Non si sa ovviamente se il segretario del Pd riuscirà a vedere l’ex capo della Bce al Quirinale ma quello che sembra di poter escludere è che quest’ultimo vi accederà senza problemi, come fu per Ciampi. Al momento in cui scriviamo infatti Draghi può contare su Letta e all’incirca sui due terzi del Pd e su Giorgia Meloni, ovviamente con motivazioni differenti – ma la storia potrebbe unirli nell’eventuale scivolamento verso le elezioni; Matteo Salvini lo preferirebbe ancora a Palazzo Chigi con ragioni stavolta serie, e ha ricreato un asse gialloverde con Giuseppe Conte, i cui parlamentari temono le urne come il Covid; Silvio Berlusconi non si sa cosa vuole e la grande pianura del Centro è piuttosto orientata a una soluzione che lasci il premier a palazzo Chigi.
Questo è il quadro, adesso. Poi tutto può cambiare rapidamente, anche se è legittimo nutrire qualche scetticismo sulla immediata fattibilità di un nuovo governo, premessa per il trasloco di Draghi al Colle. Forse egli ci arriverà, a scalare il Quirinale ma, per come si sono messe le cose, in condizioni più deboli.
Enrico Letta è il leader di un partito e di una coalizione di cui ha ridisegnato i contorni a proprio piacimento. Utilizzando allo scopo l’occasione della partita per il Quirinale, in cui si è definitivamente certificato il fatto che il centrosinistra oggi è una coalizione che comprende, oltre al Pd, soltanto altri due partiti, M5s e Articolo Uno, e in cui le decisioni più importanti si prendono in vertici tra i rispettivi leader.
Si tratta di una linea piuttosto diversa da quella disegnata nell’abile discorso con cui Letta si era presentato all’assemblea nazionale del Pd, dove aveva fatto un’importante distinzione tra centrosinistra e Movimento 5 stelle. Del resto, non è neanche l’unico punto su cui il segretario, senza darlo troppo a vedere, ha portato Pd e centrosinistra, o quello che ne rimane. Gli altri due punti, ovviamente collegati al primo, sono infatti la legge elettorale (con il no al proporzionale), e le elezioni anticipate, ovvero l’elezione di Mario Draghi a presidente della Repubblica.
Il Pd, fino a pochi giorni fa, era attestato sulla posizione secondo cui la priorità era garantire la continuità di governo, e ormai tutti i quotidiani raccontano di come sia stato invece proprio Letta, nell’ultimo vertice di coalizione, a premere su Conte per convincerlo dell’opportunità di eleggere Draghi presidente della Repubblica.
Sin da quando è nato, infatti, il Pd ha mostrato una particolare sensibilità all’elezione del presidente della Repubblica, il cui esito ha sempre avuto un immediato riflesso sui suoi equilibri. È stato così nel 2013, con la sua clamorosa spaccatura prima sul nome di Franco Marini e poi su quello di Romano Prodi, con le conseguenti dimissioni del segretario Pier Luigi Bersani, ma anche la promozione del suo vice, lo stesso Letta, a presidente del Consiglio. Ed è stato così pure nel 2015, perché fu proprio sulla scelta di Sergio Mattarella per il Quirinale che si consumò la rottura del famigerato patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, con le inevitabili conseguenze sul percorso delle riforme istituzionali e il successivo referendum.
Il problema è che di mezzo ci sono la pandemia e il Piano nazionale di ripresa e resilienza: all’indomani di una campagna elettorale di tipo bipolare-maggioritario, o per meglio dire bipopulista, con Draghi al Quirinale non è facile immaginare un governo, una maggioranza e una leadership capaci di portarci fuori dai guai.