Trump all’attacco, via subito 3 milioni di clandestini

Dopo la sua elezione a 45esimo presidente degli Stati Uniti Donald Trump continua a dare indizi su come sarà la sua amministrazione. In un’intervista alla Cbs ha confermato l’intenzione di applicare una delle sue promesse elettorali, ovvero l’espulsione di 2-3 milioni di clandestini con precedenti penali: ‘Quello che faremo è buttare fuori dal Paese o incarcerare le persone che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga, indicando la cifra in due, forse anche tre milioni’. Quanto agli altri irregolari, il neo presidente eletto ha sostenuto che una decisione verrà presa dopo aver reso sicura la frontiera. Su questo punto il neo presidente ha confermato l’intenzione di erigere un muro al confine con il Messico, precisando però che parte di esso potrebbe essere solo una recinzione. Le parole di Trump sull’idea di espellere milioni di persone si scontrano però con quanto affermato da Paul Ryan, presidente repubblicano della camera dei rappresentanti, in passato in contrasto con il tycoon newyorkese: ‘Non stiamo pianificando una deportazione di massa’,  ha affermato Ryan alla Cnn. La somma delle crisi sia economica che delle migrazioni ha realizzato l’elezione di Trump per una vera e propria rivolta contro l’establishment, contro il potere costituito, contro un passato che ha seminato povertà, distribuzione diseguale del reddito, abbassamento delle condizioni di vita conseguente alla riduzione della quota di Pil destinata ai salari,  e quindi ad ampie fette del ceto medio. Quello di Trump non è solo  populismo perché  vi sono bisogni reali e domande inascoltate, che non si possono rinchiudere  in   populismo e   xenofobia. Trump ha sfondato promettendo da un lato 25 milioni di posti di lavoro, e dall’altro la chiusura ermetica della frontiera con il Messico. Peccato che della manodopera che arriva dal paese confinante abbia assoluto bisogno perché con gli attuali tassi di disoccupazione i venticinque milioni di posti in più non si coprono a meno che non si chieda a tutti di fare un secondo e triplo lavoro. Il collegamento tra i mercati della povertà e del lavoro è complessa. Salari stabili e stabile occupazione a tempo pieno, sia chiaro, possono  far uscire dalla povertà. Ma, tuttavia, la stagnazione dei salari nella parte inferiore della distribuzione dei salari degli Stati Uniti nel corso degli ultimi decenni, e continui bassi tassi di lavoro a tempo pieno, soprattutto nelle famiglie monoparentali, spesso lasciano le famiglie al di sotto della soglia di povertà ufficiale. Nel 2014 sono dell’82 per cento i lavoratori poveri secondo il Bureau of Labor Statistics. Redditi esigui continuato ad essere il problema più comune, con il 67 per cento soggetti a basse guadagni.  Se lo stato di occupazione riflette fattori di offerta o di domanda rimane una incognita. La povertà è notevolmente più elevata negli Stati dove i salari,  nella parte inferiore della distribuzione,  sono più bassi. I tassi di povertà sono quasi cinque punti percentuali in più negli Stati con più basso costo di manodopera, rispetto a Stati con i salari più alti. Gli Usa sono stati i precursori sul terreno dei working poor, quando lavorare non è più un’assicurazione sulla vita se ci sono categorie di lavoratori regolarmente occupati, ma che si trovano di fatto in condizioni di povertà. Sono i cosiddetti working poor, lavoratori con un basso livello di reddito, divisi tra salari da fame e contratti a intermittenza. La realtà è che Trump nelle sue  declinazioni offre ipotesi di risposta e risulta più convincente di quei partiti che sono storicamente nati per riscattare gli ultimi, i penultimi e i terzultimi, per redistribuire la ricchezza, per ridurre la diseguaglianza, per chiudere la forbice che separa il reddito di chi ha troppo da quello di chi ha troppo poco. Cosa che nella realtà non è avvenuta. Ha trionfato con l’elezione di Trump  l’idea di comunità che  si auto-difende,  semmai armi alla mano, che guadagna consensi sull’onda delle giuste rabbie della gente che la crisi ha messo in ginocchio. Crisi creata da chi    non conosce cosa ci sia realmente dietro quelle rabbie, che non coglie  i sacrifici e le umiliazioni,  perché nel frattempo ha potuto dormire sonni tranquilli su materassi pieni di quattrini.  L’America della Grande Depressione si risollevò facendo leva sulla speranza che si identificava in Franklin Delano Rosevelt, mentre  l’America di oggi ha deciso di affidarsi alla semplice retorica di Donald Trump.

Roberto Cristiano

 

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