La ‘Società della ragione’ insieme a molte altre sigle dell’universo carcerario e giudiziario lancia un appello a favore di una riforma costituzionale in materia di amnistia e indulto. Non si tratta di sollecitare un provvedimento di clemenza come hanno spiegato i promotori dell’appello e i parlamentari aderenti, primi firmatari della conseguente proposta di legge costituzionale.
Si tratta di cambiare il meccanismo di approvazione delle leggi di amnistia e di indulto: non servirebbe più la maggioranza dei due terzi dei membri di ciascuna Camera, ma la maggioranza assoluta. Un’opzione consegue la maggioranza assoluta se ottiene un numero di voti superiore alla metà del numero totale degli aventi diritto al voto. Detto in altri termini, la maggioranza assoluta è conseguita dall’opzione che raggiunge un quorum funzionale fissato in più della metà degli aventi diritto al voto. In questo modo il Parlamento avrebbe di nuovo la possibilità di deliberare un provvedimento collettivo di clemenza, possibilità di fatto negata per quasi 30 anni da un quorum troppo elevato. Ma, appunto, senza eccessi e con equilibrio. In primo luogo perché amnistia e indulto sarebbero vincolate, con norma scritta, a ‘situazioni straordinarie’ e ‘ragioni eccezionali’.
La maggioranza richiesta resterebbe non dei presenti al momento del voto, ma degli eletti in ciascun ramo del Parlamento. Con una tale soglia, la maggioranza politica del momento si assumerebbe per intero la responsabilità della decisione.
E’ chiaro che sarebbe un segnale significativo di attenzione verso il mondo carcerario che sta vivendo l’emergenza sanitaria in maniera ancora più difficile del resto del Paese. Si parla, in tal caso, di ‘situazioni straordinarie’ e ‘ragioni eccezionali’.
Per modificare la Costituzione, in questo caso gli articoli 72 e 79, si deve tuttavia procedere con due approvazioni per ciascuna Camera con un intervallo di almeno tre mesi e, se si vuole evitare il referendum confermativo, con la maggioranza dei due terzi dei parlamentari nella seconda votazione. L’ostacolo a questo è reale e insormontabile se si pensa alle posizioni che su certi argomenti hanno gran parte del centrodestra e del Movimento 5 stelle.
Quando nel 2018 la ‘Società della Ragione’, su impulso del prof. Andrea Pugiotto, promosse un seminario di approfondimento sul tema dell’amnistia e dell’indulto poteva apparire, in un tempo dominato dall’uso populistico della giustizia penale, una prova di insensibilità o di ingenuità. O, come si usa dire, una provocazione intellettuale destinata a tradursi nel nulla sul terreno politico. Invece oggi la proposta torna di attualità.
Tutti noi abbiamo ben presente la dura invettiva di Gaetano Salvemini che dalle colonne de Il Ponte nel 1949 indicava l’Italia come il Paese delle amnistie e abbiamo ben presente il numero esorbitante di provvedimenti di amnistia e di indulto che ha caratterizzato fino agli anni Novanta la gestione di un sistema non altrimenti governabile. La pratica di governo democristiana che utilizzava i due rubinetti dell’amnistia e dell’indulto per liberare le scrivanie dei tribunali da troppe carte e le carceri da troppi corpi, allo scopo di mantenere in equilibrio il sistema della giustizia, fu interrotta bruscamente nel 1992 con un intervento sull’art. 79 della Costituzione, prevedendo un quorum irraggiungibile e irragionevole per l’approvazione del provvedimento. La giustificazione era motivata dall’entrata in vigore del codice di proceduta penale elaborato da Gian Domenico Pisapia che avrebbe dovuto cambiare radicalmente il sistema penale italiano, rendendolo al tempo stesso più efficiente e più garantista. Questa aspettativa si risolse presto in una illusione perché la riforma fu ampiamente sterilizzata per il sopravvenire dell’emergenza mafia, per la scelta di criminalizzare il consumo delle droghe, l’irrompere del nuovo fenomeno dell’immigrazione: la scelta del panpenalismo fece esplodere cause e celle.
Molto è cambiato nel rapporto con la giustizia da parte dell’opinione pubblica da allora. Le obiezioni alle amnistie erano circoscritte agli illuministi difensori delle regole dello stato di diritto, senza nessuna protesta delle vittime, oggi sono invece cavalcate da giustizialisti, imprenditori della paura e fautori della certezza della pena. L’orientamento culturale ha subito una torsione così forte che il prof. Vincenzo Maiello aveva suggerito di abbandonare il termine ‘clemenza’ per il sapore indulgenziale e il carattere teologico-paternalistico.
In carcere ci vanno in tanti, molti da innocenti e moltissimi prima ancora di una sentenza definitiva. Pochi escono recuperati alla società come la Costituzione prevede: più carcere non significa più sicurezza, ma a conti fatti l’opposto. Perciò, fino al giorno in cui non avremo un’applicazione sistematica delle misure alternative ai colpevoli di reati di scarso allarme sociale, è necessario rendere davvero possibile il ricorso alla clemenza collettiva.
Cocis