Migrazioni e Mediterraneo

Nuovo scontro Italia-Francia alla vigilia del vertice informale dedicato alla crisi dei migranti. L’Europa è spaccata e la riunione – preparatoria al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno – è tutta in salita, anzi per qualcuno è già fallita. Francia e Spagna hanno lanciato in extremis una proposta, quella dei ‘centri chiusi’ per i migranti appena sbarcati in Europa.

A poche ore dal summit che avrebbe dovuto facilitare un accordo, la Francia è schierata con la Spagna, l’Italia conferma la linea dura ostile a entrambe, il gruppo di Visegrad non sarà neppure presente. Quanto ad Angela Merkel, che sulla questione dei migranti si gioca il governo, è proprio per sostenerla di fronte all’opposizione interna che molti leader saranno oggi a Bruxelles. Ma l’esito negativo sembra scontato. Ad accendere nuovamente la miccia fra Roma e Parigi è stata la visita del premier Pedro Sanchez da Emmanuel Macron. Il quale, nella lunga conferenza stampa congiunta, ha affermato – fra l’altro – che bisogna essere chiari e guardare le cifre. L’Italia non sta vivendo una crisi migratoria come c’era fino all’anno scorso. Chi lo dice, dice una bugia.

Il capo dell’Eliseo ha dichiarato che gli sbarchi sono diminuiti dell’80% in un anno e che siamo invece in presenza di una crisi politica, alimentata da estremisti che giocano sulle paure. Ma non bisogna cedere nulla allo spirito di manipolazione o ipersemplificazione della nostra epoca.

650.000 sbarchi in 4 anni, 430.000 domande presentate in Italia, 170.000 presunti profughi – ha ribattuto il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini . Se per l’arrogante presidente Macron questo non è un problema, lo invitiamo a smetterla con gli insulti e a dimostrare la generosità con i fatti aprendo i tanti porti francesi e smettendo di respingere donne, bambini e uomini a Ventimiglia. Per Di Maio, Macron è completamente fuori dalla realtà. È ufficialmente finita – ha detto il leader dei 5 Stelle – l’epoca in cui l’Italia si fa carico di tutto. Gli hotspot nei Paesi di primo sbarco vorrebbe dire ‘Italia pensaci tu’. Non esiste. Non arretreremo di un millimetro.

Le premesse per il vertice informale – dal quale come aveva avvertito mettendo le mani avanti Angela Merkel e come ha confermato Macron non ci si attende alcun accordo, anzi non ci sarà nemmeno la dichiarazione finale – sono le peggiori. E non migliori sono quelle per il Consiglio europeo. Se n’è reso conto anche il portavoce del governo francese, Benjamin Griveaux: ‘Sarà difficile, non bisogna mentire ai nostri cittadini’. Fonti dell’Eliseo avevano fatto trapelare di voler europeizzare le politiche di accoglienza, di asilo e di espulsione, una premessa a quanto Macron – e un entusiasta Sanchez al suo fianco – avrebbe annunciato nel pomeriggio: proposta di centri chiusi” nei paesi di primo sbarco, finanziati e gestiti sul modello dell’Unhcr dall’Europa, che si occuperebbe poi anche dei rimpatri di chi non ottiene l’asilo. Un’idea che il paese più coinvolto, l’Italia, non prende neppure in considerazione. Tutto il resto del discorso di Macron – la possibilità di far approvare la proposta non a livello europeo ma intergovernativo o addirittura le sanzioni per i paesi che non solidarizzano con l’operazione – sembra destinato a rimanere lettera morta. A sostenere la proposta Macron-Sanchez si candida il nuovo asse Parigi-Madrid-Berlino, ma le chiusure di Italia e del gruppo di Visegrad, assieme all’ostilità del governo austriaco (che dal prossimo primo luglio assumerà la presidenza dell’Ue), sembrano al momento in grado di far fallire il progetto.

