Relazioni Usa Europa con Medio Oriente nel post primavere arabe

Dal 2011 ad oggi, la condizione politica e sociale nel Nord Africa e nel Medio Oriente sembra essere ancora lontana dal trovare una soluzione di stabilità e sicurezza. A sette anni dall’inizio delle primavere arabe, la dissoluzione delle vecchie gerarchie di potere e dei sistemi politici autoritari non è stata seguita da un’ evoluzione dei sistemi politici ed istituzionali in chiave più democratica, ma, ha contribuito a creare vuoti di potere che hanno favorito l’esplosione di conflitti interni, dalle radici profonde, sia a livello politico che sociale e religioso, i cui risultati ad oggi sono, i due Stati falliti di Siria e Iraq, la guerra civile in Yemen, il caos libico e la minaccia del Daesh che ha superato i ‘suoi’ confini, riuscendo a proliferare sino alle coste libiche.

L’Unione Europea, prima del rovesciamento dei poteri autoritari della regione mediorientale, ha sempre goduto di buoni rapporti con i regimi, in nome della sicurezza dell’area euro-mediterranea ma anche per via degli interessi economici e dei forti legami di rifornimento energetico con i paesi della costa sud del Mediterraneo. In seguito agli sviluppi catastrofici delle primavere arabe, i paesi dell’Unione non sono stati in grado di seguire una strategia comune e chiara, anzi, hanno avviato agende politiche in conflitto tra di loro, muovendosi sullo scacchiere mediorientale senza cooperazione ed unità di intenti. Sullo sfondo dell’euroscetticismo e antieuropeismo che caratterizza l’Unione europea dei tempi della crisi e delle minacce globali, il tema dell’immigrazione e l’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo è vissuta come emergenza primaria per la vastità del fenomeno e la difficoltà nel gestirlo. Divide l’opinione pubblica e diventa la questione principale delle diatribe politiche di molte realtà nazionali. Sempre più divisa, l’Europa diventa anche più debole dinanzi alla minaccia dello jihadismo, non riuscendo a cooperare per gestire l’individuazione e la presenza di quei lupi solitari, cioè quei soggetti auto radicalizzati, con passaporti europei, ma figli di realtà emarginate e ghettizzate, che rendono individui giovani, vulnerabili al proselitismo e alla radicalizzazione.

Affrontando più da vicino la situazione nel Maghreb, il caos libico è il fronte più caldo dell’area. Qui la comunità internazionale sembra seguire diversi propositi ed interessi che collidono tra loro. Dopo l’uccisione del Colonnello Gheddafi, la Libia ha subito un crollo delle sue strutture statali e di quel sistema di alleanze etnico-tribali sulle quali si è sempre appoggiata per la sua unità. Questa frammentazione sociale e istituzionale si traduce nella rivalità tra i due parlamenti libici, rispettivamente quello di Tobruk e Tripoli, ma soprattutto nella presenza su tutto il territorio di diverse milizie e gruppi para-militari, rappresentanti di numerosi poteri locali ognuno dei quali avanza le proprie rivendicazioni che, al fine di una pacificazione, non possono essere del tutto ignorate. Ad un anno dagli Accordi di Skhirat (Marocco, 17 Dicembre 2015) il premier Fayez Serraj a capo del parlamento di Tripoli (l’unico internazionalmente riconosciuto) non riesce a conquistare il voto di fiducia del parlamento rivale dei laici di Tobruk (formalmente Camera dei Rappresentanti) poiché reputato illegittimo e percepito come imposizione esterna.

Le Nazioni Unite ritengono come unica soluzione alle difficoltà del Paese, un governo di transizione guidato da Serraj, ma, i francesi e le forze speciali britanniche sembrano tenere in considerazione la possibilità di una pacificazione tramite la divisione della Libia. Impossibile pensare di ottenere una qualsiasi risoluzione, senza tenere in considerazione le rivendicazioni degli oppositori di Tripoli e del Generale Khalifa Haftar, uomo forte del panorama libico, membro del Parlamento di Tobruk e capo dell’Esercito Nazionale, le cui ultime vittorie sugli impianti estrattivi di Zueitina, Agedabia, Ras Lanuf e Al Sidra, rafforzano la posizione sul tavolo dei futuri negoziati.

