Italian President Sergio Mattarella delivers a speech during a commemoration for Italian prosecuting magistrate Giovanni Falcone killed by the Corleonesi Mafia in May 1992, on the motorway near the town of Capaci, Palermo, 23 May 2015. ANSA/FRANCO LANNINO

Mattarella: ‘L’Ue si occupi di crescita e occupazione’

‘Siamo convinti che l’Unione europea debba dare primaria importanza alla crescita economica e all’occupazione, soprattutto a quella dei giovani’,  ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad Atene, dove si augura che l’appuntamento per i 60 anni del Trattato di Roma ‘sia l’occasione per rilanciare l’integrazione ma anche il vincolo di vera, autentica ed effettiva solidarietà europea’. L’Europa si trova ad affrontare sfide cruciali e non contingenti, sfide che ne mettono alla prova il carattere di comunità di ideali e ci richiamano, prepotentemente, alle ragioni fondative di questa comunità di popoli liberi, ha proseguito il presidente della Repubblica rimarcando il fatto che tra queste sfide si staglia con forza la crisi economica che ha prodotto nuove soglie di povertà. Anzitutto,   ha spiegato,  la crisi economica e finanziaria, che aggredisce il nostro modello di convivenza sociale, colpendo soprattutto le legittime aspettative delle giovani generazioni, che vanno invece poste in condizione di poter guardare al futuro con ottimismo e fiducia. Attraversiamo grandi difficoltà, a causa della crisi. Ha colpito molti Paesi europei e ha prodotto nuove soglie di povertà, che investono strati sempre più ampi di popolazione. Ha innescato nuove forme di emarginazione e ha dato alimento a forze centrifughe crescenti. Il Capo dello Stato constata una semplice evidenza visto che in realtà la crisi globale della disuguaglianza prosegue senza tregua. Consideriamo che  dal 2015 l’1% più ricco dell’umanità possiede più ricchezza netta del resto del pianeta. Oggi otto persone possiedono tanto quanto la metà più povera dell’umanità. Nei prossimi 20 anni 500 persone trasmetteranno ai propri eredi 2.100 miliardi di dollari: è una somma superiore al Pil dell’India, Paese in cui vivono 1,3 miliardi di persone. Tra il 1988 e il 2011 i redditi del 10% più povero dell’umanità sono aumentati di meno di 3 dollari all’anno mentre quelli dell’1% più ricco sono aumentati182 volte tanto.  Un Ad di una delle 100 società dell’indice FTSE guadagna in un anno tanto quanto 10.000 lavoratori delle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh.  Negli Stati Uniti, secondo le nuove ricerche condotte dall’economista Thomas Piketty, negli ultimi 30 anni i redditi del 50% più povero sono cresciuti dello 0%, mentre quelli dell’1% più ricco sono aumentati del 300%. Dalla Brexit al successo della campagna presidenziale di Donald Trump si ha il segnale di una preoccupante avanzata della sfiducia generalizzata nella classe politica.  La sfida del momento è costruire un’alternativa positiva, non una che accresca le divisioni. Nei Paesi poveri il quadro è altrettanto complesso e non meno preoccupante. Negli ultimi decenni centinaia di milioni di persone si sono emancipate dalla povertà, e questa è una conquista di cui il mondo deve andare fiero; eppure ancora oggi una persona su nove soffre quotidianamente la fame. Se la crescita che si è registrata tra il 1990 e il 2010 fosse stata più favorevole alle classi più povere, oggi 700 milioni di persone in più  non vivrebbe in povertà. Le ricerche rivelano che la povertà estrema potrebbe di fatto essere ridotta di tre quarti subito e con risorse già esistenti, semplicemente aumentando l’imposizione fiscale e tagliando la spesa militare e altre spese regressive. La Banca Mondiale afferma chiaramente che se non verranno raddoppiati gli sforzi nella lotta alla disuguaglianza, i leader mondiali non raggiungeranno l’obiettivo di eliminare la povertà estrema entro il 2030. Se lasciata senza controllo, la crescente disuguaglianza minaccia di lacerare le nostre società, causando un aumento della criminalità e dell’insicurezza e pregiudica l’esito della lotta alla povertà. Non si deve lasciare che la risposta popolare alla disuguaglianza esasperi le divisioni. Un’economia per il 99% svela come le grandi imprese e i super ricchi alimentano la crisi della disuguaglianza e cosa si può fare per cambiare le cose; analizza i presupposti errati che ci hanno condotto su questa strada e ci mostra come possiamo creare un mondo più equo fondato su un’economia più umana, un’economia che trae la propria forza dalle persone, non dal profitto, e che dà priorità ai soggetti più vulnerabili. Una cosa è fuori discussione: nella nostra economia globale, a guadagnarci di più è chi sta al vertice della piramide sociale. Le ricerche condotte da Oxfam hanno rivelato che negli ultimi 25 anni l’1% più ricco della popolazione mondiale ha goduto di redditi superiori a quanto percepito dal 50% più povero. Invece di sgocciolare verso il basso, reddito e ricchezza sono risucchiati verso il vertice della piramide ad una velocità allarmante.  