L’ex premier, chiamato a scogliere la riserva sulla candidatura alla segreteria del Pd, è sbarcato ieri all’aeroporto di Fiumicino alle 14.30 con un volo di linea Alitalia da Parigi.
Oggi a mezzogiorno, dunque, il Pd potrebbe avere il suo nuovo segretario, che l’Assemblea nazionale di domenica sancirebbe con un voto quasi unanime. Letta ha infatti annunciato che entro 48 ore scioglierà la riserva sulle richieste di candidarsi alla guida del Pd.
Il nodo che ha spinto l’ex premier ad attendere è costituito dall’ampiezza della base che lo sosterrà all’Assemblea, visto che a questo appuntamento intende presentarsi non come semplice traghettatore verso un “congresso conta” da tenersi entro pochi mesi, bensì come segretario a tutti gli effetti, senza limiti temporali al suo mandato se non quelli dello statuto, che si impegna ad aprire una fase costituente per il Partito per il suo rinnovamento. “Sono grato per la quantità di messaggi di incoraggiamento che sto ricevendo – ha scritto su Twitter Letta – Ho il Pd nel cuore e queste sollecitazioni toccano le corde più profonde. Ma questa inattesa accelerazione mi prende davvero alla sprovvista; avrò bisogno di 48ore per riflettere bene. E poi decidere”.
In effetti appena domenica, sempre sui social, lo stesso Letta aveva escluso un suo ritorno in campo. Ma Dario Franceschini e Nicola Zingaretti sembrano i più decisi a sostenere il suo arrivo. L’argomento usato è che il suo nome sarebbe stato quello più unitario, quello con più possibilità di tirar fuori il Pd dalla “palude” in cui è finito. Se il primo ha optato per la riservatezza, il secondo ha fatto capire il proprio orientamento attraverso le dichiarazioni di alcuni dirigenti a lui vicini che hanno incoraggiato Letta a sciogliere la riserva e tutte le correnti a dargli l’appoggio. Certo, Goffredo Bettini, affermando di non “avere preclusioni” verso Letta, ha lasciato intendere di non essere tra gli artefici dell’operazione, tanto è vero che ha insistito che al partito servirà comunque “un chiarimento” politico tra le sue varie anime. “Chiarimento” che si traduce con la parola congresso, che era quello che chiedeva Base Riformista, che con Letta candidato è rimasta spiazzata. E’ infatti chiaro che l’allievo prediletto di Beniamino Andreatta accetterebbe solo di fare il segretario a pieno titolo, con la scadenza al 2023 prevista dallo Statuto, così da guidare i Dem non solo alle amministrative di ottobre, ma anche nelle trattative di gennaio 2022 per l’elezione del Presidente della Repubblica. Invece, da Base Riformista è arrivato il sì a Letta, ma con la precisazione di Andrea Marcucci e Alessia Morani che occorrerebbe comunque un congresso in autunno.
In oltre dieci anni di vita il Partito Democratico è cambiato molto, ma solo per adeguare l’organizzazione alle esigenze del leader del momento. Non ha stupito nessuno il fatto che alle ultime elezioni politiche (quelle del 2018), per la prima volta la sinistra italiana si è presentata senza una lettura delle condizioni del Paese e senza un progetto di cambiamento. D’altronde quello che c’è oggi non è un partito, ma essenzialmente l’insieme dei gruppi parlamentari, dei gruppi consiliari regionali e comunali. Esiste solo nelle istituzioni.
L’organizzazione è debole, disorientata e spoliticizzata in tutti i suoi livelli. Vive di assemblee che non decidono, ma servono solo a battere le mani al capo di turno. La vita interna è segnata da una perenne competizione che mortifica l’autonomia e toglie agli iscritti e alle persone ogni voglia di partecipare e farsi valere.
Molti esponenti, su tutti Goffredo Bettini, Roberto Morassut, Fabrizio Barca, hanno ripetutamente denunciato questo stato di cose, facendo sentire meno soli i militanti che hanno continuato ad impegnarsi e a sperare nel cambiamento. Se non ci fosse stato questo impegno a trattenere forze sane, non sarebbe più possibile immaginare un nuovo corso per la sinistra.
Il Pd in pratica è divenuto un partito, o meglio un oggetto, ‘governistico’, che non ha un rapporto con una base intesa non come un mero serbatoio di voti, ma come popolo dentro cui trovare una identità. Il Pd, a ben guardare, non ha una struttura territoriale degna di questo nome. Anche ipotizzare che il segretario possa essere eletto attraverso il rituale delle primarie è terribilmente comico. In realtà non è più un partito di sinistra visto che ha sacrificato il suo bagaglio intellettuale votandosi all’europeismo. Un continente non è un’idea politica, magari lo era nella testa di Altiero Spinelli che diceva “l’Europa, se ci sarà, dovrà essere socialista”.
Oggi gli unici partiti che crescono sono la Lega e la Meloni che ha superato il Pd nelle intenzioni di voto. Draghi fa il premier, ha intorno alcuni ministri suoi, altri, sono la ricreazione. Ma l’unico che interloquisce con Draghi, che va lì a protestare, condizionando, è Salvini, come nel caso delle chiusure.
Enrico Letta non può rimanere indifferente al momento straordinario tale da mettere in discussione scelte pensate come irreversibili. Le 48 ore chieste per ‘riflettere’ possono legittimamente essere lette come un sì e, al tempo stesso, come un ragionevole tempo per valutare e, in qualche modo, creare le condizioni. Il caos che sarebbe determinato, a due giorni dall’assemblea, da un suo rifiuto è sufficiente per indurre a miti consigli le anime inquiete del Partito democratico, almeno per ora.
Il punto critico, è dato dalla riformabilità del partito cambiando i meccanismi di fondo che hanno portato il segretario uscente a dimettersi ‘vergognandosi’ di un partito che conosce solo l’autoreferenzialità del potere, affidato al gioco delle correnti. Letta, la sua chiamata a salvare il salvabile, quello del Pd, nell’ambito del più generale default della politica che ha prodotto il governo Draghi. Se il problema fosse solo trovare un accordo nel caminetto delle correnti, non si capirebbe la ragione per cui si è dimesso Zingaretti, forte di una legittimazione popolare alle primarie e di una solidità di consensi del partito. E invece la crisi è più profonda, tale da richiedere un mutamento radicale non solo di equilibri, ma di mentalità.
Il nodo non sciolto riguarda la parola ‘congresso’, attorno al quale si muove il grande delle correnti, e si muovono gli ex renziani, da Delrio a Nardella, con ha in mente uno schema che porta, in post-pandemia, alla candidatura di Stefano Bonaccini, con l’idea di avere, prima delle politiche, un nuovo segretario e una nuova maggioranza che faccia le liste elettorali. Chi, come Dario Franceschini e Nicola Zingaretti, attuale maggioranza, immagina di arrivare con Letta al 2023, segretario con pieni poteri, e non re travicello che traghetta verso il congresso, per blindare se stessa, sulle liste e sul proprio potere di condizionamento del nuovo corso.
Letta vuole valutare, per accettare, l’intensità delle reazioni e i margini di ‘unitarietà’ che il suo nome produce, anche in virtù del mandato implicito nella sua segreteria, dentro la quale, con ogni evidenza c’è anche la candidatura a premier in uno schema di alleanza competitiva con i Cinque stelle di Conte: chi prende un voto in più esprime il candidato per palazzo Chigi.