Lavoro, sviluppo, fisco: la ricetta dei ‘saggi’ di Napolitano

Le misure di politica economico-sociale suggerite dal Gruppo di lavoro in materia economico-sociale ed europea istituito il 30 marzo 2013 dal Presidente della Repubblica e composto da Filippo Bubbico, Giancarlo Giorgetti, Enrico Giovannini, Enzo Moavero Milanesi, Giovanni Pitruzzella e Salvatore Rossi mirano a raggiungere due obiettivi di fondo: riavviare lo sviluppo economico, renderlo più equo e sostenibile.

La principale emergenza che ci troviamo oggi ad affrontare, scrivono i saggi nella loro relazione, è quella del lavoro e della conseguente crescita della povertà. “Oggi in Italia hanno un lavoro, anche solo precario, 56 persone su 100 tra i 15 e i 64 anni. In Francia sono 64, in Germania 73. Su 100 giovani fra i 15 e i 24 anni, in Italia lavorano in 17, in Francia 28, in Germania 47. E’ a rischio di povertà ed esclusione sociale il 28,4 per cento dei residenti nel nostro Paese”.

Gli obiettivi immediati da raggiungere per il Gruppo di lavoro in materia economico-sociale ed europea sono: il mantenimento della coesione sociale, la tutela dei risparmiatori, il rispetto della Costituzione italiana e delle regole dell’Unione europea.

Ecco la Relazione integrale del Gruppo di lavoro in materia economico-sociale ed europea istituito il 30 marzo 2013 dal Presidente della Repubblica e composto da Filippo Bubbico, Giancarlo Giorgetti, Enrico Giovannini, Enzo Moavero Milanesi, Giovanni Pitruzzella e Salvatore Rossi consegnata al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

 

AGENDA POSSIBILE

Relazione del Gruppo di lavoro in materia economico-sociale ed europea istituito il 30 marzo 2013 dal Presidente della Repubblica e composto da Filippo Bubbico, Giancarlo Giorgetti, Enrico Giovannini, Enzo Moavero Milanesi, Giovanni Pitruzzella e Salvatore Rossi

 

 

1. INTRODUZIONE E SINTESI

 

Questo documento non è un programma di governo, organico e sviluppato in un’ottica di lungo termine. Non può essere e non è un manifesto politico. Non è neanche una mera nota descrittiva dei problemi.

Proponiamo un elenco ragionato di possibili linee di una futura azione di governo in campo economico-sociale-ambientale, per ciascuna delle quali vengono indicati esempi di concreti provvedimenti, che si segnalano per la loro rilevanza e urgenza o su cui è comunque necessario avviare fin da subito una riflessione politica. La scelta di procedere per “esempi” è stata, da un lato, imposta dal breve orizzonte temporale del Gruppo, dall’altro privilegiata al fine di agevolare la lettura del documento.

Gli spunti qui suggeriti poggiano su una base di analisi condotte da istituzioni nazionali e internazionali, sono orientati a stimolare la ripresa economica, considerano le ineludibili necessità delle fasce più deboli della società e (con ulteriori approfondimenti di carattere tecnico) possono essere valutati nei loro effetti quantitativi sull’economia. Su di essi appare esservi prima facie una convergenza potenziale delle forze politiche, oppure una divergenza chiaramente misurabile. Come è ovvio, il quadro che se ne ottiene è lungi dall’essere esaustivo dei problemi e delle soluzioni. La composizione di un programma organico e di ampio respiro spetterà al Governo che il Paese si darà.

Il documento intende mostrare come, ad avviso del Gruppo di lavoro, si potrebbe cominciare a tracciare un percorso che aiuti la società e l’economia italiane a uscire dalle presenti difficoltà. L’appendice statistica completa il quadro informativo. La discussione in seno al Gruppo ha investito molti campi. Abbiamo preferito mettere a disposizione tutto il lavoro svolto, anche se ciò ha implicato redigere una Relazione corposa e molto articolata. In un apposito riquadro sono sintetizzate, al termine di questo capitolo, le proposte del Gruppo. Queste possono avere effetti in più campi.

Il contenuto della presente Relazione è condiviso da tutti i partecipanti al Gruppo di lavoro.

1.1 Gli obiettivi di fondo

 

Le misure di politica economico-sociale qui suggerite, anche quelle limitate alle urgenze, si inscrivono in due obiettivi di fondo: riavviare lo sviluppo economico, renderlo più equo e sostenibile.

Lo sviluppo deve portare un aumento del benessere, non risolversi in un mero accumulo di beni materiali. Nei paesi avanzati esso si traduce nell’accrescimento qualitativo dei beni e servizi disponibili ai cittadini, che fa aumentare il prodotto interno lordo (PIL) reale, e in una migliore qualità della vita. In Italia la crescita è asfittica da molti anni. Si è indebolita la capacità del nostro sistema di produrre beni e servizi innovativi, di migliore qualità, di maggiore complessità, attraenti, competitivi. La crisi finanziaria globale del 2007-2008 e le recessioni che ne sono conseguite hanno inferto un colpo grave a un organismo già debilitato. In questo modo non è diminuito solo il reddito, ma la qualità della vita di milioni di persone.

Ne discende la principale emergenza che ci troviamo oggi ad affrontare: quella del lavoro e della conseguente crescita della povertà. Oggi in Italia hanno un lavoro, anche solo precario, 56 persone su 100 tra i 15 e i 64 anni. In Francia sono 64, in Germania 73. Su 100 giovani fra i 15 e i 24 anni, in Italia lavorano in 17, in Francia 28, in Germania 47. E’ a rischio di povertà ed esclusione sociale il 28,4 per cento dei residenti nel nostro Paese.

Far sì che il sistema generi fisiologicamente opportunità di lavoro per tutti, in particolare per i più giovani, è la priorità, anche perché il lavoro vale molto più del reddito che lo compensa. Lo sviluppo economico equo e sostenibile è la via maestra per ottenere questo risultato.

Non è facile, nessuno deve illudersi. Lo sviluppo lo fanno gli imprenditori e i lavoratori, non i governi. Ma i governi possono agire sui presupposti dello sviluppo. Possono attivare fattori facilitatori, anche interagendo nella sede dell’Unione europea, che persegue i medesimi obiettivi. In Italia, peraltro, è convinzione diffusa, suffragata da studi e analisi, che l’operatore pubblico debba piuttosto “togliere” che “aggiungere”. Certamente occorre togliere ostacoli, evitando l’eccesso di norme e riducendo il potere d’interdizione della burocrazia. Ma si possono aggiungere nuove opportunità e agevolazioni esplicite, specie fiscali (pur nel rispetto delle compatibilità di bilancio), a favore di quelle attività che più direttamente offrono possibilità di sviluppo e di lavoro, soprattutto per le giovani generazioni. Inoltre, i governi possono e debbono incanalare lo sviluppo su binari di sostenibilità ambientale e sociale, di equità fra generazioni, fra donne e uomini, fra ceti e territori diversi.

