Morire per amore. Sana: giustizia legata. Trieste, maltrattata si suicida

Violenza sulle donne, in “casa nostra” come altrove. Assolti i parenti che hanno confessato l’uccisione della 25enne Italo pakistana: per mancanza di prove che scongiurino “ogni ragionevole dubbio”. La dichiarazione di Salvini: “È una vergogna!” Tanti altri casi tragicamente similari. In tema di amore e violenza: a Melara, una donna si lancia nel vuoto il giorno prima di affrontare la prima udienza del processo contro il suo ex che la picchiava. Quante vittime dovranno esserci ancora, prima che si riesca ad ottenere un’appropriata protezione?
Italia e Pakistan: casi diversi di violenza, ma è comunque violenza sulle donne. Che sia psicologica o fisica, o entrambe, sempre di violenza si tratta.
Iniziamo da Sana Cheema.
La sua colpa è stata quella di amare un italiano. Per il delitto di Sana, uccisa perché voleva sposare l’uomo che amava, nessuna condanna: assolti tutti i familiari imputati.
“Non ci sono prove”: questo in definitiva il verdetto. L’hanno fatta franca il padre, lo zio e il fratello dell’italo-pachistana portata via da Brescia nell’aprile del 2018 dai suoi parenti stretti, per tornare in Pakistan con la scusa di assistere la sorella incinta ma, di fatto, per costringerla ad accettare le nozze scelte e combinate dalla famiglia. Lei, però, ha coraggiosamente rifiutato perché innamorata di un italiano con il quale voleva costruire ufficialmente una vita a due, un avvenire giusto. Ha pagato cara la sua insubordinazione, la 25enne pakistana. L’ha pagata al prezzo più alto: quello della vita: è stata uccisa, il 21 aprile dell’anno scorso, poche ore prima di imbarcarsi per ritornare come già programmato in Italia, al suo amore, al suo lavoro.
Sana era riuscita a raggiungere a Brescia un’esistenza autonoma e indipendente – lei, una donna.. quasi un affronto – lavorava con profitto in un’agenzia di pratiche automobilistiche creata stesso da lei e aveva un fidanzato che amava sinceramente e voleva sposare. Fatale è stato il provvedimento familiare di tornare urgentemente in Pakistan per stare accanto alla sorella che stava per partorire. Unico motivo per il quale aveva accettato di recarsi per un limitatissimo periodo appunto in Pakistan.
Nessuna giustizia oggi per lei: il tribunale pachistano ha stabilito l’assoluzione “per mancanza di prove certe”: una notizia ancora più feroce, nel giorno seguente a quello di San Valentino, il protettore degli innamorati ma non degli amori negati dalla follia, dall’ignoranza, dalla crudeltà.
Inizialmente proprio i familiari avevano dichiarato che Sana era morta per cause naturali, ma la successiva autopsia ha rivelato che era stata invece strangolata.
A scatenare gli accertamenti affinché la morte di Sana non restasse impunita, è stato l’allarme degli amici bresciani: hanno denunciato il caso riuscendo ad ottenere l’apertura di un’inchiesta e la riesumazione del corpo della ragazza, il cui funerale era stato celebrato in fretta per occultare i segni dello strangolamento.
Ciononostante, dopo tante battaglie e colpi di scena, è stato ordinato il rilascio di padre, zio e fratello della ragazza assassinata, anche se tutti e tre, durante le indagini, avevano confessato di aver ucciso la 25enne, rea di avere “disonorato” la famiglia giacché ha rifiutato di piegarsi al volere della famiglia e di accettare le nozze combinate. Ma dopo avere confessato, i tre, guarda caso, avevano ritrattato. “Non è vero che abbiamo confessato. Se il referto dei medici legali dice che Sana aveva l’osso del collo rotto – ritrattò il padre anche lui cittadino italiano come Sana – è perché deve aver battuto la testa contro il bordo del letto o il divano….. Se le cose sono andate così è per il volere di Allah”.