L’Italia, dal canto suo, gode di interessi strategici con la Libia da un punto di vista storico, geografico, politico ed economico. Contraria alla divisione del Paese, ma tenendo in considerazione la possibilità di una federalizzazione, oggi, garantisce con la Missione Ippocrate, il suo supporto logistico e la protezione del personale dell’ospedale militare costruito a sostegno delle forze in lotta a Sirte. Il governo italiano mostra la volontà di includere nel processo di pacificazione il generale Haftar e non preclude l’aiuto agli uomini dell’Esercito Nazionale Libico. Nel frattempo è stata riaperta l’ambasciata italiana a Tripoli ed è stato firmato tra i due governi, un memorandum sul contrasto al traffico di esseri umani e all’immigrazione illegale tramite il rafforzamento delle frontiere tra la Libia e l’Italia che, dovrebbe chiudere la rotta libica dell’immigrazione.

Diversa è la situazione dei rapporti e delle divisioni strategiche sul fronte mediorientale. La più pesante eredità delle primavere arabe è costituita dalla guerra interreligiosa del mondo musulmano a cui stiamo assistendo da anni in Siria e in Iraq. Nello scontro tra musulmani sunniti da una parte e sciiti ed alawiti dall’altra, la Siria come l’Iraq sono due stati al collasso. Le forze che lottano nello scacchiere siro-iracheno sono innumerevoli e vedono l’Europa e gli Stati Uniti ai margini, per via di un atteggiamento più attendista che interventista. Il futuro delle relazioni internazionali e i nuovi equilibri geopolitici dipenderanno molto dagli esiti dei suddetti conflitti. La Russia che insieme all’Iran e gli sciiti di Iraq e Libano combatte i ribelli per favorire il ritorno di Bashar Al Assad al potere, gioca un ruolo di maggiore rilievo, viste anche le vittorie riportate, mentre dall’altra parte l’Occidente, che insieme a Turchia e i paesi arabi del Golfo ha sempre sostenuto i ribelli, rischia di trovarsi in una posizione più debole. A questo si aggiungono i conflitti di interessi all’interno della grande Coalizione a guida statunitense. I rapporti tra Usa e Turchia si sono raffreddati. Ankara si è riavvicinata a Mosca, nonostante i recenti dissidi diplomatici e pur continuando a combattere affianco dell’Occidente nella lotta al Daesh. Ma, la priorità di Erdogan che sembra seguire un’agenda politica propria, rimane il conflitto con i curdi presenti al confine con la Siria, i quali invece, consistono per Washington, dei partner affidabili.

Il grande fattore di incertezza sarà anche il destino dell’Iraq. Gli errori della politica americana nella guerra contro Saddam Hussein hanno portato alla dissoluzione dello stato iracheno e ad un’emarginazione degli arabo-sunniti, creando una situazione pericolosa che ha costituito la base per lo sviluppo del ‘fenomeno’ Isis, sottolineando come gli americani non siano mai riusciti a comprendere la complessità sociale e culturale dell’ambiente iracheno. Oggi, le sorti del paese dipenderanno dagli esiti della guerra in Siria, ma la sconfitta delle milizie di Al Baghdadi non basterà a garantire la pacificazione. L’Italia, come in Libia, è presente sul territorio iracheno con la finalità di supportare il governo locale e il dialogo con le altre forze coinvolte nella guerra all’IS ma allo stesso tempo, con lo scopo di addestrare le forze speciali e le forze di sicurezza Peshmerga. Impegnata nella manutenzione della diga di Mosul con la ditta Trevi, svolge un ruolo importante per il sostegno di una delle aree più calde dell’Iraq.

Lo scenario attuale potrebbe cambiare sotto l’amministrazione di Donald Trump che segue una linea di politica estera, opposta al suo predecessore. Il nuovo inquilino della Casa Bianca ha fatto intendere quanto, la fine del conflitto in Siria, costituirà per la nuova amministrazione il punto più urgente dell’agenda politica statunitense. Intenzionato a dialogare con Mosca per trovare una strategia comune, il neo eletto desidera collaborare con sauditi ed arabi del Golfo, con i quali condivide la posizione sull’Iran e i cui rapporti, nell’era Obama, si erano complicati a causa dell’accordo sul nucleare, strizzando dunque allo stesso tempo, un occhio ad Israele ma anche all’Egitto di Al Sisi. Rimane da capire, in che modo Trump forgerà i nuovi rapporti con il governo iraniano, il cui contributo è stato indubbiamente indispensabile nella lotta al Daesh e i cui rapporti sono già in crisi in seguito al recente Muslim Ban. Il progetto di Trump, per ora consiste nella creazione di safe zones per i civili siriani e yemeniti ma la questione sul come garantirle rimane ancora un’incognita. Le future decisioni di Trump saranno determinanti per lo sviluppo della situazione nel mondo arabo ma anche per l’immagine degli Stati Uniti a livello globale.

Olena Melkonian

 

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