L’Italia vista da Bruxelles

Quando si parla dell’Ue come di un’entità esterna, bisogna sempre ricordare che ne facciamo parte. I 59 milioni di italiani rientrano nei quasi 450 milioni di abitanti dell’Ue e non sono soli quando si confrontano con i giganti del mondo, dagli Stati Uniti alla Cina, passando per la Russia. Si possono appoggiare al peso politico ed economico, ai sistemi di difesa e alla stabilità di governo di Paesi amici come la Germania (83 milioni di abitanti) o la Francia (67 milioni), con cui condividono le stesse strategie in politica estera ed energetica, la stessa moneta e la stessa banca centrale. L’eurozona ha 340 milioni di abitanti, più degli Stati Uniti (330 milioni) e più del doppio della Russia (144 milioni). Solo presentandosi uniti si possono affrontare in campo aperto colossi come la Cina (1,4 miliardi di abitanti) senza essere inghiottiti in un sol boccone. Far parte di questo grande mercato, con regole comuni, consente inoltre all’Italia di esportare oltre 300 miliardi di euro di beni nei Paesi dell’Unione. Una cifra enorme. Senza l’euro e senza l’Unione Europea questa cifra sarebbe sicuramente molto più bassa. Per non parlare dei fondi europei, di cui l’Italia resta il secondo percettore in Europa, dopo la Polonia, anche nel nuovo bilancio 2021-2027. L’Italia riceverà dall’Ue 42,7 miliardi di euro nel 2021-2027 (dai 34 del bilancio 2014-2020) di fondi per promuovere la coesione economica, sociale e territoriale, con particolare attenzione alle regioni del Sud. L’aumento riflette il peggioramento delle condizioni economiche e sociali delle regioni meridionali nel corso della lunga crisi originata dalla crisi del debito sovrano e seguita dalla ricaduta post-pandemia. Questo accordo, perfezionato a fine luglio, definisce le priorità d’investimento concordate congiuntamente per la transizione verde e digitale dell’Italia, sostenendo al contempo le zone socioeconomiche più fragili e i gruppi vulnerabili. Con il cofinanziamento nazionale, la dotazione totale della politica di coesione ammonta a 75 miliardi. Per quanto riguarda i fondi agricoli, il secondo pilastro del bilancio Ue, la situazione invece è complicata dalla riforma della Politica Agricola Comunitaria, che entrerà in vigore il 1° gennaio 2023, e dai ritardi italiani nel presentare il proprio piano strategico per i cinque anni 2023-2027 (il via libera ai piani dei primi sette Paesi è stato dato dalla Commissione proprio pochi giorni fa), ma in ogni caso i fondi assegnati all’Italia per questo settennato superano i 50 miliardi di euro. Ancora più rilevanti sono i fondi assegnati all’Italia nell’ambito del Recovery Fund post-pandemia, di cui è la prima beneficiaria fra tutti i Paesi Ue: 191,5 miliardi di euro, tra 68,9 miliardi di trasferimenti, cioè fondi Ue che non verranno restituiti, e 122,6 miliardi di prestiti a tasso di favore da restituire nel tempo. Spendere i fondi del Pnrr nei tempi previsti, entro il 2026, è la condizione per riceverli: un’occasione storica, forse unica dal secondo dopoguerra in poi, che va colta senza perdere slancio. Dopo l’approvazione definitiva del Pnrr italiano da parte della Commissione e del Consiglio europeo, Bruxelles ha già cominciato a erogare i primi fondi, a partire da un prefinanziamento di circa 25 miliardi (13% dell’intera quota del Recovery Fund che spetta all’Italia), seguito dal primo pagamento vero e proprio per il Pnrr italiano: 21 miliardi versati a metà aprile, grazie al raggiungimento degli obiettivi concordati per fine 2021. Questa prima «tranche» (10 miliardi di sovvenzioni dirette e 11 miliardi di prestiti) era legata al raggiungimento di 51 obiettivi nei settori della pubblica amministrazione, degli appalti pubblici, della giustizia, della revisione della spesa, dell’istruzione superiore, del mercato del lavoro, della digitalizzazione delle imprese, dell’efficienza energetica e della ristrutturazione degli edifici residenziali. E’ solo l’inizio. Il piano italiano è ambizioso: 190 misure tra riforme e investimenti, con 525 obiettivi strategici, soprattutto negli ambiti su cui abbiamo registrato nel tempo profondi ritardi, come ambiente e transizione verde, digitalizzazione, mobilità, sanità, politiche attive del lavoro e istruzione. Rallentare adesso significa perdere un’occasione che è potenzialmente in grado di trasformare il tessuto produttivo e sociale del Paese in modo rapido ed efficace. Nella prima repubblica, il programma di politica estera dei vari partiti era il meno significativo di tutti i punti in agenda. Il motivo era chiaro: le alleanze erano definite, il mondo  diviso rigidamente in due aree di influenza, si sapeva chi stava da una parte e chi dall’altra. Le polemiche c’erano, ma erano colore. Nessuno, neppure i comunisti, si sarebbero per esempio sognati di mettere in dubbio l’appartenenza dell’Italia al blocco Nato. Loro, che fino a quando è stato in piedi l’Urss  sono stati finanziati da Mosca. Adesso le cose sono cambiate e tutto è molto più in movimento. Per la politica estera passa il collocamento del Paese, che nonostante quel che si dica è molto meno scontato di un tempo, e quello delle singole forze politiche. Naturale quindi che in campagna elettorale il tema “alleanze” assuma un contorno che prima non aveva, e che le dichiarazioni dei leader siano lette anche alla luce dei rapporti internazionali. E qui casca l’asino. Perché a parte il Terzo Polo che dichiara una posizione saldamente atlantista ed europeista, sinistra, centrodestra e Cinquestelle non parlano con una voce sola, o chiara. Un guazzabuglio di posizioni che la campagna elettorale accentua, ma che i partiti farebbero bene a non sottovalutare. Da sempre il collocamento chiaro di una nazione in ambito internazionale è uno dei focus con cui viene giudicata l’affidabilità di un “sistema-Paese” nel suo complesso e degli stessi leader che la rappresentano, e che non possono cambiare dalla convenienza del momento. A volte noi italiani abbiamo peccato di provincialismo pensando che tutto finisse oltre le Alpi, ma in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, certe ingenuità non sono più ammissibili.

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