1.2 Gli obiettivi immediati

 

In questa fase, qualunque politica economico-sociale per l’Italia deve rispondere a tre obiettivi immediati imprescindibili: il mantenimento della coesione sociale, la tutela dei risparmiatori, il rispetto della Costituzione italiana e delle regole dell’Unione europea.

Il mantenimento della coesione sociale e territoriale

Se si rompe la coesione della società è in pericolo la democrazia, ogni azione pubblica è paralizzata. Il rapporto tra classe politica, pubblica amministrazione e cittadino è cruciale. Rappresentanti dei cittadini percepiti come chiusi alle istanze di cambiamento, un fisco che finisce per essere vessatorio nei confronti del contribuente onesto, uffici pubblici inefficienti e sordi alle legittime richieste della popolazione alimentano sfiducia e conflittualità tra le parti sociali, ostacolano le scelte necessarie per riformare l’economia e migliorare il funzionamento della società.

Per questo tutte le componenti dell’economia e della società italiana sono chiamate a trovare soluzioni innovative e a condividerle, così da mobilitare, comunicando fiducia nel futuro, le tante risorse umane di alta qualità disponibili nel Paese e da attrarre persone di valore che operano all’estero.

La tutela dei risparmiatori

Per molti anni, in passato, nel bilancio pubblico italiano le spese hanno ecceduto le entrate, causando l’accumularsi di un debito elevato, sia in termini assoluti sia rispetto al reddito prodotto annualmente. I creditori dello Stato sono per due terzi gli stessi cittadini italiani. Quindi, garantire la sostenibilità del debito pubblico significa assicurare che le famiglie italiane non vedano parte dei propri risparmi evaporare.

I creditori, italiani o esteri, dello Stato italiano non possono non apprezzare che quest’ultimo abbia corretto, o stia correggendo, comportamenti ritenuti inveterati. Lo sforzo fatto negli ultimi anni per far sì che le spese diverse dagli interessi pagati sul debito pubblico tornino ad essere significativamente inferiori alle entrate (cioè, che si abbia un avanzo primario) e la prosecuzione nei prossimi anni di questo impegno rappresentano una fondamentale rassicurazione per tutti.

Un’ulteriore preoccupazione è sopraggiunta due anni fa, con l’emergere di timori di una possibile rottura della coesione europea tale da condurre alla destabilizzazione dell’area dell’euro. In relazione a tale ipotesi, gli investitori di tutto il mondo – italiani compresi – hanno iniziato a percepire un rischio aggiuntivo sui titoli del debito pubblico di alcuni paesi europei: in particolare, di quei paesi – fra i quali l’Italia – con una storia passata di inflazione alta e valuta debole. Sui loro titoli si chiedono, anche per questa ragione, tassi d’interesse più alti.

Mantenere l’impegno all’equilibrio di bilancio è reso più difficile dal fatto che l’indebolimento della capacità dell’economia italiana di generare reddito dura ormai da almeno quindici anni. Infatti, è il reddito nazionale che in ultima analisi garantisce, anche agli occhi dei creditori, il rimborso potenziale del debito pubblico.

Ciò nonostante, quell’impegno va mantenuto. Lo Stato si trova a dover collocare nei restanti mesi di quest’anno oltre 200 miliardi di euro di titoli sul mercato. Il favore dei potenziali acquirenti dipenderà innanzitutto dai comportamenti correnti di gestione del bilancio pubblico, ma anche dal rispetto delle regole che li disciplinano, prime fra le quali quelle dell’Unione europea.

Il rispetto della Costituzione italiana e delle regole dell’Unione europea

La Costituzione contiene principi fondamentali a tutela del lavoro, della famiglia, del risparmio, dell’iniziativa economica, della proprietà, dei diritti civili e sociali ai quali è giusto e doveroso attenersi. Essa è stata recentemente modificata per garantire meglio l’equilibrio tra le entrate e le spese pubbliche ed evitare che si seguano comportamenti nella gestione del bilancio pubblico come quelli che hanno determinato la situazione attuale e fortemente indebolito l’economia e la società italiane.

In un mondo globalizzato, in cui si affermano nuovi giganti economici, l’Italia ha una speranza concreta di sviluppo e benessere solo all’interno del quadro dell’Unione europea, alla quale aderiamo da oltre 60 anni, quasi l’intera storia repubblicana. Per questo, le regole europee, comprese quelle in materia di finanza pubblica, sono la cornice obbligata entro cui va collocata la politica economica e sociale di tutti i paesi membri dell’Unione e dell’area dell’euro. È interesse dell’Italia farlo, assicurandosi che anche gli altri paesi lo facciano.

L’Unione europea non impone unicamente vincoli, seppure giustificati per garantirne la stabilità e il buon funzionamento: fin dalle sue origini offre molteplici opportunità. Alcune sono previste dai trattati istitutivi e dal diritto derivato, altre discendono dagli stessi vincoli. Ad esempio, i fondi strutturali possono rappresentare una risorsa straordinaria per migliorare le infrastrutture e la qualità della vita. Rispettare quest’anno il limite del disavanzo pubblico e stabilizzarlo in maniera durevole sotto il limite del 3 per cento del PIL sono precondizioni per chiudere la cosiddetta “procedura per i disavanzi eccessivi” a carico dell’Italia e questo, oltre ad avere effetti positivi sul collocamento dei titoli italiani e sui tassi d’interesse, apre margini per investimenti pubblici produttivi secondo le intese raggiunte nel Consiglio Europeo di marzo 2013.

1.3 Struttura e metodo della Relazione

Dopo un paragrafo volto a ricapitolare “le emergenze del presente, le opportunità del futuro, le scelte”, seguono due distinte sezioni contenenti proposte e suggerimenti: “Arrestare la recessione, avviare la ripresa”, “Agire sui presupposti di uno sviluppo equo e sostenibile”. In ciascuna sezione sono elencati vari campi in cui agire; per ciascun campo sono indicate alcune misure concrete tra le tante possibili.

Numerose proposte non incidono direttamente sulle spese e sulle entrate del bilancio pubblico ma agiscono sulle norme e sulle prassi amministrative; altre comportano costi, in termini di minori entrate o di maggiori spese, solo in alcuni casi quantificati, a causa dei tempi ristretti nei quali il Gruppo ha dovuto operare. Tuttavia, il Gruppo ritiene che gli attuali livelli della spesa pubblica e delle entrate in rapporto al PIL siano dei limiti massimi, da ridurre nel tempo. D’altra parte, le scelte distributive dell’onere fiscale, da un lato, e delle risorse raccolte, dall’altro, sono prettamente politiche e il Gruppo ha ritenuto di non potervisi addentrare. Quindi, laddove le misure proposte implicano un costo a carico del bilancio pubblico non è sempre stata indicata precisamente la copertura: si tratta di una necessaria semplificazione di cui il lettore è bene sia pienamente conscio. Ci spingiamo, tuttavia, a formulare una raccomandazione: destinare qualunque sopravvenienza finanziaria possa manifestarsi nei prossimi mesi alla priorità dell’emergenza lavoro e del sostegno alle persone in grave difficoltà economica, nella forma di un alleggerimento dell’imposizione diretta sul lavoro, a partire dai giovani e dalle fasce di reddito più basso, e del sostegno alle famiglie più povere.