Le ripetute crisi politiche derivanti dagli arrivi di persone in cerca di asilo, le condizioni drammatiche dei viaggi e le tragedie umanitarie che li colpiscono hanno contribuito a formare una rappresentazione delle migrazioni largamente condivisa e riecheggiata nella comunicazione pubblica e nel discorso politico. Si sostiene che le migrazioni sono in aumento, che vengono prevalentemente dalle sponde sud-orientali del Mediterraneo, che l’Italia e l’Europa sono sottoposte a una pressione senza precedenti sul fronte dei rifugiati. I

I dati sull’immigrazione in Italia sono notoriamente imprecisi e contraddittori. Fonti diverse riportano dati diversi, e spesso la stessa fonte fornisce dati diversi da un anno all’altro. Per esempio l’Istat, fonte ufficiale e autorevole, ha prima ridotto il volume dei residenti stranieri a quattro milioni circa, sulla base dei risultati dell’ultimo censimento, ma l’anno dopo ha pubblicato una revisione post-censuaria che li ha fatti risalire verso i cinque milioni. Altri fenomeni, come le naturalizzazioni, il pendolarismo verso la madrepatria, il rientro o il trasferimento in altri paesi senza cancellare il titolo di soggiorno in Italia, complicano i conteggi.

Su alcuni aspetti però le diverse fonti concordano. Il primo riguarda il rallentamento del fenomeno rispetto al periodo pre-crisi. Anche le nascite sono calate e le iscrizioni nelle scuole sono rallentate.

Il secondo aspetto riguarda la provenienza dei residenti stranieri in Italia: da alcuni anni, sono in maggioranza europei, donne, provenienti da paesi di tradizione cristiana. L’incidenza statistica della popolazione africana, nordafricana o mediorientale è comparativamente diminuita.

Il Mediterraneo non è dunque l’epicentro dei processi migratori che interessano l’Europa, almeno in termini statistici. È di certo una frontiera sensibile per l’intreccio con altri fenomeni, come la turbolenza politica, le minacce terroristiche e l’arrivo di persone in cerca di asilo: ma la gravità e l’urgenza delle sfide che si pongono in questi ambiti non vanno confuse con la rilevanza quantitativa degli spostamenti, ove la sponda sud del Mediterraneo ha perso terreno.

Anche sul dossier rifugiati le informazioni statistiche offrono un quadro abbastanza diverso dalle rappresentazioni più correnti.

Un primo aspetto riguarda il fatto che la cruenta geopolitica contemporanea sta producendo milioni di rifugiati, con un epicentro che oggi si trova in Siria (3,88 milioni di persone coinvolte), ma arriva all’Afghanistan passando per l’Iraq e allargandosi ai conflitti africani dimenticati.  L’86% delle persone sotto protezione umanitaria trova asilo in paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Solo il 14% arriva nei paesi più sviluppati, oltre quindici punti percentuali in meno rispetto a una dozzina di anni prima; l’Eu ne accoglie forse il 10%.

I numeri europei sono sì cresciuti negli ultimi anni, ma rimangono nel complesso decisamente inferiori: comprendendo anche le richieste pendenti, la Germenia accoglie 494.000 tra rifugiati riconosciuti e richiedenti asilo ancora sotto esame, la Francia 310.000, la Svezia 226.000, l’Italia 140.000. Una seria ragione dell’incremento degli arrivi in Europa va ricercata nel collasso dei sistemi di accoglienza nei paesi confinanti con la Siria, a causa dell’aumento dei numeri e della parallela riduzione dei finanziamenti internazionali per la loro protezione nelle aree di primo asilo.

Il Libano risulta poi di gran lunga il primo paese per numero di rifugiati ogni mille abitanti: 232, seguito dalla Giordania con 87. In Europa il primo paese è Malta con 23, mentre la Svezia si attesta a quota 9, i Paesi Bassi a 4,5. Per dare un termine di paragone, l’Italia è poco sopra i 2.

Se dunque vi è una questione mediterranea sul fronte dei richiedenti asilo, questa riguarda principalmente il sovraccarico delle coste orientali, di contro alla reticenza dei paesi posti a nord del Mediterraneo a impegnarsi maggiormente nell’accoglienza umanitaria. Alcuni porti della sponda meridionale fungono invece da porte di accesso alternative e non autorizzate all’Europa, in assenza di quei canali sicuri d’ingresso molte volte richiesti dalle organizzazioni che difendono i diritti umani.

La terza faccia del problema riguarda i rapporti interni all’Eu e lo scarico delle responsabilità tra i governi. Per riassumere la questione in modo schematico, l’Italia ha salvato in mare i profughi, ma poi li ha lasciati transitare sul suo territorio, consentendo che andassero a chiedere asilo al di là delle Alpi. Gran parte degli interessati per la verità non chiede di meglio. Paesi non affacciati sul Mediterraneo, come la Germania, hanno ricevuto nel 2014 202.000 domande di asilo, il 32% del totale europeo, mentre la Svezia ne ha registrate 81 mila, pari al 13%, dunque più dell’Italia. Questa è la motivazione che hanno invocato a lungo i governi transalpini per rifiutare di collaborare con l’Italia nei salvataggi in mare.

