Riforme, Meloni: ‘Stabilità prioritaria’. Schlein: ‘No al premierato’. Calenda apre al sindaco d’Italia

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con la segretaria del Pd, Elly Schlein, in occasione dell’incontro sulle riforme istituzionali, a Palazzo Montecitorio.

“L’elezione diretta del premier assicura stabilità al governo: è questa la più potente riforma economica che possiamo realizzare. E’ una nostra priorità e formuleremo una nostra proposta. Spero in una condivisione ampia, che vada oltre la maggioranza ma non a costo di venir meno all’impegno assunto con i cittadini”. Giorgia Meloni tiene fede alle sue promesse in campagna elettorale e va avanti. Ma il Pd e il M5s non ci stanno a un radicale stravolgimento dell’architettura istituzionale, al passaggio da una Repubblica parlamentare a una presidenziale. E in uno stato di incertezza sull’esito delle trattative con l’opposizione spunta anche l’ipotesi di una commissione ad hoc. Per la leader dem Elly Schlein, quella delle riforme “non è una priorità del Paese. Bene rafforzare la rappresentanza e la stabilità magari riformando la legge elettorale, senza liste bloccate, con la sfiducia costruttiva, ma non a scapito dei “pesi e dei contrappesi”, del parlamento e soprattutto ai danni del presidente della Repubblica. Non siamo per ridimensionare il ruolo del presidente della repubblica verso un modello di un uomo o un donna sola al comando”, afferma la segretaria del Pd.

La leader dem si è fatta precedere da alcune dichiarazioni rilasciate al Tg3. Alcune “neutre” come quella riferita alla «bicamerale» («a noi più che lo strumento interessa la qualità del confronto») auspicata da Giuseppe Conte. Altre esplicite quel tanto che basta a capire che la leader del Pd considera il capitolo riforme come una pratica fastidiosa. Prova ne sia la velocità con cui è passata dal tattico «siamo venuti ad ascoltare quello che hanno da dirci e faremo le nostre proposte» all’alibistico «al confronto non ci si sottrae, l’importante è che sia vero, non già deciso perché vogliono andare avanti a prescindere, e che sia largo».

Ogni riferimento al presidenzialismo è puramente voluto. Purtroppo per lei, non l’unica opzione in campo. Infatti, c’è anche quella del semipresidenzialismo alla francese e, ancor più, del premierato che  ha incassato l’apertura di Azione e Italia Viva, due partiti di minoranza. Se sperava quindi in aut-aut, dovrà mutare strategia. Forse è quel che la Schlein ha cominciato a sperimentare ribaltando l’ordine delle priorità. Si comincia dalla legge elettorale («basta con i listini bloccati») e solo dopo si verifica la disponibilità a «ragionare della sfiducia costruttiva» e a «rafforzare gli istituti referendari e le leggi di iniziativa popolare». Che è un po’ come mettere il carro davanti  e i buoi dietro.

Anche Giuseppe Conte è d’accordo sulla necessità di dover rafforzare i poteri del premier ma “in un quadro equilibrato, che non mortifichi il modello parlamentare”. E soprattutto insiste sul mantenimento della funzione “chiave”. del Presidente della Repubblica “di garante della coesione nazionale”.

Per Benedetto della Vedova, di +Europa, l’elezione diretta provocherebbe addirittura “un conflitto istituzionale” con il Colle. Secondo Nicola Fratoianni (Si), la Costituzione “va attuata, non cambiata”. Un’ apertura viene da Azione, con l’idea del “Sindaco d’Italia”, ma anche Carlo Calenda avverte: “Nessuno tocchi le funzioni del presidente della Repubblica”. Quindi ritiene “necessario” parlare con le altre opposizioni. Su questo punto è dello stesso avviso Maria Elena Boschi: “Noi di Italia Viva riteniamo che non ci sia la necessità di un coordinamento con le opposizioni, tantomeno con i 5 stelle”.

La maggioranza sembra determinata a procedere sulla strada delle riforme cercando un consenso ampio ma anche con la forza di affrontare un eventuale referendum che si terrebbe qualora non venisse ottenuta la maggioranza dei due terzi nella seconda delle votazioni.

E’ questo in sintesi l’esito dei colloqui che la premier ha avuto, insieme a una folta delegazione del governo, con tutti i massimi vertici delle forze di opposizione, nel corso di questa lunga e attesissima sessione di consultazioni. Un formato, quello dei faccia a faccia nella biblioteca del presidente a Montecitorio, che ricorda quello usato negli incontri per la formazione di un nuovo governo. Va bene il confronto, tuttavia, per l’ìnquilina di palazzo Chigi, è chiaro che indietro non si torna.

Nei principali Paesi dell’Occidente sono diversi e variegati i modelli costituzionali. La loro architettura definisce, tra l’altro, la separazione dei poteri e i sistemi con cui vengono eletti i vertici delle cariche istituzionali.

