Umberto Eco tra integrazione e cultura

Uno scritto di Umberto Eco di qualche anno fa, raccolto in un piccolo libro ‘Cinque scritti morali’,  sosteneva una tesi condivisibile: i fenomeni migratori non si possono fermare. Sarebbe sciocco anche solo pensarlo. E questo non per pigrizia né per indolenza; ma perché quando a spostarsi da un continente all’altro sono intere popolazioni, controllare tale fenomeno diviene un’utopia fra le più deleterie.

La politica degli stati – sul piano nazionale e quello mondiale – ha le sue ragioni e non spetta ai cittadini discuterle o criticarle come se ben si conoscessero le dinamiche sottese alla gestione di fenomeni di così vasta portata. Sul piano culturale, però, è pur sempre lecito dire qualcosa.

Innanzitutto: perché avere paura di culture diverse dalla propria? Ogni civiltà degna di tal nome, non è mai cresciuta isolata da influenze esterne. Al contrario, nei secoli si è semprecercato di nutrirsi il più possibile di ciò che estraneo ai propri riferimenti valoriali e di pensiero, sgranando il tutto nei minimi particolari e riproducendolo al meglio delle rispettive possibilità. La vera integrazione è sempre analisi critica di ciò che non si conosce, nel tentativo di comprendere quanto possa arricchire il proprio patrimonioL’Europa – quella umanistica, non quella banale dei numeri e dei trattati è stata un faro di civiltà per l’Occidente proprio perché dell’integrazione ha fatto la sua essenza.

Si potrà anche  dire che i tempi son mutati rispetto al passato, e ciò che qualche anno fa era possibile oggi non lo si può più percorrere. Ma questa è una scusa. Gli immigrati fanno paura alle persone per ignoranza e per partito preso.

Gli immigrati incutono paura anche per partito preso perché i mass-media persistono nel nutrire la malsana idea chessi siano venuti qui per rubare mestieri che potremmo fare anche noi. Anche per loro, i medesimi lavori che noi italiani non svolgiamo perché proposti a condizioni vergognose e indecorosamente sottopagati, rappresentano un ripiego per vivere. Come per noi, anche lo stereotipato venditore ambulante o bracciante di colore avrebbe piacere a fare un lavoro d’ufficio. Perché non lo fa, allora? In quanto mancano le condizioni – politiche e, prima ancora, culturali – in grado di rendere consapevoli le persone che ormai ci si avvia verso un mondo professionale sempre più orientato all’immaterialità.

Gran parte della produzione industriale viene oggi  realizzata attraverso macchinari. Ciò vuol dire che non si ha bisogno di più operai. Semmai, di lavoratori in grado di poter gestire e guidare il lavoro svolto da questi robot. Che essi siano italiani o stranieri non importa. 

Si provi ad osservare la realtà del nostro quotidiano da questa prospettiva: ci si renderà conto che non esistono lavori per pochi eletti. Ogni professione appartiene a chi mostra di possedere le doti necessarie per svolgerla. E tutto ciò non necessita di bandiere.

Da qui si acquisirà anche un altro guadagno: nell’apprendere a non vedere più una persona come uno straniero, bensì come un individuo depositario d’una ricchezza straordinaria che potrebbe divenire nostro patrimonio,  e viceversa.

Ovvio che tutto ciò presuppone grande padronanza della propria cultura. Da questo punto di vista, noi italiani siamo arretrati rispetto ad altre popolazioni. E forse è proprio questa carenza a rendere difficoltoso il dialogo con chi non ci somiglia.

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