Tartaglia Arte: Nuovo abitare. Perché abbiamo bisogno dell’arte

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, l’articolo ricevuto da Tartaglia Arte:

La varia umanità che popola il pianeta – abbiamo scoperto i dati come questione esistenziale. Dati e, ovviamente, la computazione necessaria a decifrarli, elaborarli e trasformare queste grandi quantità di dati nella possibilità di conoscere e, soprattutto, di avere esperienza dei fenomeni complessi del nostro mondo: il virus, il cambiamento climatico, le migrazioni, il mercato finanziario… Le nostre vite, nei legami più intimi quanto nelle comuni convenzioni sociali – chi posso incontrare, abbracciare, celebrare nel giorno delle nozze e della sua dipartita, se posso o non posso andare a scuola o al lavoro –, sono appese al filo sottile della computazione, di statistiche e numeri entrati con violenza nelle nostre vite, ma con una scarsissima capacità di generare senso e consentire a noi stessi di “farci delle cose”, di usarli per entrare in contatto con il nostro ambiente e con gli altri e, così, posizionarci. Dopo quasi un anno di altalene fra zone gialle, rosse e arancioni si può anzi dire il contrario: questi dati preziosi che tanto influenzano le nostre vite non sono diventati un fenomeno espressivo che ci unisce in modi nuovi. Proposti sotto forma di bollettini militari, questi dati così ricchi, preziosi e potenzialmente rivoluzionari sono rimasti materia degli esperti. E così, progressivamente, il loro destino è svuotarsi di senso, di essere usati come arma nei nostri confronti per esercitare dominio e controllo, invece che diventare parte della nostra storia, della nostra autobiografia e, soprattutto, della nostra auto-rappresentazione – ovvero la parte delle nostre libertà di espressione che usiamo per poter comunicare chi siamo. Armi, invece che gradi di libertà. Mai come oggi, proprio per questo, la collaborazione fra l’arte e la scienza può fare la differenza per recuperare questa dimensione essenziale: se c’è una cosa che possiamo imparare da questo 2020 è che la sfida tecnologica da abbracciare è estetica. Quella, cioè, che riguarda la percezione, il modo in cui le tecnologie ci cambiano, ci rendono donne e uomini differenti. Nell’arte – lo spazio della percezione – possiamo esplorare questa trasformazione, porci dilemmi, esprimerci su questioni che riguardano la vita di tutti, non solo un gruppo di tecnici ed esperti assoldati per l’ennesima task-force per trovare “soluzioni”. L’arte è lo spazio in cui possiamo costruire un’immaginazione sociale del possibile e del desiderabile, e iniziare a trattare i dati e la computazione come gli artefatti culturali ed esistenziali che sono diventati. C’è un ma, ovviamente. Questo spazio può esistere se l’arte stessa si fa soggetto, attore e partner dell’innovazione. Come artisti possiamo continuare a intrattenere la scienza e il pubblico creando balletti dentro un acceleratore di particelle, visualizzare dati in modi sempre più spettacolari, o immaginare mostre 3D sempre più elaborate per vedere le collezioni dei musei, conficcando i nostri pubblici su una poltrona solitaria di ultima generazione. Faremo cose bellissime e importanti, ma avremo perso un’occasione.

ARTE E DATI

L’arte oggi può avere un ruolo differente. Può prendere i dati e portarli in mezzo alla società, togliendoli dall’isolamento, dandoli alle persone e alle organizzazioni perché possano essere parte della loro vita, non (solo) come ottimi servizi, ma per unirci e inventare intorno a questi giovani artefatti culturali, ritualità, pratiche, azioni collettive e connettive al cui centro non ci sia la logica dell’estrazione e del calcolo, ma quella dell’espressione e della sensibilità. Anche il museo può cambiare, e diventare l’hub che ospita persone e organizzazioni, che catalizza azioni e le nutre: il museo del terzo millennio può farsi luogo della Cura, un’istituzione culturale “fuori di sé”, che sa muovere e commuovere e non solo preservare/conservare. Possiamo finalmente liberarci di un engagement calcolante e cercare di commuoverci insieme. In questo anno abbiamo partecipato a poche dirette, e progettato molto. È stato un anno di ritiro in cui abbiamo tentato di abbracciare quello che per noi era il messaggio più dirompente della pandemia: un tempo per pensare e ri-pensare ciò che siamo, cosa facciamo e come lo facciamo.