Riteniamo anche di dover ribadire la necessità di proseguire e rafforzare l’opera di riduzione e riorientamento della spesa pubblica delle amministrazioni (cosiddetta spending review), utilizzando e raffinando ulteriormente le analisi già svolte allo scopo di identificare le pratiche migliori, così da obbligare tutte le amministrazioni, centrali e locali, a spostarsi sulla “frontiera dell’efficienza”, modificando comportamenti stratificati nel tempo. Analogamente, ma su questo si tornerà successivamente, la pratica dei costi standard e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni devono divenire strumenti concreti per migliorare l’efficienza dello Stato, delle Regioni e degli enti locali. Peraltro, alla luce dell’entrata a regime della modifica costituzionale sul vincolo di bilancio strutturale, vanno riviste le modalità attraverso cui opera il cosiddetto “Patto di stabilità interno”, utilizzato nel passato unicamente come forma di compartecipazione di Regioni ed enti locali allo sforzo di raggiungimento degli obiettivi europei. In questi anni la difficile comprimibilità della spesa pubblica corrente ha finito col sacrificare gli investimenti pubblici: la spesa in conto capitale ha raggiunto un minimo storico. Ne va subito almeno rafforzata la qualità e l’efficacia.

Sul fronte delle entrate riteniamo che quel che si dovesse stabilmente ricavare in più dalla lotta all’evasione fiscale andrebbe impiegato per ridurre l’imposizione, in modo da accrescere la condivisione sociale del recupero di evasione e abbassare una pressione fiscale esplicita fra le più alte del mondo, certamente nemica della crescita. Riteniamo importante che il Governo perseveri, e nel modo più articolato, nelle iniziative volte alla valorizzazione di tutti i beni parte del patrimonio dello Stato, delle Regioni e degli enti locali, che abbiano un valore sul mercato. Considerate le attuali condizioni del mercato stesso, vanno valutate con cautela le possibilità di procedere nel breve termine a vendite e dismissioni, da riprendere appena si determineranno condizioni più favorevoli. Tuttavia, si propone di intensificare da subito ogni azione suscettibile di determinare il miglior rendimento economico, a beneficio della collettività. A tal fine risulta indispensabile completare il preciso censimento del patrimonio di proprietà pubblica, la cui mancanza frena ogni seria programmazione di queste attività.

Infine, si propone al Governo di valutare l’opportunità di riprendere i negoziati bilaterali con la Svizzera per un accordo di trasparenza ai fini della tassazione dei redditi transfrontalieri di natura finanziaria, alla luce dei recenti sviluppi sul fronte della fiscalità internazionale (in particolare, degli accordi conclusi dagli Stati Uniti con vari paesi europei) sullo scambio di informazioni, nonché delle raccomandazioni del G8 e del G20 su questa materia; in parallelo, il Governo può attivarsi in sede UE affinché l’Unione stessa negozi un tale accordo, in nome di tutti gli Stati membri.

SINTESI DELLE PROPOSTE

Proposte con effetti prevalenti sulla crescita economica

Fare arrivare il credito alle piccole e medie imprese (PMI) e completare il pagamento dei debiti commerciali della pubblica amministrazione

– Completare il pagamento dell’intero ammontare dei debiti commerciali della pubblica amministrazione verso le imprese e far si che l’obbligatorio termine di 30 giorni per i pagamenti, in vigore dall’inizio dell’anno, sia effettivamente rispettato

– Espandere la operatività del Fondo Centrale di Garanzia per le piccole e medie imprese, che può, attraverso garanzie a banche e Confidi sui prestiti alle PMI, attivare prestiti aggiuntivi per oltre 30 miliardi

– Accelerare l’utilizzazione dei Fondi strutturali dell’Unione europea, rafforzando la sinergia fra amministrazioni centrale, regionali, locali e imprese

Rilanciare il ruolo dell’Italia negli scambi internazionali

– Accrescere l’operatività del polo costituito da Sace, Simest e Cassa Depositi e Prestiti in materia di assicurazione e finanziamento delle esportazioni, rimodulando la relativa disciplina normativa sul modello della Ipex-Bank tedesca

– Con l’occasione dell’Expo2015, mobilitare istituzioni e sistemi produttivi ai fini di un rilancio dell’immagine italiana nel mondo e per assicurare il massimo impatto dell’evento sull’economia nazionale

– Concentrare nei prossimi due anni risorse per potenziare il settore turistico e valorizzare il patrimonio culturale attivando diversi strumenti di partnership pubblico-privato

Favorire la ricerca, l’innovazione e la crescita delle imprese

– Istituire un Fondo di investimento pubblico-privato che operi come fondo di fondi di venture capital, rafforzando normativamente l’operatività dei due fondi di private equity già costituiti presso la Cassa Depositi e Prestiti (Fondo italiano di investimento e Fondo strategico italiano)

– Riconoscere un credito d’imposta a fronte di spese per Ricerca e Sviluppo

– Sostenere le PMI nella partecipazione alle gare per i fondi dell’Unione europea in questo settore

– Vengono proposte misure per potenziare il sistema pubblico della ricerca

Migliorare il sistema tributario

– Presentare all’approvazione del Parlamento il disegno di legge “delega fiscale”

– Vengono suggerite diverse misure per migliorare il rapporto tra fisco e cittadino e per rafforzare la lotta all’evasione fiscale

Aprire alla concorrenza, tutelare meglio i consumatori

– Utilizzare lo strumento della “Legge annuale sulla concorrenza” per procedere ad una revisione degli aspetti anticoncorrenziali della legislazione vigente, rafforzando il controllo dell’AGCM sulla legislazione regionale

– Vengono suggerite diverse misure per aumentare la concorrenza in diversi settori (trasporti, assicurazioni, energia, ecc.)

Proposte con effetti prevalenti sulla dimensione sociale

Lavoro e condizioni sociali delle famiglie

– Nei prossimi mesi destinare qualunque sopravvenienza finanziaria all’emergenza lavoro e al sostegno delle persone e delle famiglie in grave difficoltà economica

– Rifinanziare gli ammortizzatori sociali in deroga

– Affrontare la grave questione dei cosiddetti “esodati”

– Riconoscere un credito d’imposta ai lavoratori a bassa retribuzione (fra i quali è maggiore la quota di giovani), che si trasformi in sussidio monetario se eccede l’imposta dovuta

– Favorire il lavoro femminile, potenziando, tra l’altro, il telelavoro e gli strumenti per migliorare la conciliazione dei tempi di lavoro e di cura familiare

– Realizzare l’alternanza scuola-lavoro, anche per gli universitari

– Vengono proposti modi per stabilizzare e ampliare l’agevolazione fiscale della “retribuzione di produttività”

– Definire il nuovo ISEE (indicatore della situazione economica equivalente), già all’esame dalla Conferenza Stato-Regioni, da cui dipendono molti benefici e prestazioni sociali

