Recensione di Roberto Staglianò su ‘A sciuquè’, messo in scena a Roma presso Carrozzerie Not

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Roberto Staglianò la sua recensione su ‘A sciuquè’, messo in scena a Roma presso Carrozzerie Not. 

In dialetto pugliese ‘A sciuquè’ vuol dire ‘a giocare’. Nella dimensione teatrale, invece, è la creatura, lo spettacolo diretto e interpretato da Ivano Picciallo, il quale ha portato in scena sette quadri, sette parti di un racconto cronologico sui cinque protagonisti: Nicola, Giacinto, Ciccio, Peppe e Lucia.  La loro dimensione è corale, le loro vite sono legate da un filo sottile che li accomuna. Dal gioco, alle feste dell’università, dalle palline da tennis rubate per sfida al matrimonio e alla vita adulta. Presentato e prodotto dalle compagnie Malmand e I Nuovi Scalzi, ‘A sciuquè’ è stato il vincitore del Roma Fringe Festival  nelle sezioni Miglior Regia e Miglior Spettacolo 2017.

Lo spazio è quello di Carrozzerie Not, una fabbrica di avanguardia e di sperimentazione teatrale a Roma. Come unica scenografia ci sono delle sedie allineate con vestiti da uomo appesi, un abito da sposa al centro e una pallina da tennis. Non è necessario altro. I paesaggi, i luoghi dell’anima verranno ricreati da Adelaide Di Bitonto, Giuseppe Innocente, Igor Petrotto, Ivano Picciallo e Francesco Zaccaro. Saranno i loro corpi, le loro voci la loro corrispondenza con i personaggi a far rivivere un mondo di emozioni e di ricordi. Di semplici passatempi e di vite di provincia a Sud, ma questa è una semplice circostanza. Il passaggio dalla spensieratezza, dai giochi di strada alla vita adulta è un linguaggio universale che può essere facilmente riconosciuto e decodificato in ogni longitudine.

Il titolo, le battute, i movimenti scenici, le dinamiche di quel gruppo di amici si sentono fin da subito e si prestano all’immedesimazione da parte degli spettatori e all’ascolto di uno slang che risulta essere piacevolmente impuro, contaminato e arricchito dalle diverse provenienze degli attori: due pugliesi, un lucano, due siciliani. Viene spontaneo ipotizzare come e quanto l’incontro sulla scena tra Adelaide, Giuseppe, Igor, Ivano e Francesco possa corrispondere al percorso condiviso tra gioco, sudore, sacrificio, idee ed esperienze in comune con i personaggi di Lucia, Peppe, Ciccio, Giacinto, Nicola. In scena vibra il calore, la tensione, il ritmo e l’energia dei cinque attori protagonisti sotto la direzione dinamica di una regia precisa, pulita e autentica e come la recitazione.

La dimensione del gioco, in particolare, comprende bene gli aspetti patologici della dipendenza, quando diventa vizio. Include anche e soprattutto quella componente irriverente, giocosa e divertente che accomuna le partite di calcio al campetto, in cortile o per strada  con la Commedia dell’Arte e la pratica del Mimo. Momenti vissuti tra la spensieratezza e una dirompente goliardia, a metà tra il candore e l’allegoria dello scavalcare il muretto del piacere proibito. Fino a quando arriva repentino il momento della dipendenza, di una sorta di ludopatia che trascina in un vortice di distruzione affetti, persone, cose. I debiti da pagare, le minacce fisiche, la criminalità. Solo gli effetti, non le cause perché il Teatro non è solo una ricerca sociologica ma è lo spazio con la vasta latitudine delle emozioni. ‘Ai bambini non piace giocare da soli’ e, quando lo si fa da grandi, spesso diventa un rischio troppo pericoloso, dove non ci saranno più gli amici a proteggerti dalle luci abbaglianti e stroboscopiche delle sale gioco e delle slot machine Gli strozzini verranno a chiedere senza pietà gli interessi del conto e in quel momento si ritornerà all’infanzia, un po’ come nell’istante prima di morire, riaffiorerà il ricordo di quando Nicola chiamava Giacinto per giocare insieme. Ma ormai è inesorabilmente tardi, il suo è diventato un urlo straziante, soffocato, disperato. Nicola resterà immobile nella sua solitudine perchè Giacinto, forse, non andrà più ‘A Sciuquè’.