Le grandi imprese e i super ricchi hanno un ruolo determinante in questa dinamica. Per il ‘big business’ le cose sono andate bene: nel biennio 2015/2016 dieci tra le più grandi multinazionali hanno generato profitti superiori a quanto raccolto dalle casse pubbliche di 180 Paesi del mondo. Le imprese sono la linfa vitale dell’economia di mercato e, se il loro operato va a vantaggio di tutti, sono di cruciale importanza per creare prosperità ed equità sociale. Ma se, al contrario, operano sempre più a favore dei ricchi, i vantaggi derivanti dalla crescita economica non giungono a coloro che ne hanno maggiore bisogno. Nella loro smania di produrre alti profitti per chi sta al vertice, le grandi imprese spremono sempre più i lavoratori e i produttori e ricorrono a pratiche di elusione fiscale, evitando così di pagare imposte che andrebbero a beneficio di tutti e in particolare dei più poveri. Mentre i redditi degli alti dirigenti, spesso pagati in azioni, sono aumentati in maniera vertiginosa, le retribuzioni dei lavoratori e produttori hanno registrato incrementi minimi e in alcuni casi sono diminuite. In tutto il mondo le grandi imprese comprimono sempre più il costo del lavoro facendo sì che i lavoratori e produttori lungo le loro filiere ricevano una fetta sempre più sottile della torta: ciò acuisce la disuguaglianza e riduce la domanda. Uno degli strumenti utilizzati dalle società per massimizzare i profitti consiste nel pagare meno imposte possibili, e vi riescono grazie ai paradisi fiscali,  o forzando una competizione al ribasso tra Paesi per la concessione di agevolazioni ed esenzioni fiscali o di aliquote più basse. Le aliquote fiscali sugli utili d’impresa si riducono ovunque nel mondo e questo fenomeno, insieme alle sempre più diffuse pratiche di abuso fiscale, minimizza il volume di imposte pagate da molte grandi imprese. L’anno inizia come da consolidato copione: Bruxelles ricomincia ad incalzare il Governo italiano e si paventa la esigenza di una manovra aggiuntiva, si vocifera di 3 miliardi di euro che saranno pagati  dagli italiani,  perché è indubbio che le eventuali risorse da trovare non potranno che venire da loro.  Lo dimostra ad esempio il crescere polemico della Germania nei nostri confronti nell’anno delle loro elezioni. L’Europa potrebbe essere insomma alla vigilia di nuove tensioni che finirebbero per condizionare e non poco l’ andamento della nostra economia. Potrebbe determinarsi in breve tempo una gelata economica e sui conti pubblici che ricaccerebbe verso zone limitrofe alla stagnazione la nostra economia. Per giunta con l’aggravante che la questione banche resta ancora aperta, con segnali di protezionismo crescente, ma soprattutto con il rischio di restare isolati politicamente nel vecchio Continente, alimentando spinte anti-euro.  La situazione italiana segna il passo. Si prendano i dati conclusivi dell’inflazione 2016 che si chiude con un melanconico, prima ancora che deflazionistico, -0,1%. Certo dicembre sul mese dell’anno precedente segna un progresso dello 0,5% e l’inflazione di fondo (esclusi i prodotti energetici ed i beni alimentari freschi) resta positiva con uno 0,5% (ma nel 2015 era +0,7%). Ma questo andamento fa presumere che i consumi continueranno a faticare e che le diseguaglianze sociali giocheranno un peso negativo non marginale. Si consideri il rapporto fra prezzi dei servizi e quello dei beni, tutto sbilanciato a favore dei primi (+0,9% contro un +0,1%) ed il come si è determinato. Si vedrà che l’andamento principale è dovuto alle oscillazioni del petrolio su energia e trasporti, nonché ad alcuni scatti all’insù di voci isolate come quelle del trasporto aereo (+15,7%) e del turismo. Non vi è insomma un procedere lineare che faccia pensare ad una evoluzione dei consumi corrispondente realmente ad una nuova fiducia dei consumatori nel futuro. Invece pare proprio che ci si attesti sull’essenziale: i prezzi dei beni con alta frequenza di acquisto sono cresciuti in un anno dell’1%, quelli a media e bassa frequenza non vanno oltre lo 0,3%. E non è tutto: le famiglie con minore capacità di spesa registrano un esito negativo nel 2016 dello 0,5%. Quelle con maggiore capacità di spesa viceversa sono in territorio positivo sia pure con uno striminzito +0,1%. Le distanze restano mentre tutto si muove tuttora condizionato dalla incertezza. Uno scenario che non dovrebbe lasciare tranquilli specie in un frangente nel quale la rappresentanza degli interessi conosce ormai da tempo una crisi non indifferente. Per ora senza soluzioni convincenti.

Roberto Cristiano

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