– Emanare i decreti attuativi del Casellario dell’assistenza già previsto dalla legge al fine di meglio identificare i destinatari degli interventi ed evitare distorsioni dovuta al cumulo delle prestazioni

– Valutare le diverse ipotesi relative all’eventuale introduzione di un reddito minimo di inserimento, da inserire in un quadro complessivo di revisione dell’assistenza

– Migliorare le relazioni industriali disciplinando la rappresentatività sindacale, la partecipazione dei lavoratori nell’impresa, ecc. e favorendo sul piano fiscale l’azionariato dei lavoratori

Potenziare l’istruzione e il capitale umano

– Vengono proposti modi per contrastare il grave fenomeno dell’abbandono scolastico e sostenere il diritto allo studio

– Vengono suggerite misure per promuovere la digitalizzazione delle scuole e la cultura dei “dati aperti”

Proposte con effetti prevalenti sulla dimensione ambientale

Migliorare l’ambiente, aumentare l’efficienza energetica

– Provvedere nei tempi più rapidi al pieno recepimento e adempimento della normativa dell’Unione europea in materia ambientale

– Si propone di rivedere la normativa sul consumo del suolo al fine di contenerlo e di favorire la valorizzazione delle aree agricole

– Sono proposti strumenti per la riqualificazione urbana che favoriscano interventi di ristrutturazione e riqualificazione, anche in funzione antisismica

– Vengono suggeriti modi per accrescere l’efficienza energetica

– Sono proposte misure per migliorare il ciclo dei rifiuti

Miglioramento della legislazione e funzionamento della pubblica amministrazione

Aumentare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche per fornire migliori servizi alle imprese e ai cittadini*

– Eliminare tutti i regimi autorizzatori non necessari (“Opzione zero”)

– Introdurre un indennizzo forfetario e automatico per i ritardi delle amministrazioni

– Adottare il meccanismo dei costi fabbisogni standard previsto dal federalismo fiscale per le spese di regioni ed enti locali

– Rivedere il Patto di stabilità interno alla luce del nuovo articolo 81 della Costituzione

– Rafforzare, migliorandoli, i meccanismi della spending review e istituire il Fondo per le amministrazioni più virtuose in termini di efficacia e efficienza

– Rivedere la struttura dei livelli retributivi delle figure apicali e dirigenziali

Migliorare la legislazione, consolidare la certezza del diritto

– Vengono suggerite norme e modalità organizzative per una più spedita emanazione dei regolamenti attuativi di leggi già approvate dal Parlamento

– Vengono suggeriti modi per rafforzare l’obbligo di valutazione, ex ante ed ex post, delle normative e del loro impatto

La presenza italiana nell’Unione europea

– Vengono sottolineate numerose tematiche legate all’agenda europea presente e futura sulle quali è necessario sviluppare posizioni chiare e lungimiranti, vista la loro importanza per lo sviluppo economico, sociale e ambientale dell’Italia

– Si segnalano, inoltre, diverse questioni urgenti, dalle quali possono dipendere opportunità o costi, che richiedono un’efficace presenza nelle sedi negoziali

Questione meridionale e questione settentrionale

– Disegnare ogni nuova politica nazionale (o riforma di una preesistente) in modo differenziato fra aree, per tenere conto della diversa efficacia applicativa, predisponendo incentivi e sanzioni per i singoli attori (amministrazioni, strutture, dirigenti)

 

* L’organizzazione della giustizia civile è trattata nella relazione del Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali

 

2. LE EMERGENZE DEL PRESENTE, LE OPPORTUNITÀ DEL FUTURO, LE SCELTE

 

2.1 Affrontare la recessione e cogliere le opportunità

L’Italia sta attraversando la più grave recessione della sua storia. La crisi globale iniziata nel 2007-2008, originata lontano da noi, ha colpito l’economia italiana più severamente di molti altri paesi avanzati. Fra il 2008 e il quarto trimestre 2012, in Italia il PIL è sceso di quasi il 6 per cento, in Francia è rimasto stazionario, in Germania è aumentato di oltre il 2 per cento. Nel medesimo periodo, in Italia il reddito disponibile delle famiglie, al netto dell’inflazione, è diminuito di quasi il 10 per cento: in termini pro-capite è tornato ai livelli di venti anni fa. Rispetto al 2008, l’occupazione è diminuita di 681mila unità. Il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli del 2001, quello giovanile ha raggiunto quasi il 38 per cento.

Le gravi difficoltà di questi ultimi due anni si sono manifestate dopo un decennio di crescita economica limitata a uno stentato 0,4 per cento medio annuo, nettamente inferiore a quella degli altri grandi Paesi europei, con una produttività del lavoro che nell’intera economia è aumentata nei dieci anni solo dell’1,2 per cento, contro il 9,5 dell’Eurozona.

La condizione di fragilità strutturale, economica e finanziaria di cui, da molto tempo, soffre una parte consistente del sistema produttivo nazionale è ora più evidente. La malattia dell’economia italiana ha una causa principale: l’inefficienza, ovvero la produttività bassa e stagnante. L’inefficienza, almeno relativamente agli altri paesi con cui ci confrontiamo, colpisce sia le amministrazioni pubbliche, sia diversi segmenti dei settori privati che producono servizi e beni manufatti. Il ritardo italiano è particolarmente accentuato in quelle componenti dell’efficienza produttiva che dipendono dalle tecnologie impiegate, dall’organizzazione, dal livello di istruzione. Le due rivoluzioni che hanno cambiato le economie del mondo nell’ultimo quarto di secolo – l’avvento del paradigma tecnologico informatico e la globalizzazione dei mercati – non sono state colte dalla nostra economia con la prontezza e l’intensità di tanti altri paesi avanzati. Hanno pesato la difficoltà di molte imprese private a crescere nella dimensione (vulnus un tempo veniale, oggi mortale) e l’inefficienza delle amministrazioni pubbliche.

In molti campi sociali e ambientali il nostro Paese sconta divari importanti rispetto agli altri paesi europei. Ad esempio, se tutti i paesi, compresa l’Italia, realizzassero gli obiettivi fissati nell’ambito della Strategia Europa 2020, alla fine del decennio in corso l’Italia si troverebbe in fondo alla classifica europea in molte aree rilevanti, come il tasso di occupazione, gli abbandoni scolastici, il numero di laureati e gli investimenti in Ricerca e Sviluppo.

Queste e altre fragilità sono ben note e documentate in rapporti di numerose istituzioni nazionali ed internazionali, cui si rimanda, ma spesso vengono dimenticate sotto la spinta delle emergenze del presente. Desideriamo ribadire che, non affrontando con decisione queste fragilità, l’Italia continuerà a vivere emergenze anche negli anni a venire. Per questo, l’opinione pubblica e i suoi governanti devono tenere desta l’attenzione sui problemi chiave del Paese, imparando dalle esperienze di successo sperimentate altrove nel mondo, fruendo in particolare degli stimoli e delle buone pratiche di altri Stati dell’Unione europea, monitorando continuamente progressi e ritardi, dando spazio alle tante storie di risultati di eccellenza che si realizzano grazie all’impegno di chi opera in Italia.

