico II di Napoli, nel 1947, ad appena 22 anni.

Entrato alla Camera come deputato del Pci di Togliatti per la prima volta nel 1953, colleziona vari primati, a partire dal 1978: fu infatti il primo dirigente del Pci ad ottenere il visto per andare negli Stati Uniti d’America di Jimmy Carter, dove tenne con successo una serie di conferenze. Tuttavia, il primato che lo consegna alla storia è quello della sua elezione a presidente della Repubblica, il 10 maggio 2006. Primo comunista al Colle.

Napolitano è stato anche presidente della Camera (1992-1994) e ministro dell’Interno (1996-1998, primo governo Prodi). Il “comunista preferito” di Henry Kissinger, definito dal New York Times ‘Re Giorgio’, l’undicesimo presidente della Repubblica italiana con il primato del secondo mandato, è stato anche il presidente più longevo, dopo Ciampi che morì a 96 anni.

In una nota di Palazzo Chigi, «il Presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, esprime cordoglio, a nome del Governo italiano, per la scomparsa del Presidente emerito della Repubblica, senatore Giorgio Napolitano. Alla famiglia un pensiero e le più sentite condoglianze».

Singolare il commento di Marta Collot:

‘Sono poche ore che circola la notizia della morte del due volte presidente della Repubblica, e già le televisioni, i giornali e i social dei politici riversano lacrime e omaggi all’uomo che ebbe il merito di annullare l’opzione comunista in questo paese, e che contribuì enormemente alla disfatta del movimento dei lavoratori facendosi alfiere degli interessi del capitale internazionale.

È ovvio quindi che la sua figura venga celebrata da tutti coloro che, oggi o ieri, sono o sono stati nella cabina dei bottoni di questo paese, perché in Italia Napolitano ha rappresentato meglio di molti altri la messa a tacere della possibilità di riscatto di ampi strati della società, l’abiura del socialismo nell’omologazione al mercato.

Napolitano ha favorito prima la resa del movimento dei lavoratori e di quel formidabile strumento organizzativo nelle loro mani, quale era il PCI, per poi intestarsi direttamente la rappresentanza della grande industria e finanza internazionali, di chi fa la guerra ai lavoratori e ai popoli per il proprio tornaconto.

Infatti, da sempre esponente della cosiddetta ala “migliorista” di un PCI che già certamente aveva lasciato la strada rivoluzionaria, alla morte del suo maestro Giorgio Amendola, ne divenne il massimo esponente. In questa sua funzione, lottò perché venisse abbandonata dal partito anche la strada socialdemocratica, facendosi promotore dell’idea che il capitalismo possa essere appunto “migliorato” senza cambiamenti epocali.

Quando nel 1984 il PCI promosse un referendum (poi perso) per l’abrogazione della legge con cui Craxi aveva istituito la fine della scala mobile, si dovette attenere per mera disciplina di partito, ma era favorevole all’attacco che Craxi aveva portato a tutto il mondo del lavoro (e di cui paghiamo le conseguenze ancora oggi con i nostri salari da fame).

Fu fautore della ricollocazione del PCI sotto il cappello della NATO, al punto da essere il primo ad andare in delegazione a Washington per sancire questa svolta.

Nei primi anni ’90, alla fine della cosiddetta Prima Repubblica, fu tra i protagonisti della cancellazione del sistema parlamentare proporzionale a favore del maggioritario, e da allora non avrebbe più finito di avvicinare il paese al presidenzialismo e all’abbattimento delle garanzie democratiche. Lo si sarebbe visto con Monti, con Renzi e con Draghi.

Proprio Monti e Draghi devono le loro fortune politiche nel nostro paese al ruolo di trait d’union interpretato magistralmente da Napolitano, il quale fu capace di tessere le fila del rapporto tra i diktat di Bruxelles, il Washington consensus e la grande imprenditoria italiana. Se la famosa lettera della BCE dell’estate del 2011, la quale segnò la fine dell’ ultimo governo Berlusconi, portava la firma di Trichet e Draghi, sua era però la firma sulla regia dell’intera operazione politica, che da lì a breve avrebbe portato Monti a guida di un governo delle larghe intese (con la Fornero al Ministero del Lavoro), ovvero un governo che, dopo quello guidato da Dini vent’anni prima, vedeva un banchiere sostenuto da tutti i partiti (non dimentichiamo tra l’altro il voto di fiducia datogli anche da Giorgia Meloni, all’epoca deputata!).

Ma Napolitano non solo portò di fatto la mannaia della Troika ad abbattersi sui conti pubblici italiani, inaugurando una stagione di feroce austerità che, tra le altre cose, avrebbe tagliato ulteriormente la spesa per le pensioni, la sanità e l’istruzione. Fu anche favoreggiatore della criminale guerra in Libia con cui venne assassinato il presidente Gheddafi, aprendo la strada allo jihadismo, alla tratta dei migranti nei lager pagati da noi, e in generale a un decennio di violenze fratricide che ha portato quel paese al collasso.

Sono questi i grandi meriti con cui si è aggiudicato il primato della seconda elezione al Quirinale, e per cui oggi il mondo dei potenti lo osanna. Ma la gente comune di questo paese e del Mediterraneo sa di non aver perso un padre della patria, perché se ne è andato un traditore che ha voltato le spalle al popolo per stringere mani che non sono le nostre’.

