Messina – ‘Venivamo dal mare’ (andata in scena per la stagione del Clan Off Teatro di Messina) è un’occasione mancata, con soluzioni poetiche che restano annegate in un tessuto narrativo frammentario e statico.
Spiace dirlo perché l’idea – che nel 2012 ha dato vita allo spettacolo all stars ‘La nave delle spose’ del Teatro Stabile di Catania per la regia di Giuseppe Dipasquale – ha lunghi studi e accurata preparazione emotiva e culturale alle spalle. Spiace dirlo perché alla firma di testo e regia c’è un’artista come Lucia Sardo, ch’è anche in scena con la sua tragica maschera di siciliana. Spiace dirlo, infine, perché sono del tutto evidenti l’impegno e la passione (che è pure nobilmente compassione) sottesi alla pièce. Quel che accade in scena però è una collana di fotogrammi mal cuciti che comincia bene e va avanti assai faticosamente.
A valore della messinscena c’è la scelta di mischiare attori in carne e ossa e pupi siciliani. Emoziona decisamente la prima entrata in scena di una ‘bambola’ a rappresentare la prima delle spose per procura letteralmente mandate al sacrificio da una Sicilia misera in un’America miracolosa. Ed è di grande resa la scelta di far vedere apertamente gli espedienti, le invenzioni teatrali: la lastra che scossa fa il rumore della burrasca, l’appendiabiti che due teli bianchi trasformano a vista in nave, le vestine bianche di minuscole proporzioni … Inoltre è di ottima fattura la recitazione del giovane Gioacchino Cappelli, che interpreta l’uomo cattivo, l’uomo reso cattivo dalla povertà e dall’ignoranza. È grande teatro il momento in cui, illuminato da una reale tenerezza e da una sincera ammirazione, racconta del gallo nel suo pollaio, della sua forza, della sua alterigia, della sua potenza.
Ma quasi tutto il resto è stasi. Lucia Sardo e Sibilla Zuccarello (anche alle tastiere) fanno anzitutto troppo ricorso al reading. Sembra che leggano sempre, anche se non è così. I duetti tra loro e i singoli, brevi monologhi di ciascuna delle due non trovano l’energia dell’interpretazione, quasi bastassero le drammatiche storie raccontate a dare peso, forza, senso alla scena. Ma le parole non riescono a parlare da sole. Non in questo spettacolo. Forse mai. Comunque non in teatro che non è lettura personale di un testo.
E non bastano – mentre la pochezza delle azioni sceniche aggiunge peso, aggiunge lentezza – a impuntire la drammaturgia il semplice stratagemma di una colonna sonora suonata dal vivo, su musiche originali (di Sibilla Zuccarello e Gioacchino Cappelli) o quello di una canzone finale che dovrebbe raccogliere i fili della storia o quello di una discesa tra gli spettatori delle due protagoniste.
Alla fine lo spettacolo – nonostante le storie che racconta – non emoziona. Con il risultato che perfino l’ovvia risonanza con le attuali tragedie della migrazione verso la Sicilia, anch’esse tragedie del mare, si perde strada facendo.
Blackcap