Il mondo sta cambiando rapidamente e ci offre opportunità, non solo problemi. Il riorientamento del commercio internazionale verso le economie emergenti e i paesi in via di più rapido sviluppo spalanca enormi mercati a chi sia capace di offrire a centinaia di milioni di nuovi acquirenti che domandano beni e servizi a elevato valore aggiunto. Ci sono già numerose imprese italiane che presidiano o si inoltrano con successo in quei mercati. Dovrebbero essere di più.

La produzione mondiale dei beni di consumo più avanzati, ma anche degli stessi macchinari industriali, si sta riorganizzando in filiere che coinvolgono molte imprese di tanti paesi, chiamate a fornire input diversi. Essere leader di una di queste filiere, o parteciparvi in modo non subalterno, assicura un vantaggio competitivo, ampie quote di mercato, occupazione qualificata. Vediamo numerose imprese italiane impegnate in queste catene globali del valore. Dovrebbero essere di più.

Vi sono spazi per accrescere il numero di imprese, per ingrandire molte di quelle esistenti, poggiando sui talenti scientifici e imprenditoriali diffusi nel nostro Paese. Nonostante le tante difficoltà per fare impresa in Italia, moltissime aziende presentano risultati eccellenti in termini di efficienza, redditività, innovazione e crescita occupazionale. Dovrebbero essere di più.

Ancora troppe imprese sopravvivono solo con l’evasione tributaria e contributiva, praticando condizioni di lavoro illegali e basate sullo sfruttamento della forza lavoro, anche grazie a legami opachi con le pubbliche amministrazioni. Esse frenano l’aumento dell’efficienza del sistema economico, occupano indebitamente uno spazio di mercato, alimentano un diffuso senso di illegalità e di corruzione. Il loro numero deve essere ridotto drasticamente.

Come già evidenziato, la sostenibilità di un sistema socio-economico trascende la dimensione puramente finanziaria. Tutti i paesi europei, a iniziare da quelli più in ritardo come l’Italia, devono orientare le loro politiche economiche alla crescita, equa e sostenibile, mostrando come la costruzione europea sia la soluzione e non la causa dei problemi che oggi li affliggono. Per questo, è indispensabile sfruttare tutti i margini disponibili per stimolare la ripresa economica, rendere nuovamente l’Unione europea un’area attraente per gli investimenti internazionali, migliorare la qualità della vita delle sue popolazioni.

2.2 Ritrovare la fiducia

Ampie parti della società italiana appaiono bloccate, impaurite, arroccate in difesa, a disagio di fronte all’innovazione, che è invece il motore dello sviluppo avanzato. Il declino demografico del Paese è la manifestazione più evidente di questa sindrome.

Tutti i centri di ricerca nazionali e internazionali concordano su un punto: solo determinando una netta discontinuità nei comportamenti individuali e collettivi, quindi nei processi decisionali che innervano il sistema sociale ed economico, è possibile mettere l’Italia su un sentiero di sviluppo sostenibile, in grado di rispondere alle aspirazioni della società italiana e di ridare all’Italia un ruolo da protagonista nello scenario europeo e mondiale.

Lo abbiamo già esplicitato, ma è bene ribadirlo: non si ottiene tutto questo con la spesa pubblica. A lungo ci si è illusi – in Italia come in altri paesi – che la spesa pubblica in disavanzo, cioè non coperta anno per anno da corrispondenti entrate, fosse la panacea per sovvenire, stimolare, perequare. Ma ormai è chiaro a tutti che il debito pubblico in questo modo accumulato sottrae risorse alle generazioni successive. Ora il nodo è venuto al pettine, non si può tornare alla spesa primaria in disavanzo e si deve ricercare uno sviluppo basato sui “fondamentali” del sistema economico.

Tuttavia, una crescita economica che fosse realizzata secondo gli schemi del XX secolo non sarebbe compatibile né con gli odierni imperativi di natura ambientale, né con l’esigenza di una distribuzione più equa delle opportunità e delle risorse economiche tra uomini e donne, tra giovani e anziani, tra ricchi e poveri, tra aree geografiche centrali e periferiche. Nonostante miglioramenti in alcuni campi, l’Italia ha visto crescere divari e presenta ritardi inaccettabili su fronti che condizionano non solo la qualità della vita degli abitanti di talune aree, ma anche la loro sicurezza. Inoltre, negli ultimi anni l’aumento delle disuguaglianze nelle opportunità ha assunto caratteri che riducono fortemente le potenzialità di intere generazioni o di particolari categorie di cittadini (donne, stranieri, ecc.); ne sono frenate le stesse prospettive di sviluppo.

Invertire queste tendenze richiede l’impegno dell’intero Paese, i cui frutti concreti non sono visibili nel breve termine. Proprio per questo è indispensabile avviare il cambiamento, cogliendo subito i cosiddetti “frutti a portata di mano”, come pensiamo siano quelli indicati in questa Relazione. Solo così sarà possibile mobilitare le energie disponibili, ridando speranza e fiducia nel futuro e combattendo lo scoraggiamento di ampie aree della società italiana.

2.3 Influire sulle prossime opzioni dell’Unione europea

La lungimirante scelta europeista fatta a suo tempo dall’Italia è ancora ricca di opportunità non colte. Bisogna adoperarsi per superare le difficoltà, le incomprensioni, i sospetti reciproci che, non di rado, rallentano e minano la costruzione europea. Operare all’interno dell’area geo-economica più vasta e ricca del pianeta con la seconda industria manifatturiera dell’Eurozona, rappresentando al tempo stesso uno dei principali mercati di consumo dell’Unione, dovrebbe darci un’influenza elevata nei processi decisionali delle istituzioni europee, permettendoci di incidere sulle politiche comuni e sul ruolo dell’Unione europea nel mondo. Per acquisire davvero quell’influenza e mantenerla occorrono competenza, autorevolezza e capacità negoziali adeguate.

Un tema di dibattito su cui occorre evidentemente essere ben presenti è quello delle politiche di bilancio. Non vi è dubbio che tutti gli Stati dell’area dell’euro devono impegnarsi a tenere i conti pubblici in ordine: serve a evitare che l’instabilità finanziaria di un paese contagi gli altri, con conseguenze gravi sulle condizioni di vita delle popolazioni. D’altra parte, è altrettanto vero che la simultanea restrizione fiscale operata in questa fase da numerosi paesi ne ha amplificato le ripercussioni sul ciclo economico, estendendo la disoccupazione, causando tensioni sociali. Le regole comuni sono state rafforzate, negli ultimi anni, per consolidare la stabilità e l’integrità dell’Eurozona. Al contrario di ciò che si tende a pensare, come tutte le regole, anche queste non sono ciecamente rigide, ma prevedono e consentono margini interpretativi importanti. Ne discende un certo margine discrezionale per le istanze preposte alla loro applicazione e, di conseguenza, una possibilità di applicazione all’occorrenza duttile, dunque di negoziato per gli Stati.