Una versione molto animosa quella di Marta Collot ma non molto distante dalle vicende politiche di Giorgio Napolitano. L’ex capo dello Stato, cresciuto nel Pci di Palmiro Togliatti, nella doppiezza staliniana e  togliattiana  di tutto l’apparato, di cui è stato un leader eminente,  che dopo la morte di Togliatti divenne leader della  corrente interna dei ‘miglioristi’, allievi più scaltri del ‘Migliore’. Negare e minimizzare sono stati raffinati per quel tipo di intellettualità del vecchio Pci. Nel 1956, quando il Partito comunista italiano era una potenza ideologica, Togliatti, spalleggiato da Napolitano e dal cinese Mao Zedong, costrinse la riluttante Unione Sovietica a schiacciare con le divisioni corazzate gli inermi insorti di Budapest che manifestavano contro il Partito comunista chiedendo libertà e democrazia.  ‘Napolitano ha preteso di far credere che l’operazione militare neocoloniale franco-inglese scatenata sotto le intrepide bandiere dell’Onu contro la Libia di Muammar Gheddafi nel 2011 fu una nobilissima guerra perché combattuta in nome della stessa libertà e democrazia contro cui aveva chiesto l’intervento dei carri armati russi a Budapest. Naturalmente gli ungheresi fatti uccidere da Napolitano, Togliatti, Mao Zedong e Nikita Krusciov sapevano che cosa fossero libertà e democrazia, mentre i libici, così come i siriani, gli egiziani, i libanesi e gli arabi musulmani in genere, non ne avevano mai avuto idea politica e pratica’, osservava anni fa Paolo Guzzanti.

Napolitano sapeva  che Gheddafi era un dittatore come tutti gli altri nell’area, ma era diventato uno strumento importante e funzionale della politica estera italiana di Silvio Berlusconi, il quale era riuscito ad ottenere il controllo navale delle coste libiche e il blocco dei flussi migratori oggi incontrollabili. Gheddafi rappresentava anche un successo personale di Berlusconi, ed era l’uomo da abbattere e far abbattere.   Napolitano dopo essere stato uno dei raffinati stalinisti, fuggì a destra nel Pci, formando una corrente filoamericana apprezzata dal segretario di Stato statunitense Henry Kissinger.  L’ex presidente della Repubblica simulava  di aver preso le distanze dalla ‘decisione unilaterale’ del francese Nicolas Sarkozy quando attaccò la Libia per sottrarla all’influenza italiana,  lanciando un siluro contro Berlusconi, che era riuscito a sigillare le coste e impedire che l’intera Africa cominciasse il suo sbarco a puntate sulle coste italiane. Gheddafi era colpevole di essere uno strumento vincente di Berlusconi che, grazie a lui, aveva sigillato le coste libiche agli scafisti e ai trafficanti di uomini. Napolitano è stato coinvolto anche, seppur in maniera indiretta, nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia con l’eccezionale deposizione alla Corte di Palermo salita in trasferta al Quirinale. Napolitano ha mantenuto  l’impegno preso il 15 maggio del 2006 quando promise solennemente davanti alle Camere che non sarebbe mai stato il capo dello Stato della maggioranza che lo aveva eletto, ma che avrebbe sempre guardato all’interesse generale del Paese. E così è stato, visto che dopo essere salito sul Colle più alto della politica italiana con i soli voti del centrosinistra, ha chiuso il primo settennato con l’aperto sostengo del centrodestra. Un sostegno che si è via via raffreddato durante lo storico bis nel 2013 al Quirinale che ha visto Silvio Berlusconi condannato e spesso i suoi all’attacco politico del presidente. L’elezione del 2006 non era per niente scontata. La sua provenienza dal Pci lo faceva guardare con sospetto dal centrodestra berlusconiano, ma il fatto di essere il primo dirigente comunista a diventare presidente della Repubblica non impedì al Cavaliere di riservargli, dopo poco, pubbliche lodi. Fino alla richiesta di far restare lui al Quirinale per superare la turbolenta fase politica di quegli anni. Uno degli elementi caratterizzanti della sua presidenza è stato il tentativo di parlare all’Italia intera, di sedare lo scontro fra le correnti (a partire da quelle del Pd), di promuovere il dialogo fra le forze politiche nell’interesse del Paese. Compito non facile durante gli anni turbolenti dei suoi mandati. I primi due dei quali li passa monitorando le fibrillazioni che tengono il governo Prodi costantemente sul filo del rasoio, fino alla caduta e al ritorno del Cavaliere a palazzo Chigi. I successivi tre anni scorrono nello sforzo di arginare l’attivismo di Berlusconi, evitando che le furiose polemiche sulle leggi ad personam prima e sugli scandali sessuali poi minassero la saldezza delle istituzioni. Il passaggio che lo consegnerà alla storia come ‘re Giorgio’ (così lo incoronò il New York Times) è quello che nel novembre 2011 porta Mario Monti a palazzo Chigi. I critici parleranno di Repubblica presidenziale, di interpretazione estensiva delle sue prerogative e l’immagine del governo tecnico del presidente risultò danneggiata. I risultati elettorali che non diedero una maggioranza chiara, i veti incrociati dei partiti spinsero quindi Napolitano a nominare Enrico Letta sulla base di una larga intesa. Poi l’ascesa irrefrenabile di Renzi con il quale, nonostante la differenza di età, ha saputo costruire un rapporto sincero e pragmatico. Napolitano  rassegnò le dimissioni il 14 gennaio 2015 e   divenuto poi senatore di diritto a vita quale presidente emerito della Repubblica.

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