I CUSTODI DELL’ACQUA A PALERMO

Sulle sponde dell’Oreto, da qualche mese a Palermo ci sono 16 Custodi dell’Acqua. Insieme, muniti di semplici sensori, stanno rilevando dati sullo stato di salute delle acque del fiume: i dati alimenteranno un’installazione meditativa dentro l’Ecomuseo Mare Memoria Viva. Ma è il processo a essere straordinario. I dati, in questo caso, non hanno nulla a che vedere con i processi di estrazione di cui sono solitamente protagonisti, e nemmeno con lo stare soli dietro uno schermo. Dati significa indossare un ruolo sociale nuovo che prima non esisteva (diventare “custode dell’acqua”), mettersi delle galosce, infangarsi, attaccare uno spago a un barattolo di vetro per prelevare l’acqua nei punti inaccessibili del fiume, organizzare una gita alla scoperta della natura sconosciuta con un gruppo di persone in cui si mischiano studenti dell’accademia, medici, architetti, ricercatori, attivisti dell’ambiente, amanti dell’Oreto. Conoscere il fiume attraverso i suoi dati e sapere che sei tu, con i tuoi compagni, a dargli voce. Tutto questo sta accadendo da novembre. Il progetto si chiama U-DATInos, uno dei tre progetti che abbiamo seguito in questo anno e che abbiamo ripensato facendo della pandemia, dei dati e della computazione un limite esistenziale costruttivo ed espressivo. Ci siamo trovati a lavorare in remoto, con i 16 Custodi che hanno risposto alla call abbiamo fatto un workshop per settare i sensori, discutere il progetto e i successivi passi organizzativi. Ci siamo muniti di strumenti di collaborazione e abbiamo iniziato. Da Torino, la città in cui ci troviamo, abbiamo assistito al fiorire di questo progetto di cui noi, gli artisti, non siamo più il centro. I Custodi hanno ricevuto un kit, composto da un set di tecnologie, dalla documentazione e da un format di azione (la raccolta dei dati), che avrebbero potuto realizzare anche singolarmente. Era questo, anzi, il piano “0”, compatibile con le eventuali restrizioni imposte dal Covid e con l’attenzione alla salute di tutti. Allo stesso tempo, però, era evidentemente una azione collettiva, incarnata in un base di dati che stavamo alimentando tutti insieme: lo stato di salute delle acque del fiume. Era un “essere insieme” e un fare qualcosa con i nostri corpi ben diverso dal guardare uno schermo, o in steam o nell’ennesima videocall che ha inglobato tutto: il gruppo si sarebbe messo d’accordo con un calendario e una mappa, per coprire tempi e luoghi, ci saremmo comunicati i dati durante le rilevazioni, sapendo che un Custode era all’opera, e una interfaccia su cui caricare e geolocalizzare i dati ci avrebbe consentito di vedere insieme la mappa di U-DATInos popolarsi. Qualcosa di vivo.