Dopo tre mesi di processo, il giudice Amir Mukhtar Gondal, del tribunale di Gujrat, nel Punjab, ha dunque ordinato il loro rilascio. Così, per mancanza di prove che scongiurino “ogni ragionevole dubbio”, tornano liberi, scagionati dalle gravissime accuse, il padre di Sana, Ghulam Mustafa Cheema, lo zio Mazhar Cheema e il fratello Adnan.
Ricordiamo che un procedimento è stato pure aperto, riguardo all’uccisione di Sana, relativo ad una presunta mazzetta versata per alterare i risultati dell’autopsia sul corpo della ragazza. Un team della Forza anticorruzione (Ace) del Pakistan aveva arrestato due persone, un vice ispettore di polizia e un dipendente dell’Agenzia di scienze forensi del Punjab (Pfsa), per aver chiesto e ricevuto una tangente al fine di modificare, senza però riuscirvi, il rapporto dell’autopsia sull’omicidio della giovane italo-pachistana. In particolare, Muhammad Naveed, del distretto di Gujrat, avrebbe avvicinato il vice ispettore di polizia Maqsood Ahmad proponendogli una somma di denaro per alterare il rapporto dell’autopsia di Sana, in modo da attribuire la sua morte a cause naturali. A tale scopi, l’ispettore avrebbe preso contatto con un impiegato della Pfsa, tale Mohsin, concordando il prezzo di 600mila rupie (circa 4.500 euro). Ma il rapporto dell’autopsia, una volta reso noto, conteneva un’ipotesi di morte non per cause naturali ma per strangolamento e quindi Naveed si è tirato indietro e ha chiesto il rimborso della somma versata ai due, che si sono però rifiutati di restituirla. Allora, l’uomo è andato alla polizia del Punjab dove ha presentato una denuncia che, una volta verificata da parte dell’Ace, ha portato all’arresto del vice ispettore e del dipendente della Pfsa.
Anche la madre e la zia di Sana Cheema sono state indagate per stabilire se, come le donne hanno strenuamente sostenuto, non sapessero nulla riguardo al delitto di Shana che rifiutava il matrimonio combinato e imposto e se avessero assistito all’uccisione.
Giustificatamente dura la reazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini che, di fronte alla notizia del l’assoluzione ha dichiarato, senza peli sulla lingua: “Che vergogna! Se questa è ‘giustizia islamica’ c’è da aver paura. Una preghiera per Sana. Scriverò al mio collega, il ministro dell’Interno pakistano, per esprimere il rammarico del popolo italiano”, ha detto il titolare del Viminale, evidentemente risentito. E come si potrebbe non essere risentiti e, anzi, esterrefatti, di fronte a questa incredibile conclusione di un caso che ha scosso l’opinione pubblica, soprattutto quella occidentale, memore di troppi altri casi similari, seguito costantemente dai Media negli ultimi 10 mesi?
Il caso di Sana è solo uno di una lunga serie di drammi che hanno avuto quali protagoniste giovani donne vittime di violenze da parte di parenti armati dall’intento folle di lavare col sangue il disonore per la loro “ribellione” al volere familiare, ritenuto tutt’oggi sacro e inconfutabile da chi finisce con il colpire selvaggiamente il suo stesso sangue.
Farah Tanveer, studentessa di 19 anni residente a Verona, letteralmente costretta ad andare ad Islamabad dove i parenti l’hanno fatta abortire, che è stata poi riportata in Italia soltanto grazie ad un accordo tra lo stato pachistano e quello italiano.
Il pensiero corre a Yasmine, ragazza ben integrata, ottima studentessa in un liceo considerato il più selettivo del circondario alle porte di Roma. Inserita in un gruppo di amici, ben vista nel quartiere, ossequiosa del Corano che, ad un certo punto, comincia a rivelare delle tensioni con la madre molto severa e religiosa, delle minacce di emigrare di nuovo, verso la Francia oppure in Marocco. Lei, che si sente assolutamente italiana, scoppia in lacrime pubblicamente, proprio in classe. “Vivo come nell’inferno di Dante”, rivela in un messaggio audio ad una compagna di classe. Ed è l’inizio della fine: qualche giorno dopo, la madre la sgozza e si suicida, dopo avere provato inutilmente a dare fuoco all’appartamento a Cecchina, cittadina nei pressi della Capitale italiana.
