Piercing e tatuaggi, gli adolescenti non conoscono i rischi

 Nell’era moderna è molto raro imbattersi in ragazzi o ragazze privi di tatuaggi o piercing. Questo affascinante mondo, che garantisce parecchio lavoro ai professionisti del settore, nasconde però delle insidie, il pericolo infezioni Otto ragazzi italiani su dieci sanno che tatuaggi e piercing sono a rischio di infezioni, ma nonostante ciò non vi rinunciano. Anzi. Non è confortante quello che viene fuori da una ricerca che l’Università romana di Tor Vergata ha condotto su 2.500 studenti liceali e presentata al congresso della Sigr, la Società di gastroreumatologia, a Roma dal 24 giugno. Il 27% del campione ha dichiarato di avere almeno un piercing, precisa Carla Di Stefano, autrice dell’indagine e ricercatrice all’Università di Tor Vergata, e il 20% sfoggia un tatuaggio e sono ancora di più gli “aspiranti”: il 20% degli intervistati ha dichiarato l’intenzione di farsi un piercing e il 32% di ornare la pelle con un tatuaggio. Eppure, a fronte di quell’80% che dichiara di essere a conoscenza del rischio che corre, solo cinque giovani su cento sanno con precisione quali sono le infezioni che possono contrarre e poco più della metà (54%) è sicuro della sterilità degli strumenti utilizzati. Meno di due su cento (il 17%), poi, hanno firmato un consenso informato. Cosicchè non può stupire più di tanto se quasi uno su quattro (il 24%) ha già avuto complicazioni di carattere infettivo. Farsi praticare questi ornamenti estetici in locali non certificati, senza il rigoroso rispetto delle norme igieniche, o addirittura ricorrere al “fai da te” con strumenti artigianali inadeguati può portare infatti a malattie infettive anche molto pericolose, come quelle provocate dai virus dell’epatite B e C (Hbv e H) e da quello dell’Aids (Hiv); inoltre, recenti studi scientifici hanno mostrato che l’inoculazione nella cute di sostanze chimiche non controllate costituisce un rischio di reazioni indesiderate di tipo tossicologico o di sensibilizzazione allergica. È recente inoltre la pubblicazione sulla rivista Hepatology dello studio Association of tattooing and hepatitis C virus infection: a multicenter case control study che dimostra come l’infezione da Hcv si trasmetta principalmente attraverso il riutilizzo di aghi monouso, la non sterilizzazione di materiali, e il riutilizzo d’inchiostro contaminato con sangue infetto. Il dato scientificamente più interessante, commenta Di Stefano, sta nei tempi di sopravvivenza del virus rilevati negli aghi e nell’inchiostro, variabili da pochi giorni nell’ambiente a quasi un mese nell’anestetico: dato ancor più preoccupante se incrociato con la scelta degli adolescenti verso locali spesso economici e non a norma di legge. Per quello che riguarda tatuaggi e piercing non ci sono casistiche da procedure effettuate in studi professionali, però non c’è dubbio che «il rischio aumenta quando queste procedure vengono eseguite talora da principianti, in strutture con scarse condizioni igieniche e sterilità degli strumenti o con strumenti improvvisati come corde di chitarra, graffette o aghi da cucito, ma anche nelle carceri o in situazioni non regolate come l’ambiente domestico» conferma Vincenzo Bruzzese, presidente nazionale del Congresso della Sigr. A partire dalla fine degli anni Novanta, avverte infine Di Stefano, questo problema è stato più volte messo in evidenza in Italia attraverso i dati della Sorveglianza delle epatiti virali acute, la Seieva. Recentemente è stato stimato che nel nostro Paese una quota di casi di epatite C acuta superiore al 10% è attribuibile ai trattamenti estetici;inoltre, una volta esclusi i tossicodipendenti dall’analisi, si può stimare che coloro i quali si sottopongono a un tatuaggio hanno un rischio 3,4 volte più alto di contrarre l’epatite C rispetto a chi non ci si sottopone. Analogamente, per quanto riguarda il piercing, il rischio di contrarre l’epatite C è 2,7 volte maggiore rispetto a chi non se lo fa applicare. Non per nulla, dunque, l’Italia detiene la maglia nera dell’epatite virale rispetto alla media europea che si aggira tra lo 0,1 e l’1% della popolazione con un tasso d’incidenza variabile tra il 2-3% e 1 milione e 200 mila persone affette dal virus in forma cronica. E sempre nel nostro Paese la cirrosi è la quinta causa di morte, con circa quindicimila decessi l’anno mentre oltre seimila persone muoiono per carcinoma del fegato.

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