‘Non + Ultras’: la danza politica di una folla senza ideologia

Nel suo spettacolo “NON + ULTRAS”, in scena l’1 e 2 novembre al Teatro Vascello nell’ambito del Roma Europa Festival, Moritz Ostruschnjak porta in scena un’umanità compressa, esplosiva, attraversata da identità in conflitto. Otto danzatori, jeans e magliette, cinquecento sciarpe e un flusso incessante di immagini e suoni: lo spazio si trasforma in una curva, in uno stadio, in una città in rivolta. Il coreografo tedesco costruisce un dispositivo visivo e fisico in cui la danza contemporanea incontra la politica, la società di massa e il bisogno primordiale di appartenenza. Non c’è nulla di decorativo in questi gesti: sono movimenti che battono, piedi che percuotono il suolo come tamburi, mani che si levano in alto, corpi che si scontrano e si riconciliano. È la lingua universale della folla, la grammatica dell’energia collettiva.

Nel caos coreografico si percepisce una logica precisa: Ostruschnjak non racconta lo stadio, lo diventa. Trasforma la scena in un microcosmo dove convivono devozione e rabbia, ordine e anarchia, gioco e potere. Le sciarpe — oggetto centrale e simbolico — si moltiplicano come corpi, diventano maschere, bandiere, barelle, veli, corde, strumenti di difesa e di offesa. Ogni sciarpa porta con sé un’identità, una storia, una bandiera nazionale o una memoria personale. È un mondo dove i colori si mischiano e i cori si confondono, dove il tifo non è solo passione sportiva ma rito collettivo e, al tempo stesso, atto politico.

Ostruschnjak, che proviene dalla cultura urbana del breakin’ e dei graffiti, sa bene che la danza può farsi linguaggio di strada, corpo sociale, gesto di resistenza. In “NON + ULTRAS” affronta la trasformazione del tifo in fenomeno culturale complesso: da luogo di liberazione e catarsi a strumento di controllo e consumo. Il calcio moderno, con la sua estetica patinata e la sua economia globale, diventa il paradigma di un potere che sfrutta le emozioni collettive per trasformarle in spettacolo. Eppure, dentro questo sistema perfettamente gestito, resiste un nucleo primitivo di ribellione, una violenza simbolica che nasce dalla marginalità e dall’insoddisfazione urbana.

La curva, come scrive Massimo Fini, è “l’ultima patria”: l’ultimo luogo dove un individuo può ancora sentirsi parte di qualcosa di più grande, dove l’identità non è mediata da uno schermo ma nasce dal contatto diretto, dal sudore, dal coro, dal battito comune. È un’appartenenza fragile, ma autentica, in cui il corpo torna ad avere un peso politico e affettivo. Ostruschnjak traduce questa intuizione in danza: i suoi interpreti si muovono come un popolo senza patria, unito solo dall’energia del momento. Il gruppo vive, si forma, si dissolve e si riforma, in una continua metamorfosi che riflette la condizione contemporanea, fatta di connessioni effimere e comunità temporanee.

Nel fluire della performance, la linea tra festa e conflitto si fa sottile. Le luci, i video, la musica — un collage che spazia da inni da stadio a Beethoven, da propaganda nordcoreana a elettronica iraniana — creano un universo sensoriale che alterna euforia e vertigine. Il pubblico è trascinato dentro una spirale che ricorda la curva di uno stadio, dove la gioia si mescola alla paura, la libertà al controllo, la fede al fanatismo. E quando l’atmosfera si fa più cupa, quando la rabbia collettiva prende il sopravvento, si avverte una tensione quasi apocalittica: la folla si ribella, ma non sa più contro chi. La ribellione si svuota, si consuma in un gesto puramente fisico, privo di direzione. È la ribellione vana, quella che nasce dall’assenza di ideologie, dal vuoto di senso di una società che ha smarrito i suoi orizzonti.

Il titolo “NON + ULTRAS” condensa tutto questo in un paradosso. Non plus ultra in latino significa “non oltre”, il limite estremo, il confine invalicabile. Ma con un semplice segno, quel “+” al posto del “plus”, tutto cambia: plus ultra, “più oltre”, diventa lo slogan di chi non si accontenta, di chi cerca l’eccesso, il superamento. L’ultras è, per definizione, colui che va oltre. E in questo oltre, in questa spinta verso il superfluo e il radicale, c’è un desiderio di trascendenza laica, un bisogno di assoluto che sopravvive anche nell’epoca della disillusione. Ostruschnjak sembra dirci che oggi, cadute le ideologie e svuotati i grandi racconti, lo stadio è diventato il nuovo luogo del mito, la religione civile del presente, dove il rito collettivo del tifo sostituisce la politica, la fede e perfino la guerra.

Quando i danzatori nell’ultima parte della performance battono i piedi all’unisono, con un ritmo che scuote il pavimento e il respiro degli spettatori, qualcosa accade. Non è solo danza, non è solo spettacolo: è un gesto che richiama la terra, che rievoca la folla, che invita chi guarda a far parte del gruppo, a lasciarsi andare al battito comune. È in quel momento che si capisce il senso più profondo del lavoro di Ostruschnjak: non una celebrazione della massa, ma una riflessione sull’energia collettiva come ultima forma di sopravvivenza politica. In un mondo in cui tutto è individuale, isolato, digitalizzato, la curva — e qui la danza che la evoca — resta forse l’unico luogo dove si può ancora gridare insieme, sentire insieme, esistere insieme.

“NON + ULTRAS” diventa così un canto amaro e necessario sull’essere contemporanei: sul bisogno di appartenenza, sulla nostalgia del gruppo, sulla bellezza e la pericolosità del fervore. Un’opera che ci costringe a guardare dentro quella folla che siamo, e a chiederci se, dietro il rumore e la rabbia, non ci sia ancora, ostinatamente, il desiderio di un cuore comune. (foto di Marco Marassi)

Barbara Lalle

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