Basilica di Santa Maria in Ara Coeli, Roma – 30 ottobre 2025
Ci sono spettacoli che non si limitano a essere visti, ma che si vivono, lo Stabat Mater firmato da Romeo Castellucci per il Teatro dell’Opera di Roma, con la direzione musicale di Michele Mariotti, è una di quelle esperienze che chiedono un coinvolgimento totale, quasi fisico.
Già l’avvicinamento alla Basilica dell’Ara Coeli, con la sua scalinata ripida e monumentale, segna l’inizio di un’ascesa simbolica, si sale infatti nel buio della sera e nel buio si entra, dove la penombra accoglie e prepara al rito.
La navata centrale è occupata da una lunga piattaforma sopraelevata, il vero spazio scenico dell’azione performativa e musicale. Il pubblico siede sul lato lungo, quasi in posizione di testimone. Gli orchestrali, vestiti in tuta mimetica, entrano come un esercito che prende posizione in un gesto teatrale potente, l’esecuzione dei “Quattro pezzi per orchestra su una nota sola” di Giacinto Scelsi preparano all’ascolto di Pergolesi. “Ribattendo a lungo una nota essa diventa grande, così grande che si sente sempre più armonia ed essa vi si ingrandisce all’interno, il suono vi avvolge” così il compositore ligure descrive il suono nelle citazioni contenute nel programma di sala.
Durante l’esecuzione tre enormi e simboliche lance metalliche ruotano sopra la platea amplificando la tensione e l’instabilità, minacciose, imprevedibili, diventano metafora della precarietà, del destino che incombe su chiunque di noi.
Come ha raccontato Mariotti in un’intervista recente, la musica di Pergolesi “non consola, ma scava” ed è esattamente ciò che accade qui: il celebre oratorio, che di solito si ascolta in forma concertistica, diventa una esperienza drammatica e corporea. Lui stesso nell’intervista presente nel programma di sala parla di versione totale perché “Parlare di versione scenica è riduttivo. Diventa un rito liturgico. L’orchestra è davanti all’altare […] Siamo tutti immersi e coinvolti in questo progetto, cantanti, attori, professori d’orchestra. Io lo dirigo vestito da soldato, in tuta mimetica e così appare l’orchestra, con armi, elmi, anfibi. Siamo in una chiesa, ci sono le guerre attorno a noi, è un’immagine potente, violenta, attuale”.
La voce di Emőke Baráth nel “Cuius animam gementem” si libra nell’aria mentre le lance la trafiggono simbolicamente: un’immagine che rende visibile e fisico il verso “pertransivit gladius”, il dolore che attraversa l’anima. È una scena quasi plastica, scultorea, in cui la musica diventa carne e visione.

Sara Mingardo, con il suo timbro caldo e profondo, accompagna l’intero percorso con una sensibilità struggente, culminando nel “Fac, ut portem Christi mortem”, dove la voce sembra farsi preghiera collettiva amplificando il trasporto nel momento della deposizione che diventa Pietà “corale” durante il quale una schiera di bambini, alcuni anche molto piccoli, si sono seduti sul bordo del palco, di fronte al pubblico con le braccia pronte ad accogliere un Cristo morto, generando una scena di grande e rara intensità, un bambino in contemplazione di un uomo adulto, morto, un custode del dolore e del futuro. È una delle immagini più potenti e commoventi dell’intero spettacolo nella quale l’umanità fragile che accoglie la morte è allo stesso tempo in grado di custodire il futuro.
Personalmente, ho dovuto trattenere le lacrime.
Subito dopo lo Stabat Mater, la drammaturgia musicale prosegue con le “Three Latin Prayers” di Giacinto Scelsi (1970) per coro a cappella. L’Ave Maria e il Pater Noster, eseguiti dal Coro di Voci Bianche del Teatro dell’Opera di Roma diretto magistralmente da Alberto De Sanctis, portano un senso di sospensione luminosa, le voci infantili riempiono la Basilica come un soffio, una luce interiore che scioglie la tensione barocca in una purezza quasi mistica.
L’ultimo brano, l’Alleluia, affidato alla voce sola di Emőke Baráth, è di un’intensità folgorante: la sua voce si staglia nel vuoto e nel silenzio attento della Basilica, trasformando l’eco in preghiera, il respiro in rivelazione.

Castellucci costruisce uno spazio in cui la musica diventa luce e la luce diventa pensiero, la sua messa in scena non cerca di spiegare ma chiede di sostare… “Stabat Mater” stava la Madre dice Castellucci, e quello “stare” è tutto. Il dolore non è rappresentato, ma condiviso e all’Ara Coeli le ricerche musicali di due autori così apparentemente distanti trovano il loro luogo naturale, sospeso tra la pietra del potere e il respiro del sacro.
Alla fine, quando la musica tace, resta solo la luce fredda che scivola proprio su quella pietra, senza un applauso immediato, ma con un silenzio lungo, quasi reverenziale. In quel silenzio risuona il senso profondo dello Stabat Mater, il bisogno di “stare” davanti al dolore, di guardarlo, contemplarlo, senza mai voltarsi.
VOLTI DEL POTERE – STAGIONE 2024/2025 DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
Stabat Mater
Musiche di Giovanni Battista Pergolesi e Giacinto Scelsi
Direttore Michele Mariotti
Regia, scene, costumi e luci Romeo Castellucci
Drammaturgia Christian Longchamp
Collaboratrice artistica Maxi Menja Lehmann
Collaboratrice alle scene Paola Villani
Collaboratrice ai costumi Clara Rosina Straßer
Collaboratore alle luci Benedikt Zehm
Coordinatore dei movimenti Aurélien Dougé
Soprano Emőke Baráth
Mezzosoprano Sara Mingardo
Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Con la partecipazione del Coro di Voci Bianche del Teatro dell’Opera di Roma (Maestro Alberto De Sanctis)
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
In coproduzione con Grand Théâtre de Genève, Vlaamse Opera, De Nationale Opera
BASILICA DI SANTA MARIA IN ARA COELI
Loredana Margheriti
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