Da un punto di vista più generale, l’Unione europea e il suo ordinamento garantiscono all’Italia un contesto di stabilità e un orizzonte più ampio per lo sviluppo dell’economia e della società. Ne discendono diritti e doveri, opportunità e vincoli, stimoli continui e sfide. Qui di seguito si individuano i terreni di azione di più immediato rilievo per il Governo.

Favorire l’evoluzione dell’Unione europea verso una maggiore legittimità democratica, nella prospettiva di un’unione politica

Il dibattito sul futuro dell’Unione europea si è riaperto in questi anni di intensi lavori volti al superamento della crisi economica. L’assetto istituzionale ha mostrato le sue carenze e da più parti se ne chiede un riforma. Alcuni progressi possono essere individuati, per via interpretativa, senza emendare i trattati base; tuttavia, questo approccio ha il limite della perenne contestabilità, oltre a quello intrinseco del dettato delle norme fondanti.

La convinzione di una prossima modifica dei trattati si fa strada, anche fra chi politicamente non la auspica. Verosimilmente, a valle si dovranno tenere referendum in molti Stati, tutti dall’esito incerto. Nel frattempo, le cosiddette modifiche a “Trattato costante” sono già in atto: il ruolo assunto dalla BCE, dopo il Consiglio Europeo di giugno 2012, ne è un esempio. Rispetto a queste, occorre essere pronti a interagire in modo proattivo con gli altri Stati e con le istituzioni europee, portando avanti idee e proposte consone al sentire del Paese. Con riferimento alla possibile modifica dei trattati, è bene tenersi pronti perché i tempi potrebbero accelerarsi. In Italia, l’azione immediata può includere una più incisiva preparazione delle posizioni da assumere, attraverso un dibattito che coinvolga cittadini e Parlamento. I temi sono molti: dai miglioramenti negli assetti di governo dell’Unione, al rafforzamento della sua legittimità democratica, al riassetto della ripartizione dei ruoli e delle competenze fra Unione, Stati, Regioni, incluse le Euroregioni.

Fare pieno uso della flessibilità offerta dal Patto di Stabilità UE in materia di investimenti pubblici produttivi a favore di crescita e occupazione

Dopo lunghe discussioni, aperte nel 2012 su iniziativa italiana, il Consiglio Europeo del marzo 2013 ha riconosciuto, considerato l’attuale contesto di crisi, la possibilità di effettuare “investimenti pubblici produttivi” agli Stati che hanno un deficit annuale inferiore al 3 per cento del PIL e si trovano nella cosiddetta “parte preventiva” del Patto di stabilità. Di conseguenza, è prioritario che nel maggio di quest’anno sia chiusa la procedura per disavanzo eccessivo, in maniera da poter fruire di tale possibilità, insieme ad altri Stati. Secondo una prima valutazione della Commissione europea, può rientrare fra i detti investimenti una parte del cofinanziamento nazionale dei Fondi strutturali UE e dei fondi a favore delle interconnessioni per trasporti, energia e telecomunicazioni.

Tale componente, quindi, potrebbe essere spesa, in una sorta di deroga all’equilibrio di bilancio, purché il disavanzo annuo resti al di sotto del 3 per cento del PIL. Dato l’ammontare dei citati fondi attribuiti all’Italia, va consolidato il negoziato, affinché la flessibilità sia estesa all’intera quota di cofinanziamento, il quale può ammontare ad alcuni miliardi di euro l’anno, per il periodo 2014-2020. Questo può giovare a un’accelerazione nell’impiego dei fondi UE, tradizionalmente lento in Italia, anche per la carenza delle risorse necessarie al cofinanziamento.

Programmare, subito e bene, l’uso migliore delle risorse del bilancio dell’Unione

L’Italia non è un buon utilizzatore dei finanziamenti UE, sia dei fondi preassegnati (agricoltura e coesione), sia di quelli che sono aggiudicati attraverso gare (ricerca, reti trans-europee, cultura e istruzione, ecc.). La conseguenza è stata, da una parte, l’accumularsi di un forte saldo negativo di fondi non impiegati, in stridente contrasto con le nostre ristrettezze finanziare; dall’altra, una perdita in termini di reputazione e potere negoziale. E‘ essenziale perseverare nello sforzo avviato, basato su rilevanti innovazioni di metodo e sul rafforzamento del presidio nazionale, per spendere nei termini prescritti e realizzare investimenti di qualità, mobilitando istanze statali e locali. Il quadro di bilancio 2014-2020 ne fornisce l’occasione, anche perché prevede nuove condizionalità che penalizzano i ritardi. Quindi, in primo luogo vanno impegnati e spesi al più presto i fondi residui (la maggior parte dei fondi europei “a rischio” riguardano l’Italia).

In secondo luogo, bisogna impostare un’accurata azione per i fondi del prossimo ciclo, inclusiva di idonee forme di assistenza alle piccole imprese in vista della partecipazione alle gare europee. Va tenuto presente che i finanziamenti UE per l’Italia ammontano a circa 12-13 miliardi di euro l’anno per il periodo 2014-2020 (dei quali, 9 miliardi per quelli preassegnati), ai quali si aggiunge automaticamente la quota di cofinanziamento nazionale.

Ridurre le infrazioni alle norme UE e adottare in Parlamento la legge europea

Tradizionalmente, l’Italia recepisce con ritardo e in modo carente le norme adottate in sede UE che, inoltre, troppo spesso vengono violate. Ciò si ripercuote sull’immagine del Paese e sulla sua affidabilità. Le infrazioni conseguenti possono cagionare gravose sanzioni pecuniarie. Di recente, è stata rivolta più specifica cura agli adempimenti europei, al fine di migliorare la posizione del Paese. L’azione richiede un impegno a più livelli (centrale e locale) e una costante vigilanza che devono proseguire. Nodale è la legislazione di recepimento che la novella n. 234 del 2012 ha riorganizzato in due strumenti normativi (Legge europea e Legge di delegazione europea). I disegni di legge 2013 stanno per approdare in Parlamento: vi sono tutte le norme e gli atti dovuti, inclusi quelli che si trovavano nelle Leggi comunitarie 2011 e 2012 non adottate nella scorsa legislatura. La finalizzazione dell’iter legislativo costituisce una priorità e permetterà anche di chiudere un buon numero di procedure d’infrazione pendenti.

Accelerare la riforma dell’unione economica e monetaria

Gli atti diretti a creare una vera e propria unione bancaria sono all’esame del legislatore europeo. Per l’Italia è importante che si proceda all’unisono lungo tre profili, tutti rilevanti per la sicurezza del risparmio: vigilanza unica della Banca centrale europea; sistema di risoluzione delle crisi degli istituti di credito; garanzia dei depositi. Inoltre, in preparazione del Consiglio Europeo di giugno 2013, occorre concentrarsi sulle questioni attualmente oggetto di un intenso negoziato: il riferimento alla dimensione sociale e al dialogo sociale; la forma e il possibile contenuto degli accordi contrattuali con cui gli Stati si impegnano a determinate riforme strutturali; le misure, dette di solidarietà, che accompagnerebbero tali accordi.