IL PROGETTO U-DATINOS

Visto che la Sicilia è presto diventata zona gialla, le cose si sono evolute diversamente. Non potendo accedere al museo il gruppo ha iniziato a riunirsi all’aperto, fuori. Abbiamo assistito con stupore noi stessi al movimento, ricevendo immagini, notifiche e video-chiamate dalle spedizioni. I Custodi si autorganizzavano. I ricercatori presenti hanno portato l’attrezzatura per aiutare nel settaggio, gli appassionati del fiume hanno portato mappe con la guida agli accessi e a dicembre sono state organizzate ben due spedizioni fuoriporta con tanto di condivisione di passaggi, macchine, scambio di vestiario tecnico per chi non era attrezzato, riprese, video, montaggi, foto, reinterpretazioni artistiche come questa di Nathalie Rallo, Custode dell’Acqua e studentessa dell’Accademia di Belle Arti. Il gruppo si è spinto fuori Palermo, alla foce dell’Oreto, in un luogo che sembra la Cambogia: Fonte di Lupo. E poi il tratto urbano: Ponte Ammiraglio, Ponte Corleone e Ponte Rotto… È scattato un meccanismo di appropriazione, per cui ora esiste il concetto che è possibile esplorare il fiume per “dargli una voce”, e che i dati sono il vettore per esplorare il territorio col corpo: sull’Oreto i dati uniscono le persone in atti di autorganizzazione, convivialità, immaginazione sociale e avventura. I dati sono un viaggio e la scienza, sporca di fango anche lei, scende nel mondo: dalle élite di tecnici ed esperti passa a un “noi” diffuso che crea sensibilità e anticorpi a quel temibile populismo che vive e prospera proprio quando dalla scienza restiamo separati. L’Ecomuseo, con la sua équipe coordinata da Cristina Alga, è stato sempre lì: un hub per le persone, un connettore di punti presente alle riunioni online quanto a ogni imprevista spedizione decisa dai Custodi. Pieno di cura e amore, parte dei processi e degli ecosistemi che si muovono sul fiume – come il Comitato Promotore del Contratto di Fiume e di Costa Oreto –, felice di avventurarsi insieme al gruppo negli anfratti del fiume, infilare le galosce e partire, l’Ecomuseo è già un’istituzione commovente. Il valore di questo progetto è proprio qui, nella commozione, nell’essere una piattaforma di espressione che consente alle persone di muoversi, di fare delle cose insieme, magari cose che si facevano anche prima, come una gita sul fiume, ma in una cornice di senso differente: far parlare il fiume, generare dati, alimentare un’installazione d’arte che consentirà ad altri di connettersi con l’Oreto. Essere Custodi dell’Acqua corrisponde a un cambiamento di stato, a un’intera nuova gamma non prevedibile di attivazioni sul territorio, di ruoli da indossare e persino nuove economie, come un eco-turismo “datapoietico” che gruppi di cittadini, associazioni, e lo stesso Ecomuseo potrebbero portare avanti a progetto chiuso per continuare ad alimentare la cura del fiume.

RITUALI DEL NUOVO ABITARE

U-DATInos, una volta che è stato portato nel mondo, non dipende più da noi come artisti. La sua vita, come dispositivo culturale e tecnologico, può continuare a generare senso e attivazione nella comunità in cui è stato inserito, facendo dei dati uno spazio espressivo che consente alle persone di appropriarsene e agirli per i propri scopi e desideri. Un dispositivo massimamente accessibile: anche un nonno o un bambino, una classe o una famiglia possono essere Custodi, una volta ottenuti i sensori. La nostra opera è questa, il suo più grande valore è qui, nel processo più che nell’installazione in sé – che, tutto sommato, potrebbe alimentarsi da un sensore statico inserito in uno o più punti del fiume con maggiore continuità. Ma non sono i dati e il loro spettacolo che ci interessano. Come artisti possiamo accontentarci di visualizzare i dati, di fare un videogame o di trovare qualche altro uso artistico per qualche Intelligenza Artificiale o altra tecnologia, ma resteremo una piacevole decorazione. Il nostro punto di vista è che nel mondo che ereditiamo dalla pandemia questo non possiamo più permettercelo. Che sentiamo il bisogno di abbracciare la sfida estetica dei dati e della computazione, cioè occuparci della percezione e del senso. Che la pandemia è la prima tragedia globale ad averci colpito con forza, e che altre verranno. Per averci a che fare abbiamo bisogno di sviluppare nuove sensibilità ai dati che ci servono per comprendere il comportamento di un virus oggi e del clima domani. E, con questa sensibilità, ispirare nuove condotte, ethos e comportamenti. Chiamiamo tutto questo i Rituali del Nuovo Abitare: è il risultato di un anno di ripensamento che ha iniziato a vivere nelle progettualità del 2020, che portiamo avanti sia come artisti che come centro di ricerca. Il piccolo U-DATInos, figlio della pandemia, sull’Oreto è già un nuovo abitare. By Salvatore Iaconesi e Oriana Persico – artribune.com


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