Pro\Versi analizza il referendum abrogativo del 2025

Pro\Versi rende disponibile un’ampia analisi sul dibattito che accompagnerà i cittadini al voto l’8 e 9 giugno: quattro quesiti referendari per ridefinire le regole del lavoro in Italia.

Un ritorno alla partecipazione attiva, una consultazione popolare che riporta al centro la voce dei cittadini: Pro\Versi pubblica  un’approfondita analisi sui quattro referendum abrogativi in materia di lavoro che si terranno l’8 e 9 giugno 2025. A promuovere il dibattito è la testata giornalistica Pro\Versi, che ha reso disponibile sul proprio sito uno speciale che esplora nel dettaglio le ragioni a favore e contro ciascun quesito, offrendo al lettore una bussola neutrale e documentata per orientarsi nel voto.

Nei giorni dell’8 e 9 giugno 2025, i cittadini sono chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari abrogativi, quattro dei quali riguardano in modo diretto il mondo del lavoro: licenziamenti, tutele nelle piccole imprese, contratti a termine e sicurezza negli appalti. Il quinto riguarda la cittadinanza, ma il cuore della mobilitazione – promossa principalmente dalla CGIL – è tutto centrato sui diritti dei lavoratori e sulle trasformazioni delle regole del lavoro negli ultimi vent’anni.

Questa consultazione è l’esito di un percorso lungo, spesso tortuoso, in cui il diritto del lavoro italiano ha conosciuto profondi stravolgimenti normativi, a partire dalla metà degli anni ’90. Ma il vero spartiacque – politico, culturale e giuridico – è stato l’anno 2015, con l’entrata in vigore del Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro fortemente voluta dall’allora premier Matteo Renzi e dal ministro del lavoro Giuliano Poletti.

Il Jobs Act aveva un obiettivo dichiarato: semplificare il mercato del lavoro, rendere più facile assumere (e licenziare), ridurre il contenzioso e aumentare la competitività delle imprese. Per raggiungerlo, introduceva il contratto a tutele crescenti, un nuovo tipo di contratto a tempo indeterminato per tutti i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015. La novità più rilevante era l’eliminazione del diritto alla reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato, sostituito da un risarcimento economico tra 2 e 6 mensilità (poi elevabile a 12), calcolato in base all’anzianità di servizio.

Contemporaneamente, altre norme cambiavano volto alle tutele: si fissava un tetto massimo alle indennità per i licenziamenti nelle piccole imprese (6 mensilità), si semplificava il ricorso ai contratti a termine senza causale, si riformava la disciplina della responsabilità solidale negli appalti. Anni dopo, con il governo Draghi, un ulteriore intervento (2021) ha ridotto la responsabilità del committente in caso di violazioni nei subappalti, limitandola ai soli casi di dolo o colpa grave.

A distanza di un decennio, le conseguenze di queste riforme sono al centro di un dibattito acceso. Per alcuni, esse hanno dato respiro alle imprese, ridotto la rigidità del sistema, favorito nuove assunzioni. Per altri, hanno aperto le porte a una nuova forma di precarietà legale, che ha spezzato la tutela storica del lavoro subordinato in Italia, alimentando insicurezza, ingiustizie e un arretramento culturale.

La CGIL, principale promotrice dei referendum, ha raccolto oltre 3 milioni di firme per riportare in discussione proprio quei nodi normativi: ripristinare la reintegra nei casi di licenziamento illegittimo (art. 18), eliminare il tetto alle indennità nelle piccole imprese, obbligare a indicare una causale nei contratti a termine, estendere la responsabilità del committente per la sicurezza nei lavori appaltati. Il tutto in un momento in cui il tema lavoro è tornato al centro del discorso pubblico, grazie a nuovi dati su salari stagnanti, infortuni in crescita e una gioventù migrante che spesso lascia l’Italia in cerca di condizioni più dignitose.

Il referendum si configura, dunque, come una chiamata politica oltre che giuridica. Per i favorevoli, è l’occasione per correggere una deriva che ha indebolito le fondamenta del diritto del lavoro italiano. Per i contrari, invece, si tratta di una mossa ideologica, “un ritorno al passato” che rischia di disincentivare le assunzioni, paralizzare gli appalti, aumentare l’incertezza per le imprese, soprattutto le più piccole.

Ma c’è di più. Per la prima volta dopo molti anni, il referendum si configura come strumento di democrazia attiva e partecipazione dal basso. Non è stato promosso da partiti politici, ma da organizzazioni sindacali, associazioni di base e movimenti civici, con l’obiettivo di restituire ai cittadini la possibilità di decidere direttamente su diritti fondamentali spesso rimossi dal dibattito parlamentare.

Il contesto politico è tutt’altro che neutro. Il governo in carica, guidato da Giorgia Meloni, ha espresso una linea di astensione, sostenuta anche da Forza Italia e dai centristi di Italia Viva e Azione. Il Partito Democratico, invece, appoggia i quesiti, pur tra divisioni interne, e anche il Movimento 5 Stelle ha annunciato sostegno a 4 quesiti su 5. Il rischio di mancato raggiungimento del quorum del 50% più uno degli aventi diritto al voto aleggia pesante, come spesso accaduto in passato per i referendum abrogativi. Ma la mobilitazione sociale è forte, con comitati sorti in tutta Italia, campagne online, eventi pubblici e coinvolgimento crescente delle giovani generazioni.

In questo scenario, il dibattito assume una valenza che va ben oltre il merito giuridico dei singoli articoli di legge. Si discute della concezione stessa del lavoro in una società democratica: è solo una merce regolata dal mercato o è un luogo di cittadinanza, di diritti, di dignità? La possibilità per un giudice di reintegrare un lavoratore licenziato ingiustamente è una rigidità da superare o una garanzia irrinunciabile? Il tetto alle indennità è uno strumento per proteggere le PMI o una scorciatoia che autorizza l’arbitrio? L’assenza di causale nei contratti a termine è flessibilità o precarietà legalizzata? La responsabilità del committente è una tutela per chi lavora o un peso insostenibile per chi affida i lavori? Sono queste le domande che attraversano il Paese, e che trovano nel referendum non solo una risposta normativa, ma una presa di posizione valoriale. In gioco non c’è solo il destino di alcune norme, ma il modello di società che vogliamo costruire: più competitiva o più equa, più snella o più giusta, più liberale o più solidale.

In un’Italia dove si discute di occupazione, salari e sicurezza, i referendum del 2025 offrono  un’occasione concreta per riflettere sul senso profondo del lavoro nella nostra società. Quali  tutele servono davvero ai lavoratori? Qual è l’equilibrio giusto tra flessibilità e giustizia? E  quanto vale, oggi, il diritto al lavoro?

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