In una prospettiva di medio termine, bisogna valutare l’opportunità di dotare l’area euro di un’autonoma capacità di bilancio, distinta da quella dell’Unione, decidendo su come alimentarlo (per esempio, emettendo appositi titoli europei di debito pubblico) e sulle modalità d’uso delle sue risorse (per esempio, per innovative azioni europee a favore dell’occupazione).

Stimolare la piena messa in opera del Patto per la crescita e l’occupazione

Il Consiglio Europeo del giugno 2012 ha deciso una serie di rilevanti azioni, anche normative, per favorire la crescita e l’occupazione. Si tratta di mobilitare fattori peculiarmente adatti al contesto europeo, come: un mercato interno competitivo e aperto, dotato di nuove normative; l’interconnessione delle reti; l’agenda digitale; gli accordi commerciali con i paesi terzi. Tali aspetti sono riepilogati in un Patto la cui messa in opera progressiva necessita di costante attenzione da parte del Governo e del Parlamento, che deve essere informato sui molteplici tavoli di negoziato aperti.

L’adeguamento ai parametri europei di protezione dell’ambiente come fattore di crescita, modernizzazione e benessere collettivo

L’Italia è fortemente deficitaria nel rispetto delle regole UE in materia ambientale. Il problema dipende, soprattutto, dalla carente interazione fra livello statale, regionale e locale e dalle insufficienti risorse e infrastrutture. I principali inadempimenti riguardano: acqua, rifiuti, qualità dell’aria. Ad esempio, nella gestione dei rifiuti, questioni di raccolta, trattamento e smaltimento si sommano a quella delle discariche abusive.

Negli ultimi anni sono state contestate all’Italia numerose infrazioni: alcune sono di fronte alla Corte di giustizia Europea, con forte probabilità di ingenti sanzioni. Al fine di uno spedito adempimento andrebbe concordato con la Commissione europea un apposito Piano, anche in maniera innovativa, ove possibile, ad esempio negoziando un calendario e modalità di attuazione e finanziamento che permettano di fruire di risorse del bilancio UE e nazionali. Per queste ultime, si potrebbe invocare la già richiamata flessibilità in materia di investimenti pubblici produttivi per il periodo necessario all’attuazione del piano. L’iniziativa potrebbe anche figurare nei cosiddetti “accordi contrattuali” e avvalersi delle ipotizzate misure di accompagnamento. Da un adeguamento e dalle opere connesse discenderebbero benefici immediati in termini di domanda e di occupazione, oltre che di chiusura delle procedure di infrazione pendenti, per non parlare del vantaggio per la salute dei cittadini e dell’ambiente nel suo insieme e della complessiva modernizzazione del Paese.

Promuovere la qualità, l’originalità e l’innovazione per rafforzare il sistema produttivo e i diritti dei consumatori

Il mercato UE dei prodotti per il consumatore vale oltre 1000 miliardi di euro, esclusi i prodotti alimentari. Non tutti questi prodotti sono sicuri: per questo, la Commissione europea ha recentemente proposto due regolamenti in materia di sicurezza dei prodotti e sorveglianza del commercio. Un elemento chiave è la tracciabilità, così da consentire di sapere esattamente cosa si compra, grazie a un’etichettatura esaustiva, anche per quanto riguarda il luogo d’origine. Per i beni prodotti nell’Unione, l’impresa potrà scegliere se indicare genericamente “Made in Europe” o essere più precisa, ad esempio, indicando “Made in Italy”. Si tratta di una normativa di grande importanza per l’Italia che, da tempo, chiede regole capaci di salvaguardare le parti più vitali e innovative del sistema produttivo. Dunque, un’articolata, pressante azione di supporto alle proposte nelle sedi legislative UE ci sembra indispensabile. Le aziende italiane hanno tutto l’interesse a veder approvata una legislazione che premia e incentiva le loro tradizioni di qualità, unicità e inventiva, proteggendole da forme di concorrenza sleale. Del pari, tutti i consumatori sarebbero meglio tutelati e vedrebbero rafforzata la loro libertà di scelta. 20

 

3. ARRESTARE LA RECESSIONE, AVVIARE LA RIPRESA

 

3.1 Creare e sostenere il lavoro

Gli interventi sul mercato del lavoro devono essere adottati in un’ottica complessiva, valutando i pro e i contro delle diverse soluzioni, attraverso un dialogo continuo con le parti sociali. Per questo, il Gruppo di lavoro ha scelto di concentrarsi esclusivamente su alcune possibili e circoscritte proposte volte a migliorare condizioni particolarmente negative che interessano alcuni settori della popolazione quali le donne, i giovani e i lavoratori a basso reddito, segnalando anche l’urgenza di migliorare le relazioni industriali (condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per rafforzare la coesione sociale).

Poiché l’attesa ripresa di fine anno sarà caratterizzata per un certo periodo di tempo da incertezze sulla sua durata e intensità, vi è il rischio che le imprese siano estremamente prudenti nel procedere ad assunzioni a tempo indeterminato: per questo sarebbe utile riconsiderare le attuali regole restrittive nei confronti del lavoro a termine, almeno fino al consolidamento delle prospettive di crescita economica.

Sostenere il lavoro dei giovani

Ferma restando la considerazione che una diminuzione del costo del lavoro stimolerebbe la competitività e fornirebbe un impulso alla domanda interna, nella fase di acuta e prolungata recessione che l’economia italiana attraversa occorre intervenire immediatamente per favorire due aree del mercato ad alta criticità: il lavoro giovanile e a più bassa retribuzione. In generale, vale quanto detto nel capitolo 2: occorre “destinare qualunque sopravvenienza finanziaria possa manifestarsi nei prossimi mesi alla priorità dell’emergenza lavoro e del sostegno alle persone in grave difficoltà economica”. Inoltre, si segnala l’opportunità di fruire, a partire dal 2014, del nuovo fondo istituito dall’Unione europea proprio per agevolare l’occupazione dei giovani, specie nelle aree geografiche economicamente più in difficoltà.

Una misura possibile consiste nell’introdurre un credito di imposta per i lavoratori a bassa retribuzione. Esso non solo risponderebbe a esigenze equitative, ma potrebbe risolversi anche in un incentivo alla partecipazione del lavoro. Schemi di questo tipo sono adottati da vari anni in altri paesi avanzati. Un credito d’imposta va sottratto all’imposta calcolata sul reddito da lavoro personale: quello qui suggerito, per la parte eccedente l’imposta dovuta, verrebbe corrisposto al lavoratore, configurandosi quindi come un sussidio monetario. Al contrario di altri strumenti pensati per gli individui privi di un impiego retribuito (come il sussidio di disoccupazione o il reddito minimo di inserimento), il credito d’imposta, incrementando esclusivamente i redditi netti da lavoro, mira a stimolare l’occupazione; potrebbe anche contribuire all’emersione di occupazioni irregolari. D’altra parte, nel disegnare lo strumento bisognerebbe tenere conto dei rischi di evasione ed elusione e che, in mancanza di un salario orario minimo, le imprese potrebbero 21

traslare il credito d’imposta in riduzione delle retribuzioni nette, annullandone l’effetto redistributivo.