Oltre a incolparsi reciprocamente, i governi europei, con il contributo dei mass media, riescono con un certo successo ad attuare un’altra manovra politica che tende a limitare gli arrivi: quella di incolpare i cosiddetti trafficanti di esseri umani per la crisi dei rifugiati, chiedendo al fragile governo libico di bloccare le partenze, agitando la minaccia di bombardamenti, ultimamente evocando lo spettro dell’Is come organizzatore dei viaggi della speranza. In realtà gli scafisti non sono la causa, bensì un effetto dei conflitti e dei drammi umanitari che hanno sradicato in questi ultimi anni milioni di persone dalle loro case. Chi fugge non ha a disposizione canali legali per accedere a paesi sicuri: affidarsi a chi in un modo o nell’altro è in grado di trasportarlo verso la salvezza è una scelta senza alternative. Dei governi che vogliono mostrarsi rispettosi dei diritti umani hanno delle remore ad affermare in pubblico che non vogliono accogliere i richiedenti asilo, ma additano all’opinione pubblica gli scafisti come responsabili dell’aumento dei flussi e delle morti in mare.   Pressati dall’aggravamento delle sanzioni e dall’irrigidimento dei dispositivi di controllo, i trasportatori usano mezzi sempre più vecchi e inadeguati, li stipano fino al limite del galleggiamento, li fanno condurre da piloti improvvisati: manovalanza reclutata nelle periferie povere, giovanissimi, anche minorenni, rifugiati stessi che vantano qualche cognizione nautica e si ripagano il prezzo del viaggio.

Per evitare rischiosi viaggi per mare e tagliare i profitti dei trasportatori, occorrerebbe istituire altri canali per la protezione umanitaria di chi fugge da guerre e persecuzioni: domande di asilo presso ambasciate e consolati, misure di reinsediamento dopo una prima accoglienza il più vicino possibile alle aree di crisi: si comincia solo ora con grande fatica a parlarne.

L’opinione pubblica ha scoperto che accanto a quelle libica si sono sviluppate almeno altre due rotte migratorie: quella marittima che dalla Turchia raggiunge le vicine isole greche, e quella terrestre che dalla Turchia attraversa i Balcani. Questi fatti dimostrano, se ce ne fosse bisogno, che un eventuale blocco delle partenze dalla Libia non porrebbe fine agli arrivi di persone in cerca di asilo.

Il rafforzamento della rotta balcanica ha però generato altre clamorose crisi politiche. Il governo ungherese, seguito da quello bulgaro, da quello ceco e a catena da quelli degli altri paesi interessati dal transito dei profughi, ha cercato di chiudere le frontiere e di bloccare gli accessi, fino a realizzare una barriera fisica a protezione del suo territorio. Va notato che i profughi chiedono di passare, diretti verso Austria e Germania, non di rimanere in Ungheria, Bulgaria o altri paesi che incontrano sul loro cammino. Il blocco degli ingressi ha significati eminentemente culturali e simbolici: significa ribadire la sovranità nazionale, che ha nel controllo delle frontiere uno dei suoi ultimi caposaldi, e comunicare ai cittadini-elettori un messaggio di rassicurazione circa l’identità culturale e l’autonomia della nazione.

Nell’ambito dell’Unione Europea, con le convenzioni di Dublino è stato introdotto l’obbligo di presentare domanda di asilo nel primo paese sicuro, con l’impossibilità di reiterarla altrove.

L’appello ai valori umanitari, la compassione, eventualmente la simpatia per le sorti dei profughi rimpiazza, secondo i critici, il riconoscimento di un diritto: ‘Il riconoscimento dello status di rifugiato da parte delle nazioni europee appare come un atto di generosità da parte di una comunità nazionale verso uno ‘straniero sofferente’, anziché il pagamento di un debito politico verso dei ‘cittadini dell’umanità’. Costruiti come immigrati illegali e comunemente etichettati come clandestini, i richiedenti asilo oscillano tra essere oggetto di repressione e di compassione’.

Nello stesso tempo, la ridefinizione dell’asilo in termini sempre più spesso provvisori e ristretti, ha costretto i rifugiati a dipendere dal welfare pubblico. Per loro questo ha comportato una sorta di condanna all’inazione e al deterioramento del capitale umano. Per le società di accoglienza, la dipendenza dalle risorse pubbliche si è tradotta in un motivo in più per considerarli un fardello o addirittura una torma di profittatori dei benefici del welfare, apportando nuovi argomenti in favore della chiusura.

