Le medie imprese italiane sono le più produttive, meglio di Germania, Francia e Spagna. Italia regina di conti e affidabilità: “spread” mai così basso da 15 anni

Le medie imprese italiane sono in assoluto le più produttive d’Europa e sul fronte del fatturato e dell’occupazione fanno meglio delle tedesche e francesi, attestandosi seconde solo dietro la Spagna. È la fotografia scattata dal XXIV Rapporto sulle medie imprese industriali italiane e nel report Scenario competitivo, esg e innovazione strategica per la creazione di valore nelle medie imprese industriali italiane, realizzati dall’area studi di Mediobanca, dal centro studi Tagliacarne e Unioncamere.

Quella delle medie imprese tricolore è una realtà composta da 3.650 aziende, prevalentemente operanti nei comparti del made in Italy, che in dieci anni, tra il 2014 ed il 2023, ha registrato un aumento del 31,3% della produttività del lavoro, del 54,9% delle vendite e del 24,2% dell’occupazione, correndo allo stesso ritmo delle colleghe nazionali di medio-grande dimensione (+55,3%) e più speditamente dei gruppi maggiori (+42,1%).

Tra il 2014 e il 2023, la produttività del lavoro (valore aggiunto per dipendente) delle medie imprese italiane è aumentata del 31,3%, avanzando ad un ritmo più veloce di quello delle corrispettive spagnole (+29,9%), tedesche (+25,8%) e francesi (+20,2%). E se confrontiamo i valori assoluti della produttività del lavoro dei diversi Paesi, l’Italia supera del 3,3% la Germania, del 14,7% la Francia e del 18,7% la Spagna.

Per il 2025, le medie imprese prevedono di chiudere ancora in positivo con incrementi del 2,2% del fatturato totale e del 2,8% dell’export rispetto al 2024. Dopo un 2023 e un 2024 segnati da una lieve contrazione del fatturato totale (rispettivamente -1,5% e -1,3%), ma con l’export in crescita (+0,1% e +2,5%), le aspettative per il 2025 dunque appaiono cautamente ottimistiche.

E questo nonostante le preoccupazioni per la concorrenza low-cost – che interessa il 70% circa di queste imprese – il contesto geopolitico instabile, il caro energia e le incognite sui dazi. Tema rispetto al quale  il 52,6% di queste ambasciatrici del made in Italy auspica l’adozione di una politica commerciale europea contro la concorrenza sleale e il protezionismo di altri Paesi e il 31,2% una policy comune per la sicurezza energetica.

Sul fronte interno la richiesta è di un alleggerimento della pressione fiscale e un incremento delle politiche per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, anche in un’ottica di sostegno alla competitività.

Le medie imprese rappresentano una componente strategica del tessuto produttivo nazionale: generano il 17% del fatturato dell’industria manifatturiera italiana, il 16% del valore aggiunto e il 14% sia delle esportazioni sia dell’occupazione complessiva.

Emesso un verdetto che il governo Meloni può  festeggiare visto che lo “spread” è sceso sotto quota 90 (88). Non è mai stato così buono da 25 anni a questa parte, nonostante il contesto europeo di recessione e le economie di “guerra”, quella vera, con le armi, che stritolano i tanto temuti mercati finanziari che decidono se, dove e quando investire risparmio gestito, fondi, retail, profitti di Borsa.

L’Italia s’è quasi mangiata la Germania che arranca nel Pil e mostra segni di cedimento sull’affidabilità. Il rialzo dei rendimento dei titoli tedeschi spiega poco, perché sono quelli italiani a scendere di più, secondo uno schema che stima l’affidabilità sulla base della disponibilità degli investitori a guadagnare di meno per avere un “rifugio” più tranquillo. Così uno Stato “solido” può finanziarsi sui mercati pagando meno interessi, in sintesi. Il centrodestra, qui in Italia, oggi può rileggere col sorriso le nefaste previsioni di crac e di default formulate dalla sinistra all’indomani della conquista di Palazzo Chigi da parte di Giorgia Meloni.

Spread, dopo le profezie il grande risultato dell’Italia e del governo Meloni

Dal 2022 i conti italiani iniziarono a migliorare la loro “relationship” con le agenzie di rating internazionali, convinsero l’Europa sull’affidabilità delle politiche economiche del governo Meloni e sedarono i mercati con effetto “valium” che ancora oggi fa sentire i suoi effetti, perfino su quella parolina magica, “spread“, che grazie alle maliziose attività nell’ombra della Bce, determinarono la fine del governo Berlusconi nel 2011, per lasciare spazio al “tecnico dei tecnici”, Mario Monti, mister “lacrime e sangue”, che riportò – sempre con l’aiuto del bazooketto della Bce – il differenziale Btp- Bund tedeschi a livelli rassicuranti.

“Occorre tornare con la memoria alla primavera del 2010 per vedere lo spread tra Btp e Bund sotto quota 90 punti. Silvio Berlusconi era ancora a Palazzo Chigi e il termine spread, che indica il differenziale di rendimento con i titoli di Stato tedeschi e quindi è considerato il termometro della sostenibilità e della forza del debito pubblico, era soltanto per gli addetti ai lavori e non padroneggiato dalla gente comune. Poi la crisi ha fatto schizzare l’indicatore, è crollato un governo, e da allora già scendere sotto quota 100 era considerato un segnale di tranquillità. I rendimenti ieri, in partenza di seduta, lo spread ha fatto segnare 88 punti e il rendimento del Btp a 10 anni è sceso al 3,43 per cento …  Se in passato il differenziale che si restringeva era in parte dovuto a movimenti in rialzo sui titoli tedeschi, in questa fase il merito va alla discesa dei rendimenti italiani…”, scrive  la pagina economica del “Messaggero“, che non è un pericoloso quotidiano post-fascista di simpatie meloniane. “Le percentuali sono ancora sopra quelle di altri titoli di Stato, ad esempio quelli francesi, anche se nelle ultime settimane sulle brevi scadenze i bond di Oltralpe hanno superato quelli del Tesoro. La tendenza è tuttavia di un calo. Ciò vuol dire che i Btp sono percepiti come più sicuri. La dimostrazione è anche nell’interesse dimostrato da mesi dagli investitori, sia il pubblico indistinto dei piccoli risparmiatori sia gli istituzionali. Anche l’ultimo collocamento, mercoledì scorso, ha fatto il pieno di richieste…”.

“La continua flessione dello spread, che oggi sfiora i 91 punti base, dopo aver toccato ieri il record degli 88, è l’ulteriore riprova della fiducia acquisita grazie al buon governo di Giorgia Meloni. A dispetto dei proclami catastrofisti dell’opposizione, l’Italia è forte e in meno di tre anni lo spread, che durante il governo di Giuseppe Conte ha toccato anche i 300 punti base, continua il suo trend positivo. Tutto questo è coerente con la ricchezza finanziaria delle famiglie, con i riconoscimenti delle agenzie di rating e l’eccezionale richiesta dei nostri titoli di Stato. Una direzione politica chiara, solida e coerente, capace di parlare al Paese reale e al sistema economico globale. Questa la ricetta di Giorgia Meloni, che ha portato l’Italia a non essere più l’anello debole, ma a fare scuola in Europa. E lo fa con la concretezza delle scelte”, dichiara Antonio Giordano, deputato di Fdi e segretario generale di Ecr.

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