Una vita bizzarra

“Una vita bizzarra” è il romanzo di successo, di Elisabetta Villaggio, figlia dell’attore Paolo e con nonno, Ettore, ingegnere palermitano, che Milena Privitera presenterà giovedì 30 ottobre all’Excelsior Palace Hotel di Taormina per “SPAZIO al SUD”, la rassegna culturale dell’associazione “Arte & Cultura a Taormina”, presieduta da MariaTeresa Papale. Già regista di cortometraggi e documentari, autrice di programmi televisivi e teatrali di talento, Elisabetta Villaggio, dopo il saggio “Marilyn: un intrigo dietro la morte” tratto dalla omonima pièce teatrale, consegna alle pagine del suo primo romanzo – edito dalla “Città del Sole”, una sorta di amarcord in versione capitolina, l’affresco di un tempo e di una generazione, la sua, che ha vissuto in prima persona gli anni ’70. Quegli anni di speranza e “di piombo” fatti di rivoluzione sessuale e di cortei politici, rivendicazioni di libertà e attentati. E lo fa con la levità di tocco di uno stile tanto incisivo quanto semplice, tratteggiando sapientemente, con una scrittura piena di ritmo, ambienti, personaggi e situazioni descritti con minuzia e verità storica, citando canzoni e film dell’epoca, riportando il lettore all’atmosfera libertaria e trasgressiva di quegli anni intensi e, per certi versi, anche gioiosi. Fatta di slogan colorati e “pallosissimi cineforum” con l’immancabile, interminabile, dibattito accluso. Fatta di sabot e pantaloni a zampa d’elefante, di maglioncini peruviani e borse di Tolfa, di Eskimo d’ordinanza e scontri tra Fasci e Neri. Fatta di sesso libero, spinelli e guerriglie urbane. Anni al contempo “furibondi”, intrisi di ideali, percorsi da un fortissimo impegno politico di una generazione intera che gridava la sua voglia, o meglio, la sua pretesa di cambiare il mondo. Che lottava perché la scuola fosse veramente di tutti, le donne potessero finalmente essere di se stesse, l’amore non avesse generi obbligati, il sesso fosse liberato da coercizioni matrimoniali, il divorzio rendesse giustizia di matrimoni “scoppiati”. Ragazzi e ragazze, dai ceti mischiati, che in nome della giustizia sociale e della libertà dell’essere umano sognavano un’Italia senza discriminazioni e differenze convinti che “tutto, o quasi, potesse essere possibile”. Figli di quella passione estrema segnata dai grandi ideali che guidava i loro animi,  e le loro ribellioni,  essi nell’immaginario collettivo sono, per antonomasia, “la meglio gioventù” e quelli della “rivoluzione tradita”, ma anche quelli degli oltre 5.000 arresti per banda armata, ed, in definitiva, quelli che, nonostante le tante battaglie civili vinte, dalla legge Basaglia a quella sul divorzio, sono diventati adulti portando con sé l’amara consapevolezza di una sconfitta, personale e politica. Ed Elisabetta Villaggio, figlia di quei tempi con il suo gruppo di amici, di quei giorni roventi ne fa lo sfondo, non passivo, di una storia di amicizia femminile che si dipana negli anni, che sembra interrompersi per sempre, che ricomincia là dove era nata più forte di prima. Un cerchio che si chiude, a parti quasi invertite, a siglare l’intenso legame che unisce sin da quando erano bimbette Rosa,  catapultata nel 1969 da una baita in mezzo alla natura di Pieve di Cadore, con i maglioni pesanti di lana fatti dalla mamma e gli stivali adatti alla neve, ad una portineria priva di luce di un palazzo dei Parioli,  e la solare, disinvolta Benedetta, figlia della Roma-bene, che ai piani alti di quel palazzo vi abita con la sua famiglia colta, ricca, giramondo in cui dissapori e frustrazioni vengono ricoperti da strati di ipocrita finzione perbenista. E’ di Rosa l’Io narrante. Di una Rosa un po’ cupa e assennata, divoratrice di libri, cui la frequentazione della casa amica apre uno scenario di vita altrimenti impensabile per la figlia di un rozzo falegname veneto, determinandone l’arricchimento culturale, l’evoluzione intellettuale, lo sviluppo emotivo che la porteranno a distanziarsi sempre più dai familiari ed a prendere in mano la propria vita facendone, dopo traversie e cadute, una vita “bizzarra” e vincente. Seguirle nella loro crescita, vederle diventare giovani donne condividendone le esperienze formative, gli amori e le delusioni, i viaggi in tenda e lo scorrazzare in motorino per le vie di una Roma infiammata dalle rivendicazioni studentesche è sì un viaggio a ritroso nel tempo per molti lettori che di quella generazione fanno parte, ma diviene, per tutti, un viaggio intimo tra le emozioni, le speranze, le lotte interiori: una lettura che scorre veloce, un romanzo modernissimo ma per certi versi dal sapore “antico” carico com’è di sentimenti e, perché no, di romanticismo. La prefazione è di un Villaggio padre legittimamente orgoglioso e sapidamente in vena di autocritica generazionale: “Ho rivissuto 40 anni della mia vita accompagnato dagli occhi di una giovane donna. Il punto di vista è completamente diverso da quello di noi vecchi. Avevamo la certezza di averlo vissuto solo noi, e che i giovani l’avessero passato con la solita spensieratezza, quasi che la cosa non li riguardasse. Invece no, erano loro i veri protagonisti! Quelle guerriglie urbane non erano ragazzate o una specie di carnevali del sabato pomeriggio. Non erano cortei di ragazzi viziati dal benessere e noi vecchi non abbiamo capito che stavano difendendo il loro futuro… Insomma, si sono liberati con molta fatica di obblighi e di leggi quasi medievali.”

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