Hina Saleem, 20enne pakistana viene uccisa circa 13 anni fa, in piena estate (11 agosto) a Sarezzo, provincia di Brescia, dal padre Mohammed Saleem, condannato a 30 anni di carcere. La ragazza viene sgozzata e sepolta nel giardino di casa – con la testa rivolta a La Mecca – colpevole di avere delle abitudini “troppo occidentali”.
Dieci anni dopo, la madre della vittima smentisce duramente questa tesi, sostenendo che si sia trattato soltanto di menzogne, ed arriva a perdonare il marito.
Nel 2009, il 15 settembre, la follia discriminatrice colpisce Sanaa Dafani, 18enne di origine marocchina, giustiziata dal proprio padre, Fatoui Dafani: sorpresa in auto con il fidanzato italiano che viene pure lui ferito alle braccia nel vano tentativo di salvarla.
Secondo L’ accreditato Guardian, in Gran Bretagna sarebbero più di 3.500 – soltanto negli ultimi 3 anni – i casi di matrimoni forzati denunciati, subiti da donne di fatto schiavizzate. In Italia non saremmo a questi livelli e si spera che non ci si arrivi… Per evitarlo, bisognerà aprire gli occhi, penetrare in queste realtà e lavorare duro, valutando anche le esperienze dei paesi occidentali che stanno vivendo, malgrado i principi morali, l’emancipazione, la civiltà progredita, le leggi a tutela delle fasce e degli individui deboli e la par conditio, queste assurde contraddizioni al loro interno.
Intanto, un’altra notizia legata alla violenza sulle donne, ha scosso in queste ore l’opinione pubblica, come uno schiaffo alla civiltà, alla società, alla legalità e alla solidarietà che dovrebbero essere sempre sovrane ma non sempre lo sono.
A Melara (Trieste) si è lanciata nel vuoto dal sesto piano del grande edificio popolare dove abitava, giusto il giorno prima del processo al suo ex violento, una donna che aveva trovato, dopo tanti maltrattamenti, finalmente il coraggio di denunciare il suo uomo, con tutti gli strascichi che purtroppo questi ancora comporta inevitabilmente, anche nella nostra Nazione.
Non un biglietto, neppure un messaggio o una parola di addio. Nulla, almeno per ora, che possa aiutare a dissipare le tante nubi su questa vicenda sulla quale stanno indagando i carabinieri, innanzitutto per stabilire se fra i due episodi ci sia un legame e di che tipo, quanto effettivo e condizionante.
La donna, che ha figli minori, ha spalancato la finestra e si è gettata nel vuoto, lasciandosi andare alla morte. Questo ennesimo episodio di amore sbagliato e di morte, avviene tra lo sbigottimento generale, proprio il giorno prima del processo contro il suo ex, che lei aveva denunciato per maltrattamenti, pestaggi e pure per minacce di morte. La trentenne, triestina lascia due bambini in tenera età, ai quali qualcuno dovrà prima o poi spiegare perché la mamma sia morta e come sia arrivata alla sua ultima ora.
Sono in corso indagini che, ci si augura, possano riuscire a fare piena luce su questo ennesimo caso legato alla violenza fisica e psicologica nei confronti di una donna, di fatto indifesa e sola nella sua disperazione. Come tante ce ne sono, anche intorno a noi, in una civilissima nazione dove troppo spesso si volta ancora la faccia dall’altro lato per non sapere e non essere coinvolti in situazioni “sgradevoli”. Per non avere problemi, per non assumere responsabilità scomode, per evitare impicci e inevitabili lungaggini burocratici. Tralasciando il proprio dovere e tacitando la propria coscienza. Non tutti, per fortuna non tutti.
Ancora una volta, l’appello è rivolto ai cittadini, si vicino, ai familiari, affinché chi sa, parli e poi non dimentichi, non ritratti offendendo la verità e chi merita che giustizia sia fatta.
Teresa Lucianelli

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