Mutu, quando si incontrano Mafia e Chiesa

“Mutu Tutti mutu”, una battuta ripetuta più e più volte dai personaggi dello spettacolo-evento “Mutu”, in scena dal 20 ottobre 2011 al teatro Nuovometastudio di Roma (in zona Tiburtina). E’ la storia di due fratelli, un prete e un mafioso, che si rivedono dopo lunghi anni, due universi di appartenenza a confronto distanti ed in ultima analisi vicinissimi alle scelte di vita dei due personaggi, accumunati da uno stesso dramma, da uno stesso desiderio di riscatto inaccessibile, che riemerge in tutta la sua crudezza e verità quando spogliati dai loro abiti e dai ruoli che ricoprono restano vestiti solo dei propri sentimenti in base ai quali riscoprono il loro essere fratelli e la drammaticità delle loro vite.

Una bellissima interpretazione e regia, ma proprio per entrare nel vivo dello spettacolo-evento e comprenderne le scelte dei personaggi e dei luoghi abbiamo intervistato Aldo Rapé, che ha scritto ed interpretato “Mutu”, e il regista Lauro Versari. Aldo Rapè ci descrive il duro lavoro che si nasconde dietro la realizzazione di “Mutu”, due anni di sperimentazione, nato all’interno di appartamenti per un numero di spettatori ristretti ed esperti, poi via via portato nei teatri e in tutta Italia, la necessità inoltre, come dice il registaLauro Versari di scegliere spazi particolari in grado di adattarsi alla storia. “Mutu”- prosegue Aldo- in Sicilia significa “zitto” ed è legato all’omertà, al tacere, alla necessità di ingoiare anni di silenzio e di scelte sbagliate, è una storia di relazioni tra fratelli, mafia e religione, dunque un pretesto per parlare di scelte umane e tra fratelli. Sono forti i parallelismi tra mafia e chiesa, entrambe si reggono su delle regole, riti, rigidità, è la denuncia di una gabbia – prosegue Aldo- o meglio la denuncia delle gabbie del ruolo che ciascun personaggio della storia ricopre; lo spettacolo intende riuscire a far mettere da parte le vesti e il ruolo che i due personaggi ricoprono e far esprimere loro ciò che sono realmente, in modo da far emergere i loro veri sentimenti proprio grazie alla loro riscoperta di essere fratelli. E’ stata la ritualità insita all’interno dei circuiti mafiosi a spingere Aldo a scrivere i tratti tipici di “Mutu”, l’attore e scrittore si ritiene orgoglioso dei risultati ottenuti alla fine di

ogni spettacolo, il pubblico –dice Aldo- esce turbato ed emozionato, nonché desideroso di complimentarsi e di incontrare tutto il cast.

Il regista Lauro Versari ci spiega invece i motivi delle sue scelte dai luoghi agli attori, questi ultimi devono essere non tanto attori – sottolinea il regista – cioè non basarsi sulla tecnica, ma essere persone, ossia in grado di essere reali. Il regista dice di non aver incontrato nessuna difficoltà a potare in scena “Mutu”, e di aver forzato solo un po’ la mano per riuscire a portare sul palco le maschere del bianco e del nero. Lauro Versari afferma: “il mio genere si distanzia dallo spettacolo che è fatto di maschere, qui le maschere cadono, fare incontrare due realtà della storia che partono dallo scontro per poi realizzare l’incontro è stata la vera difficoltà; la volontà del mio lavoro è raggiungere l’anima del personaggio, proprio questa va vissuta. Le persone non sono attori, che la persona faccia l’attore è un’altra cosa. Il metodo ci insegna ad essere quel personaggio attraverso la tecnica e quindi attore, i miei attori sono invece scelti in base ad altri meccanismi, fanno parte della scelta della persona, personaggio e persona sul palco coincidono”.

Lauro prosegue descrivendo invece i problemi che incontra lungo il suo percorso di regista: molti registi – afferma- sono al servizio dell’intrattenimento perché fanno delle scelte diverse dalle mie, io preferisco far ridere di contenuto; so cosa voglio e dove voglio arrivare non ho mai accettato nessun compromesso, tutti gli spettacoli sono stati fatti e pensati con le persone ritenute giuste. Negli anni’70 – conclude Lauro Versari – viveva una vera passione per chi faceva il mio mestiere, voglia di ricerca, sperimentazione e di apertura, con ottimi testi, ottime regie, ottimi incassi, poi dagli anni ’80 e ’90 la ricerca e la sperimentazione sono state tagliate fuori da altri meccanismi, bisognerebbe sdoganare la strada del Ponte che è una fonte di potere – dice – intendendo per ponte quel limite tra chi vive il mio mestiere rispettando canoni di assoluta purezza dell’arte e chi dall’altra parte ne controlla i meccanismi di accesso o meno.

Maria Gravano

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