 

Di seguito una breve intervista con Ivano Picciallo.

Lo spettacolo è un racconto su cinque amici, dall’età della spensieratezza fino ai problemi dell’età adulta. Credi che la perdita dell’innocenza sia un passaggio obbligato di ogni epoca oppure c’è una sofferenza generazionale che è diventata progressivamente più dura e difficile?

Interrogandosi sulla parola giocare abbiamo iniziato e lo abbiamo fatto  davvero, Mettendo in scena cinque amici e raccontando la vita di Nicola, dall’infanzia fino ad arrivare poi ad un’età più adulta, al matrimonio, alla famiglia. Io credo che da ragazzini, da bambini, l’innocenza è pura, c’è purezza, semplicità e non viene persa, ma lascia spazio a quella che poi è la maturità. Quindi non c’è una perdita, ma una trasformazione. Con questa innocenza finisce la spensieratezza e iniziano i doveri, i problemi- che non sempre sono gravi- iniziano gli obblighi perché ‘bisogna fare questo’, un po’ perché la società, un po’ perché noi cresciamo e quindi abbiamo altre volontà, mentre da ragazzini si ha solo la voglia di giocare, di divertirsi, di stare insieme e non pensare a niente. C’è una sofferenza generazionale. Io la noto, l’avverto perché, come spesso dico, Siamo passati dall’analogico al digitale. Si va sempre più incontro a questo mondo digitalizzato e quindi si perdono un po’ quelli che sono i rapporti tra le persone. Ci sono sempre meno gruppi di bambini che giocano, si può giocare molto più spesso da soli perché adesso i computer, i telefoni, questo mondo virtuale ti allontana da quelli che sono i rapporti interpersonali. Questo per me è un segno di sofferenza e quello che spero è che non sia progressivo, spero che si fermi qui, anche se ne dubito fortemente. Si va incontro verso questo mondo dove si ascolta sempre meno e, di conseguenza, stando sempre più soli si è sempre meno spensierati. Si perde quell’innocenza che magari si può condividere con altri. Con la condivisione con le persone diventa tutto più semplice.

Quali difficoltà ritieni che hanno contribuito a formare la tua personalità di artista e quali incontri fortunati hanno determinato uno scambio di sinergie umane e professionali?

Le difficoltà di base quelle che riguardano tutto il mondo teatrale, soprattutto per noi attori la mancanza di riconoscersi in una categoria, di non essere tutelati e riconosciuti appunto. La mancanza di spazi, di fondi soprattutto quando metti su una produzione indipendente, la mancanza di un’organizzazione di distribuzione, di una rete che possa permettere ad uno spettacolo giovane, piccolo, di attori sconosciuti o di una compagnia di girare, se lo spettacolo merita. Queste sono le necessità: voler andare in scena per poter raccontare qualcosa di cui tu hai voglia di raccontare questa famosa ‘urgenza dell’artista’, di voler portare in scena un fatto, un accaduto, un racconto, semplicemente qualcosa che ti appartiene. Io ho avuto la fortuna di incontrare questi attori, i ragazzi con cui ho lavorato, con i miei colleghi ci siamo ritrovati subito, ci siamo amati, loro mi hanno assecondato subito nella mia proposta e quindi tutto è stato molto più semplice da questo punto di vista. Si è creata tra di noi una sinergia molto bella. Non so quanto abbia inciso la richiesta di ritornare bambini e di giocare, però è un gruppo molto bello; ci divertiamo e ci piace metterci a lavoro. Tutto il lavoro, a parte un lungo monologo che avevo scritto, è figlio di una drammaturgia scenica fatta con i ragazzi insieme, nata da improvvisazioni. È un lavoro davvero corale con tutte le sue sfaccettature. C’è stato, inoltre, l’incontro professionale con una serie registi che mi hanno dato la visione di quello che è il teatro che mi piace di più: Emma Dante, Giancarlo Sepe, Luciano Melchionna, i miei primi maestri della Commedia dell’Arte dalla quale provengo, del Teatro in maschera. È tutto un lavoro centrato sull’attore. Adesso ci metteremo a lavoro con il prossimo spettacolo con lo stesso gruppo e vedremo qual è la direzione. Non ho ancora una, diciamo che la stiamo cercando