Unamossa delle istituzioni europee si è poi inserita in questo complesso e confuso scacchiere, ricollegando la vicenda dei rifugiati con la politica europea verso il Mediterraneo. L’Unione Europea ha negoziato con la Turchia aiuti per tre miliardi di euro per l’accoglienza sul posto delle persone in fuga dalla Siria, compensando la contrazione dei finanziamenti internazionali. Ma ancora più importante è la contropartita politica: la promessa di un’accelerazione delle trattative per il sospirato ingresso della Turchia nell’Unione e l’abolizione dell’obbligo del visto per l’ingresso dei cittadini turchi nell’area Schengen. L’obiettivo di contenere gli arrivi dei rifugiati ha dato un impulso probabilmente decisivo a un nuovo assetto delle politiche migratorie e delle relazioni politiche nel Mediterraneo orientale.

I nodi ancora da sciogliere sul fronte migratorio non mancano.

Le quote rappresentano un passo avanti, ma hanno un serio limite, antropologico e morale: non tengono conto delle aspirazioni dei richiedenti asilo. I rifugiati sono persone, non scarti imbarazzanti da suddividere in modo più o meno equo. Hanno conoscenze, legami e desideri che non necessariamente collimano con le destinazioni loro assegnate. In altri termini, potrebbero non accettare di essere spediti in Spagna o in Finlandia, o una volta inviati forzosamente in un determinato paese, potrebbero decidere di trasferirsi altrove. In questo caso perderebbero il diritto alla protezione umanitaria? A onor del vero già si è fatta strada l’idea di considerare legami di parentela o di conoscenza linguistica come fattori prioritari per ottenere l’accesso a un determinato paese. Ma giacché la redistribuzione dei rifugiati ha finora riguardato numeri molto piccoli di persone, resta incerta in generale l’attuazione effettiva del sistema delle quote, e più specificamente l’adozione di criteri più sensibili alle preferenze delle persone interessate.

Un altro nodo riguarda la contropartita delle quote, ossia l’impegno a identificare e registrare i profughi al momento dello sbarco, con l’istituzione dei cosiddetti hotspot: grandi centri di prima accoglienza, destinati principalmente all’identificazione delle persone che dopo lo sbarco presentano richiesta di asilo. Qui le incognite sono due: anzitutto, non è detto che i profughi desiderino essere registrati nei luoghi di sbarco, e forzarli appare discutibile.  La lentezza dell’attuazione della redistribuzione dei profughi tra i paesi che si sono dichiarati disponibili ad accoglierli sta rafforzando questi timori. A fronte di un impegno certo nell’identificazione dei richiedenti asilo da parte dei paesi di frontiera, si assiste a una lenta e riluttante presa in carico da parte dei paesi che dovrebbero assicurare la seconda accoglienza.

Da ultimo, va segnalato un problema più inerente al dibattito italiano sull’accoglienza dei rifugiati. Da più parti è stata avanzata negli ultimi mesi la proposta di disseminare i richiedenti asilo sul territorio, pochi per ogni comune. Apparente buon senso, che guarda però in una sola direzione, quella di una presunta maggiore accettazione sociale. Per contro però disseminarli avrebbe almeno due limiti. Primo, li isolerebbe: due o tre rifugiati, che nemmeno si sono scelti tra loro, dovrebbero vivere insieme, magari in piccoli paesi di montagna, lontano da tutto e da tutti. Secondo, renderebbe più difficile organizzare attività d’integrazione, dai corsi di italiano alle attività socialmente utili. Semmai, servirebbe maggiore impegno e controllo sull’organizzazione effettiva di queste attività da parte dei soggetti gestori dell’accoglienza. La proposta della disseminazione rafforza implicitamente l’idea che l’importante è che non diano fastidio ai residenti, si facciano notare il meno possibile. Come riempiono le giornate, come si riprendono dai traumi della guerra e della fuga, che cosa si fa per promuoverne l’integrazione, sembrano interessare assai poco. Senza contare che non è affatto scontato che il loro arrivo non sollevi comunque resistenze e conflitti.

Siamo dunque agli inizi di un nuovo cammino, ma la strada di un’Europa e di un’Italia più accoglienti è ancora lunga e impervia.

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