Mascherine cinesi ‘taroccate’: Vendute come Ffp2 ma filtravano appena il 36%

Certificazioni fasulle, contratti annullati: in circolazione ci sono 55 milioni di Dpi che proteggono meno di quanto dichiarato.  300mila mascherine cinesi modello Ffp2 e altre 250 mila del tipo Ffp3 con contratto che certificava che «i prodotti sono adeguati allo standard En 149:2001+A1:2009, relativo alla direttiva Ce 425/2016 sui dispositivi di protezione individuale». Insomma, le migliori, garantite  fino a marzo 2025, dalla “Ente certificazione macchine”, una società di Valsamoggia, nel Bolognese. Erano state vendute con queste caratteristiche.

Invece il risultato della prova di filtrazione fatta fare a luglio in un laboratorio accreditato spagnolo recita tutto il contrario. Lo ha scoperto Repubblica con un’inchiesta inquietante. «Quelle Ffp2 hanno una capacità filtrante di appena il 36%, contro il 95% richiesto dalla norma», dice sconsolato  l’importatore al quotidiano.  Aggiunge il carico da undici. «Inoltre, neanche le Ffp3 sono regolari, hanno una capacità di filtraggio leggermente inferiore e non superano il test per la traspirazione ».

Lo stock di mascherine comprate in Cina, sdoganato grazie a un presunto certificato di conformità Ce e destinato in parte a una Regione, non è buono”. Quei dispositivi sono pericolosi. la scoperta fatta da Repubblica a Roma si è ripetuta tristemente  in questi mesi in tutta Italia: Bergamo, Pomezia, Ciampino, Como, Brindisi. “Sono milioni le mascherine (così come gli altri sistemi di protezione) importate dalla Cina con documenti apparentemente in regola e poi risultati taroccati. Solo il Nas ne ha sequestrati 6 milioni. Un numero monstre», scrivono  Giuliano Foschini e Fabio Tonacci.

Fin dall’inizio della pandemia, un anno fa,  “per fronteggiare l’emergenza il nostro governo decide una cosa: è possibile importare dispositivi dall’estero anche se sono sprovvisti del marchio Ce di conformità alle direttive dell’Unione europea. Bastano alcuni documenti (tra cui il test report, l’esame dei materiali) che attestino che si tratti di materiale «equiparabile». È a questo punto che si originano due mercati paralleli: da un lato quello degli importatori. Chiunque ha un contatto in Cina, che è la patria dei produttori di Dpi, offre carichi di materiale. Dall’altro lato ci sono i certificatori improvvisati, che si fanno pagare per mettere un timbro sulle bolle di accompagnamento”, racconta l’inchiesta.

Ricorderemo come lo  scorso agosto Arcuri è stato costretto a rescindere un contratto, chiedendo anche i danni, con una società da cui avevamo acquistato una sostanziosa commessa di Ffp2. Poi altri due contratti vengono rescissi dal commissario. Ci fu il caso di Prato, dove  due imprenditori crearono una società con un cinese, la Y.L., che per la procura di Prato avrebbe: «approfittato della situazione emergenziale per fornire un prodotto che altrimenti non avrebbe mai potuto realizzare e certificare». Le mascherine promesse avevano un’efficienza filtrante inferiore a quella pattuita contrattualmente.

Ma per contratti interrotti in tempo, ce ne sono stati altri conclusi, anche qui con esiti disastrosi. “È il caso della maxi commessa da 1,25 miliardi di euro firmata da Arcuri con tre consorzi cinesi oggetto dell’inchiesta della procura di Roma per i 70 milioni di euro di commissione intascati da alcuni imprenditori italiani, inchiesta in cui la struttura commissariale è parte lesa”.

Un pasticcio dietro l’altro. E pensare che il placet  per quelle mascherine (chirurgiche e Ffp2, circa 800 milioni di pezzi) lo dette il  Comitato tecnico scientifico. Le polemiche non sono mancate, è una tragedia.  Medici, infermieri, volontari decimati dal covid queste mascherine fasulle le hanno usate. Tutti vogliono sapere cosa sia accaduto e quante morti si sarebbero potute evitare.  C’è stata una falla tragica nel sistema. “Il punto – spiega Fabrizio Capaccioli, consigliere delegato dell’Associazione Conforma che rappresenta gli enti certificatori a Repubblica– è questo:  “la deroga che si sono inventati si basava unicamente su dichiarazioni documentali. D’accordo sulla necessità di fare in fretta ma abbiamo chiesto più volte la scorsa primavera di autorizzare i centri accreditati in Italia come i nostri, per un controllo rapido che non avrebbe allungato troppo i tempi. Ma il governo non ci ha ascoltato».

Il Nas dei Carabinieri ha sequestrato ben 6 milioni di mascherine Ffp2 e Ffp3 provenienti dalla Cina. I prodotti riportavano dei certificati di conformità contraffatti. Le fonti della Procura di Roma parlano di “Chinese job”, la truffa che arriva dall’Oriente. Dei 553 milioni di mascherine arrivate in Italia dall’estero, circa il 10% si è rivelato non conforme, a volte addirittura inutile contro il coronavirus e quindi potenzialmente pericoloso per la salute pubblica. Si parla di 55 milioni di pezzi che sono arrivati a farmacie e negozi, a volte utilizzati anche all’interno degli ospedali.

In molti si chiedono come è possibile che queste mascherine abbiano superato i controlli. I truffatori si sono mossi in una zona grigia normativa. All’inizio della pandemia, infatti, il governo Conte bis decise, vista la scarsità di dispositivi di protezione indivduale nel nostro Paese, di permettere l’importazione e il commercio di mascherine sprovviste del marchio Ce di conformità alle direttive dell’Unione europea.

La deroga prevedeva la possibilità che i materiali venissero certificati da enti privati come “equiparabili” agli standard europei di capacità di filtraggio. Questo ha aperto la strada a due mercati paralleli. Da una parte quello degli importatori, che in contatto con Paesi come la Cina, primo produttore di mascherine al mondo, ordinavano grandi quantità di dpi. Dall’altra quello dei certificatori, alcuni improvvisati e senza laboratori con macchinari specifici per testare i dispositivi, altri facilmente corruttibili.

Altri controlli sono scattati per un’altra commessa firmata dal commissario della Protezione Civile, del valore di 1,25 miliardi di euro, destinati a tre consorzi cinesi e intascati in parte da imprenditori italiani. L’ok per quelle mascherine fu dato dal Comitato tecnico scientifico, che però si basò per la valutazione sui documenti presentati dalle ditte cinesi. In seguito un laboratorio torinese ne mise in dubbio la qualità, a dalle analisi i dispositivi risultarono inutili. Troppo tardi: erano già state fornite ad alcuni ospedali. Forse contribuendo a causare focolai di Covid all’interno delle strutture.

Non è possibile a colpo d’occhio distinguere le mascherine contraffatte da quelle a norma per l’Unione europea. In caso si abbiano dubbi su uno stock di dispositivi o sul certificato che accompagna l’ordine, è possibile rivolgersi ai laboratori accreditati per effettuare nuovi controlli e capire se i materiali sono conformi o meno. Si tratta, visti i costi economici, di un’operazione che spetta alle grosse catene di vendita all’ingrosso e al dettaglio, alle istituzioni e alle associazioni di consumatori, magari su segnalazione dei singoli cittadini.

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