Un elemento forte dello spettacolo è la fisicità della e nella recitazione. Che tipo di ricerca c’è stata per ‘A Sciuquè’ e quanto questo approccio fisico caratterizza la tua recitazione?

La fisicità ha comportato il mio percorso artistico. Ho iniziato studiando Commedia dell’Arte, quindi tutto ciò che è il lavoro sul corpo, il training, diciamo che è parte di quello che è il mio lavoro fatto fino ad oggi ed è una costante, è sempre il punto di partenza sulla costruzione di qualsiasi cosa. Tutto parte dal corpo, dal fisico. Questo richiedo ai ragazzi, quello che a mio modo di vedere le cose si avvicina sempre di più ad una verità. Parte da una necessità che è fisica prima che mentale e quindi il corpo e l’attore sono al centro di quello che vorrei diventasse il mio lavoro. Aspettare che l’attore proponga e insieme a lui condividere, cambiare e trasformare significa creare qualcosa. Questo scambio continuo tra attore e regista, tra attore e attore fa nascere qualcosa, partendo da un lavoro molto fisico su cui si può molto giocare. Questo permette di allenare il corpo, di riuscire a staccare la mente, lavorando più di pancia e meno di testa per poi trovare la ragione a quello che si è fatto. Questo per me è molto più interessante che lavorare su un testo, lavorarci mentalmente sopra, ragionarci, trovare le intenzioni. Preferisco qualcosa che è molto più fisico e viscerale. In A Sciuquè c’è stata una ricerca di tutte quelle che sono le attitudini e quindi una sorta di iconografia legata ai personaggi, quindi una ‘stilizzazione’ dei bambini, ricercare un’attitudine dei movimenti e dei gesti piuttosto che i ritmi di bambini e adolescenti. Una fisicità, un corpo e un ritmo nei gesti, nel modo di muoversi che è riconducibile e riconducibile alle figure che emergono durante il matrimonio: la zia vecchia, la parrucchiera. Piccole cose che potessero raccontare, attraverso il corpo, quei personaggi, mettendo il fisico al servizio della struttura narrativa.

Se potessi fare un breve confronto della tua emergenza di fare teatro e di essere attore, dagli inizi ad oggi, cosa è cambiato e cosa invece è rimasto immutato?

Cosa è cambiato? In emergenza a venti anni e lo siamo ancora adesso…a parte gli scherzi, è cambiato che siamo cresciuti, siamo diventati più maturi e forse oggi abbiamo la voglia di raccontare le nostre storie. Abbiamo imparato tanto, abbiamo studiato, raccontato le storie di altri, forse oggi vogliamo raccontare le nostre storie. È cambiata la consapevolezza di quello che facciamo, del mestiere che facciamo, quindi di conoscerlo e riconoscersi in questo. È importante, cosa che magari a venti anno non hai. Di immutato c’è sempre la voglia di condividere con altri, di scambiare idee e pensieri con altri attori colleghi, registi. Persone che la pensano come te, magari condividono il tuo pensiero e insieme si lavora per fare qualcosa. Mettermi in discussione con altri è rimasto immutato, dire grazie e chiedere scusa. Ho sempre amato il gruppo, lavorare con le persone, non sono mai stato un solitario. Artisticamente cerco sempre qualcosa che sia corale, il gruppo dove ci sia condivisione e scambio continuo. A venti anni era più bello fare teatro senza il pensiero del lavoro. Oggi invece… ‘Oddio, devo trovare una scrittura’. Ma ce la faremo, dai!.

Foto  di Camilla Mandarino

Roberto Staglianò

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