Usa: con il mea culpa di Cohen Trump rischia l’impeachment

Dopo quello che forse è stato fino ad ora il peggiore giorno della presidenza Trump, sono tre gli scenari possibili che chiamano in causa l’attuale inquilino della Casa Bianca. Perché il fatto che ieri, 21 agosto, l’avvocato Michael Cohen abbia ammesso davanti a un giudice che il suo ex cliente gli abbia chiesto di agire commettendo un reato, generalmente sta a significare che un’incriminazione colpirà a breve anche quel cliente. Il punto è che il cliente non è una persona qualunque ma appunto Donald Trump, che da candidato alle elezioni del 2016 avrebbe detto al suo legale di allora di comprare il silenzio di due donne impedendo loro di svelare relazioni extra-coniugali. Mentre ancora digerisce il caso giudiziario legato all’ex direttore della sua campagna elettorale, Paul Manafort, giudicato sempre ieri colpevole di frodi bancarie e fiscali, Trump e il suo staff stanno studiando la giurisprudenza per capire se alla regola verrà fatta un’eccezione. Teoricamente la Costituzione americana non impedisce l’incriminazione di un presidente in carica e la Corte Suprema, nel pieno dello scandalo Watergate, nel 1974 non aiutò a dipanare la questione. Il dipartimento di Giustizia ha storicamente scelto di non farlo e non ci si aspetta che quello con al comando Jeff Sessions cambi rotta.

Se Cohen ha detto la verità, Trump ha commesso crimini seri come colui che per un decennio è stato il suo ‘fixer’ personale. Tuttavia, stando alla tradizione, il 45esimo presidente non verrà incriminato, almeno non prima del suo addio alla Casa Bianca. Questo è il primo scenario possibile per il miliardario immobiliarista di New York diventato leader Usa. Una seconda possibilità è che i procuratori iscrivano Trump al registro degli indagati, ma aspettino la fine della sua presidenza per proseguire l’iter giudiziario. La terza opzione è un impeachment e la memoria corre al 37esimo presidente Usa Richard Nixon, costretto a dare le dimissioni nel 1974. In questo caso gli inquirenti potrebbero presentare le prove alla commissione Giustizia della Camera Usa, quella responsabile in questo caso, per valutare una simile mossa. E’ probabilmente questa la strada meglio percorribile per spingere Trump a rispondere delle proprie azioni. Tuttavia, con un Congresso controllato dai repubblicani nulla si smuoverà. Se ne potrebbe riparlare dopo le elezioni di metà mandato del prossimo novembre se i democratici sapranno riprendere il controllo della Camera. Non è un caso che Bloomberg abbia citato Steven Bannon, l’ex stratega di ultra-destra di Trump, dicendo che la giornata di ieri rende le elezioni di novembre “un referendum sull’impeachment”.

Il tema continuerà a essere oggetto di dibattito, dentro e fuori gli ambienti della giurisprudenza. Una cosa è certa. Presupponendo che Cohen abbia detto il vero e ipotizzando che Trump fosse un comune cittadino o anche un semplice candidato, lo stesso Trump rischierebbe potenzialmente anni di carcere. Diversamente dal caso Cohen, quello di Manafort non chiama in causa direttamente Trump. Tuttavia esso dà un rinnovato slancio all’inchiesta sul cosiddetto Russiagate condotta dal procuratore speciale Robert Mueller. Un Trump che ha trascorso la campagna elettorale a dare della “criminale” alla sfidante Hillary Clinton all’inno di “lock her up” (imprigionatela), ora si ritrova con tre dei suoi più stretti alleati messi in ginocchio dai procuratori. Un danno politico – oltre che legale – non da poco. Trump potrebbe sparigliare le carte offrendo il perdono e la grazia a tutti e tre ma su questo non ha mai rilasciato commenti.

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