Trump attacca la Cina e punisce le imprese che vanno all’estero

‘Le imprese americane che porteranno all’estero la propria produzione per poi rivenderla negli Stati Uniti saranno sanzionate con una tassa all’import del 35 per cento’, annuncia  il presidente eletto Donald Trump, confermando così la sua aggressiva politica volta a incentivare gli investimenti aziendali nel Paese  scoraggiando la delocalizzazione produttiva. Il monito del tycoon arriva in una serie di tweet in cui  spiega come la nuova amministrazione vuole  incentivare le imprese che restano in America con un drastico taglio di tasse e regole: ‘Ogni impresa che lascia il nostro Paese per un altro  licenzia i propri dipendenti, costruisce una nuova fabbrica all’estero e poi pensa di poter rivendere i prodotti negli Usa senza conseguenze, Sbaglia! Presto ci sarà una tassa del 35% sulla nostra frontiera sempre più forte per tutte le aziende che vogliono rivendere i loro prodotti dentro il nostro confine’.  Nella  settimana scorsa Trump ha annunciato con grande soddisfazione di aver raggiunto un accordo con ‘United Technologies Corp’ che prevede di mantenere 1.100 posti di lavoro in uno stabilimento che produce impianti di aria condizionata per aerei a Indianapolis. In origine i piani dell’azienda prevedevano di trasferire quei posti in Messico, dove avrebbe pagato i dipendenti 3 dollari l’ora anziché tra i 20 e i 26. La teatralità del gesto non scioglie però i nodi perché il gruppo procederà comunque a spostare altri 1.300 impieghi oltre confine. E i posti salvati sono lo 0,2% degli impieghi manifatturieri in Indiana, in calo del 20% dal Duemila. Il neopresidente degli Usa critica, inoltre,  le politiche economiche e militari di Pechino  dopo le polemiche, durissime, divampate per la sua chiacchierata al telefono con la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen: ‘La Cina ci ha forse chiesto se fosse ok svalutare la loro moneta rendendo difficile per le nostre imprese competere, tassare pesantemente i nostri prodotti nel loro Paese, mentre gli Usa non tassano i suoi,  o costruire un grande complesso militare nel mezzo del Mar cinese meridionale? Non credo!’. La telefonata con Taipei è stata la prima da parte di un presidente eletto,  o di un presidente statunitense con un leader taiwanese da quando il presidente Jimmy Carter riconobbe il governo di Pechino come l’unico di tutta la Cina, e Taiwan parte di ‘una sola Cina’. Pechino sabato ha presentato una protesta formale agli Stati Uniti, affermando che il principio ‘una sola Cina’ sia alla base delle relazioni bilaterali. Il vice presidente eletto, Mike Pence, ha provato a gettare acqua sul fuoco, definendo ‘di cortesia’ la telefonata, per cercare di sminuirne la rilevanza politica. Il primo commento di Trump alle polemiche era arrivato, anche in questo caso, via Twitter: ‘È interessante vedere come gli Stati Uniti vendano a Taiwan equipaggiamenti militari per miliardi di dollari, ma io non debba accettare una telefonata di congratulazioni’. Il riferimento, neanche troppo velato, è al contratto firmato l’anno scorso dall’amministrazione Obama, del valore di 1.830 milioni di dollari, per la consegna di due fregate, veicoli anfibi e missili. Ricordiamo che fu un accordo, questo,  che fece infuriare Pechino. Passando alla squadra di Trump è stato comunicato che il primo afroamericano della nuova amministrazione americana è Ben Carson, che Trump ha voluto fortemente accanto a sé,  e a cui è stata affidata la poltrona di ministro per lo Sviluppo urbano.  Carson, prima di entrare in squadra, aveva sfidato Trump alle primarie del Partito repubblicano per la nomina da candidato presidente. Sessantacinque anni, una carriera da neurochirurgo ora in pensione, in passato Carson ha fatto molto parlare di sé per una serie di posizioni controverse, incluso il suo essere a favore del creazionismo e contro l’aborto, che aveva definito una piaga come la schiavitù. Restando a New York c’è da segnalare che il sindaco, Bill de Blasio, ha chiesto  al Congresso americano 35 milioni di dollari. La somma,   ha fatto sapere,  serve per coprire i costi necessari per la protezione del presidente eletto fino al giorno dell’inaugurazione, il prossimo 20 gennaio a Washington. Dall’8 novembre il sistema di protezione di Trump e della sua famiglia e’ costato alla citta’ di New York oltre un milione di dollari al giorno.

Cocis

 

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