Pd, lo sforzo di un partito che cerca di aprirsi ai problemi del Paese

Nonostante questo sforzo e/o tensione, il partito sembra inesorabilmente condannato a scaricare verso l’esterno i limiti e le contraddizioni della propria azione e a identificare la propria strategia con quella del suo segretario, che nonostante la sconfitta referendaria, appare insostituibile e vincente rispetto ai giochi congressuali. Il risultato a quanto appare sembra scontato: una lunga corsa del segretario uscente, senza alcuna esitazione. Nulla da obiettare a Renzi circa la sua ambizione, ma le sue parole appaiono come la riproposta della vittoria alle europee del 2014 e un’esaltazione dei suoi tre anni trascorsi a Palazzo Chigi.Il suo, è il tentativo di riscrivere la storia politica recente liquidando i suoi predecessori alla guida del governo, considerati subalterni a un’Unione Europea descritta con molta severità. Sicuramente il suo pensiero è frutto dei suoi rapporti tesi con la Commissione negli ultimi mesi del suo premierato. La sua è un’analisi poco autocritica, ma strategicamente comprensibile, perché altrimenti avrebbe dovuto ammettere gli innumerevoli errori commessi. Gioca molto sulla difensiva in vista delle prossime elezioni amministrative e delle politiche del 2018, evitando così di concedere troppo ai suoi avversari.Sicuramente Renzi dovrebbe rivoluzionare la sua strategia e non continuare sulla linea di qualche errore commesso e dell’ostilità della minoranza interna. Il suo essere sordo alle critiche lo porta a dire “chi spara contro il Pd indebolisce l’argine del sistema democratico. Al riguardo non gli si può dar torto. Ma la scissione e tutto quanto sta accadendo anche all’interno del partito, rischiano di indebolire il suo argine. La frattura tra i democratici, le inchieste della magistratura che vedono protagonisti uomini vicini all’ex Presidente del Consiglio, la durezza del dialogo-scontro con gli altri due candidati alla segreteria, non fanno sperare in un futuro contrassegnato da un dibattito aperto.Quindi non può che prevalere un attacco ai suoi avversari a difesa di un renzismo ormai confuso. Tutto ciò instilla il grave dubbio che il Pd non sia più in grado di interpretare il ruolo di partito guida del Paese. Sembra ormai incapace di rendersi conto della difficoltà di attrarre gli elettori e di unire, con il rischio di chiudersi in un guscio e dividersi ancora al proprio interno.Occorre un cambio di marcia onde evitare che dei terreni arati,ma abbandonati, non se ne impossessi il populismo becero e destabilizzante.Ma al di là delle parole convenzionali che si sono udite al Lingotto, emerge un dato, nonostante una sorta di rassegnazione per un probabile ritorno ad un sistema elettorale di tipo proporzionale, che Renzi e i suoi non hanno abbandonato l’idea di battere alle urne i 5 Stelle.Né lasciano pensare che si preparino solo ad entrare in Parlamento con una forza omogenea e fedele, decisa a trattare e a far pesare i propri eletti, tanti o pochi che siano.Questo minimalismo sarebbe ingiusto imputarlo,oggi, ad un Renzi armato di certezze sul futuro suo e del Pd. Molti lo hanno seguito e continuano a seguirlo perché ritengono che non ci siano alternative valide e sia l’unico in grado di garantire loro la sopravvivenza, se non nuove vittorie. Sarebbe un vero dramma, però, se dal Lingotto di Torino si uscisse con la convinzione che l’unico Pd è quello che ubbidisce a Renzi. Significherebbe prepararsi ad altre fratture e a nuove scissioni. Sicuramente non è l’obiettivo che il gruppo dirigente si prefigge.

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