Ma se l’obiettivo è chiaro, al di là delle soluzioni tecniche, resta ancora da decidere lo strumento più adeguato per raggiungerlo. Le strade tradizionalmente sono essenzialmente due: o seguire la via ordinaria, presentando un testo di legge in parlamento o creare, appunto, una Commissione ad hoc, un’ennesima Bicamerale o un’altro organismo, magari presieduto da un esponente dell’opposizione, dove concentrare gli sforzi di riforma.

Su questo punto, la premier non si sbilancia, l’importante per lei è fare presto e bene: “Il famoso ‘tutto cambia perché nulla cambi’ – è il suo ragionamento nel corso del confronto con i Cinque Stelle – non è accettabile, ma se ci sono strumenti che ci consentano di fare in tempi ragionevoli ciò che dobbiamo ci possiamo confrontare. Fermo restando che la sede propria esiste già, è la Commissione affari costituzionali, che questo lavoro fa e ha sempre fatto”. Sempre per quanto riguarda la commissione ad hoc per le riforme, osserva che “si può dialogare su tutto purché non ci siano intenti dilatori”. Su questo tema, Conte ha lanciato l’idea della Bicamerale. Fredda Elly Schlein: “lo strumento del confronto saranno loro a stabilirlo. A noi più che lo strumento ci interessa la qualità e il perimetro di questo confronto”.

Il dibattito sulle riforme tra maggioranza e opposizione verte essenzialmente sulla forma di governo e i tre modelli sui quali la presidente del Consiglio Giorgia Meloni insiste sono quelli del presidenzialismo, del semipresidenzialismo e del premierato con l’elezione diretta del capo del governo.

PRESIDENZIALISMO – E’ da sempre il pallino di Giorgia Meloni che ha detto più volte di guardare con favore al modello americano, ma quella forma di governo, come sottolinea anche il costituzionalista Stefano Ceccanti, si basa sulla rigida separazione tra un potere legislativo bicamerale ed un Esecutivo fondato sulla figura del Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo.

Il Governo presidenziale è abbastanza stabile, ma la rigida separazione tra le istituzioni fa sì che, soprattutto in caso di maggioranze politiche opposte, la capacità decisionale, alla fine, sia ridotta.

E proprio questo è il motivo per cui nessuna grande democrazia europea ha sinora pensato di importarlo.

SEMIPRESIDENZIALISMO – Quando si parla di governo semipresidenziale si fa riferimento soprattutto all’esperienza francese dove c’è un rapporto di fiducia tra Camera e Governo come nelle altre democrazie parlamentari, ma se ne allontana perché i leader di partito anziché competere per la carica di Primo Ministro si contendono quella di Presidente della Repubblica, che è quindi il vero capo dell’Esecutivo, mentre l’altro vertice del governo, il Primo Ministro, ne diventa sostanzialmente un esecutore. Il Presidente dura in carica 5 anni, ma spesso procede a cambi di Governo, anche del Primo Ministro. In molti in Italia si sono ispirati a questo modello, anche per questioni di flessibilità, ma farebbe perdere al presidente della Repubblica il ruolo di garanzia che è previsto invece nella nostra Costituzione.

PREMIERATO – Per premierato si intende una forma di governo che mira ad ottenere con regole formalmente diverse, che tengano conto della debolezza del sistema dei partiti italiani, risultati analoghi a quelli delle grandi democrazie parlamentari, ossia governi di legislatura basati di norma su coalizioni che riconoscano come leader chi sia stato indicato, prima del voto, dal partito più votato. Il Governo nascerebbe quindi formalmente in Parlamento, ma sostanzialmente dal voto degli elettori. Poi c’è anche una variante estrema che punta a importare le regole vigenti per comuni e regioni, quella che il Terzo Polo chiama ‘Il sindaco d’Italia’: è l’elezione diretta del vertice dell’Esecutivo con tanto di scioglimento automatico delle Camere in caso di sfiducia o dimissioni. Ma di premierato ci sono forme diverse, come quella proposta dalla Tesi 1 dell’Ulivo del 1996 che prevede un’indicazione del premier sulla scheda elettorale in luogo di un’elezione diretta.

La maggioranza sembra determinata a procedere sulla strada delle riforme cercando un consenso ampio ma anche con la forza di affrontare un eventuale referendum che si terrebbe qualora non venisse ottenuta la maggioranza dei due terzi nella seconda delle votazioni in ciascuna Camera.

Una maggioranza, che, del resto, a conti fatti, è piuttosto complicata da raggiungere e si attesta a 267 deputati e 137 senatori (nel computo vanno inseriti anche i senatori a vita).

Attualmente a Palazzo Madama, per arrivare a quella soglia alla maggioranza mancano ben 21 voti.

Il centrodestra può contare, infatti, su 116 senatori: 63 di FdI, 29 della Lega, 18 di FI e 6 di Noi Moderati.

Non è da escludere che si possano aggiungere i 5 senatori delle Autonomie (che si astennero sulla fiducia al governo Meloni e che hanno fatto qualche apertura sul modello del premierato). Se il gruppo di Azione-Italia Viva, composto da 10 senatori, nel suo complesso decidesse di sostenere le riforme si arriverebbe, così, a quota 131 e, dunque, a 6 voti da quota 137. Da capire quali scelte faranno i 6 senatori a vita.++

Ancora più complessa la partita dei numeri alla Camera. Per quanto riguarda Montecitorio, infatti, la maggioranza conta su 118 deputati di FdI, 66 della Lega, 44 di Forza Italia e 10 di Noi Moderati: in totale si tratta di 238 voti certi. A questi si potrebbero aggiungere i 4 delle Minoranze linguistiche e si arriva, così, a 242. Anche in questo caso l’eventuale apporto del gruppo di Azione-Italia Viva alla Camera, che è di 21 componenti, non sarebbe comunque sufficiente ad arrivare ai due terzi dei deputati: ci si fermerebbe infatti a 263.

La storia delle riforme e dei tentativi di modifica costituzionale, così come di riforma della legge elettorali, è fatta anche di alleanze inattese ma, di certo, almeno guardando al bilancino, il referendum sembra allo stato, complicato da evitare anche considerando l’eventuale apporto del gruppo più dialogante dell’opposizione.

Nel corso della storia della Repubblica italiana in diverse occasioni partiti e governi hanno deciso di istituire commissioni bicamerali – formate per metà da senatori e per metà da deputati rispettando il principio di proporzionalità – per discutere di riforme costituzionali.

Tre sono le commissioni formate in materia di progettazione di riforme istituzionali nelle precedenti legislature. La prima fu la commissione Bozzi nel 1983, che prevedeva la revisione di 44 articoli afferenti vari ambiti della Costituzione. Il progetto fallì per il mancato accordo tra i gruppi politici. Nel 1993 fu la volta della bicamerale De Mita- Iotti, che proponeva la definizione di una forma di governo neoparlamentare. Il testo, però, non fu nemmeno esaminato a causa della conclusione anticipata della legislatura. La terza bicamerale fu invece istituita nel 1997 dopo l’ormai famoso “patto della crostata” suggellato a casa di Gianni Letta tra Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi. La bicamerale aveva l’ambizione di riformare la seconda parte della Costituzione ma i lavori furono abbandonati per le divergenze politiche tra i partiti coinvolti.

E se la bicamerale della Meloni è al momento solo una delle ipotesi, si comincia già a parlare in Transatlantico, alla Camera, di chi potrebbe diventarne il presidente. Tra i nomi circola quello del senatore Marcello Pera (Fdi), ex presidente del Senato, costituzionalista già in passato impegnato nella questione riforme e che ora presiede la Commissione per la biblioteca e per l’archivio storico. Il ruolo potrebbe altresì essere ricoperto – secondo i rumors – anche dal senatore Pier Ferdinando Casini, a lungo componente delle Commissioni Affari esteri e comunitari e Difesa ed ex Presidente della Camera. Emma Bonino, di Più Europa, è uno degli altri nomi di spicco in campo, data la sua esperienza e attenzione nell’ambito delle riforme e della difesa dei diritti.

Anche Maria Elena Boschi (Iv) potrebbe essere tra le papabili – si commenta – considerando il ruolo da ministro per le riforme costituzionali assunto durante il governo Renzi. Per quanto riguarda il Pd, cominciano a circolare i nomi di Debora Serracchiani, che si occupa di Giustizia nella segreteria di Schlein, e Andrea Orlando, ex ministro del lavoro e delle politiche sociali nel governo Draghi. Passando al M5s, si parla – nei conciliaboli tra parlamentari – di Alfonso Colucci, già componente della commissione Affari costituzionali, e di Stefano Patuanelli, ex ministro dello sviluppo economico durante il governo Conte e delle politiche agricole con Mario Draghi.

«Il problema – ha spiegato il premier nel corso del confronto – non è rafforzare l’esecutivo ma rafforzare la stabilità dell’esecutivo. Non è accentrare il potere». E ancora: «Guardate questa non è una riforma che stiamo facendo per noi stessi. Proprio perché allo stato abbiamo la solidità dei numeri della nostra maggioranza, sarebbe da parte nostra miope limitarci a gestire la quotidianità e non porci il problema di lasciare un segno che possa migliorare il futuro di questa nazione. Io – ha concluso Meloni – immagino una riforma per la quale domani potrei essere paradossalmente ringraziata da qualcuno».

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