Un credito di imposta per i lavoratori a bassa retribuzione avrebbe anche l’effetto, desiderabile, di fornire un sostegno ai giovani, che, per le ragioni appena descritte, sono sovra-rappresentati in questa tipologia di occupati. Va peraltro ricordato che nell’ordinamento italiano esistono già importanti esempi di incentivi economici all’assunzione dei più giovani, quali il contratto di apprendistato che, oltre alla più favorevole disciplina della rescissione del rapporto di lavoro, prevede un carico contributivo limitato o del tutto assente.

Favorire la crescita del lavoro femminile e migliorare la conciliazione dei tempi di lavoro con quelli dedicati alla cura familiare

L’Italia presenta forti ritardi rispetto ai partner europei in termini di partecipazione femminile: essi riguardano l’accesso al mercato del lavoro, il livello delle retribuzioni, le prospettive di carriera, il raggiungimento di posizioni apicali e l’iniziativa imprenditoriale. Nonostante l’aumento ininterrotto dell’occupazione femminile dal 1995 fino alla crisi del 2009, la quota di donne occupate in Italia rimane comunque di gran lunga inferiore a quella dell’UE: nel 2011 – l’anno più recente per un confronto internazionale – il nostro tasso di occupazione femminile si attestava al 46,5 per cento contro un 58,5 per cento della media europea. Anche il divario di genere nei tassi di occupazione dell’Italia (-22 punti percentuali) era secondo solo a quello di Malta.

Il tasso di occupazione è più basso per le madri rispetto alle donne senza figli (55 per cento contro il 64 per cento per le donne tra i 25 e i 54 anni). Le differenze si accentuano in caso di maternità e basso titolo di studio: il tasso d’occupazione in Italia scende al 37,2 per cento per le madri con un titolo inferiore alla terza media (a fronte del 50 per cento della media europea). Per chi ha ottenuto titoli superiori le differenze con gli altri paesi sono più contenute (78 per cento contro un 82 per cento per le mamme laureate). Le difficoltà a conciliare vita professionale e familiare continuano a essere un freno alla partecipazione femminile, soprattutto nei primi anni di vita dei figli: infatti, solo il 56 per cento dei comuni italiani dispone di almeno una struttura di servizi socio-educativi per la prima infanzia e nel 2011 solo il 18,7 per cento dei bambini tra zero e due anni ha frequentato un asilo nido pubblico o privato.

In questo contesto, oltre a interventi che facilitino l’ingresso e la parità di trattamento anche retributiva a parità di funzioni, sarebbe utile istituzionalizzare e disciplinare con regole certe la possibilità di ricorrere al telelavoro, con vantaggi anche per le imprese in termini di riduzione dei costi fissi e dei casi di assenteismo. Si tratta di uno strumento ancora sottoutilizzato in Italia. Con riferimento al numero di occupati per i quali esso si impiega, anche solo occasionalmente, il nostro paese si colloca su posizioni molto inferiori agli altri principali paesi europei (circa un quarto dei valori che si riscontrano in Francia, circa un quinto di quelli del Regno Unito e meno della metà della media dell’Area Euro). 22

Agevolare fiscalmente le retribuzioni di produttività

Per incrementare l’efficienza e la produttività delle imprese e, contestualmente, garantire un beneficio economico ai lavoratori, potrebbe essere stabilizzato l’attuale meccanismo di agevolazione fiscale operante sulla parte accessoria della retribuzione dei lavoratori del settore privato (c.d. retribuzione di produttività). Tale agevolazione, il cui ambito di applicazione è limitato quantitativamente ed al solo settore privato, potrebbe essere ulteriormente estesa, riguardando la quota parte di salario destinata a remunerare la qualità della prestazione. Per giungere a tale risultato si potrebbe prevedere, d’accordo con le parti sociali, uno spostamento della competenza sul tema alla contrattazione più decentrata, in modo da valorizzare anche le performance delle singole realtà produttive. Naturalmente, tale intervento dovrebbe essere accompagnato da interventi volti ad aumentare la produttività dell’impresa, senza i quali il meccanismo produrrebbe distorsioni, soprattutto nei confronti delle piccole imprese.

Migliorare le relazioni industriali

L’attuale legislazione sulle relazioni industriali favorisce incertezza, divisioni e controversie. Di conseguenza, sarebbe opportuno disciplinare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali nel settore privato, dando seguito a quanto già in parte concordato tra le parti sociali e presente in alcuni progetti di legge presentati in Parlamento. Inoltre, si potrebbe rivedere l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, coerente con la sopra citata disciplina della rappresentatività, per arrivare ad un modello unico di rappresentanza sul luogo di lavoro, nell’ottica di consentire a tutte le organizzazioni sindacali effettivamente rappresentative di non essere escluse dal godimento dei diritti sindacali e al datore di lavoro di poter contare su interlocutori certi e realmente rappresentativi.

Da ultimo, sempre al fine di rafforzare la qualità delle relazioni industriali, sarebbe opportuno intervenire sul tema della partecipazione dei lavoratori nell’impresa. Si potrebbe partire dall’estensione dell’ambito di applicazione dei diritti di informazione e consultazione, integrandoli con forme ulteriori di partecipazione, compreso l’azionariato dei lavoratori (eventualmente con un incentivo fiscale) e introducendo forme più avanzate di bilateralità nella gestione di istituti del welfare e della formazione.

Realizzare l’alternanza scuola-lavoro, anche per gli universitari

L’Italia ha un crescente numero di NEET, persone che non lavorano e che non studiano allo stesso tempo. Il problema si è aggravato negli ultimi anni non solo perché è aumentata la disoccupazione giovanile, ma anche perché sono diminuite le iscrizioni alle università. Al tempo stesso, le imprese continuano a lamentare l’assenza sul mercato di persone con qualifiche intermedie.

Definire un sistema di alternanza scuola-lavoro consentirebbe di migliorare tale situazione. Si tratta di un tema molto dibattuto, senza che sia stata identificata una soluzione efficace per il nostro Paese. Alcune proposte riguardano l’obbligatorietà di periodi di alternanza scuola-lavoro in qualsiasi percorso formativo successivo all’età dell’obbligo scolastico, ivi compresa l’università, sulla base di apposite convenzioni con le imprese, gli enti pubblici e privati, inclusi quelli del Terzo Settore. Si tratterebbe di periodi che non costituiscono rapporto individuale di lavoro e che vanno valutati e certificati, così da fornire ai giovani, oltre alla conoscenza di base, competenze spendibili sul mercato del lavoro.

In particolare, si potrebbe introdurre un apprendistato universitario sul modello tedesco o austriaco, due paesi in cui la disoccupazione giovanile è molto contenuta. Un decreto ministeriale dovrebbe autorizzare gli atenei a stringere degli accordi con le associazioni di categoria e i sindacati presenti sul territorio o direttamente con le imprese ivi presenti per istituire un corso di laurea triennale sotto forma di apprendistato. Lo studente lavoratore potrebbe acquisire metà dei crediti del corso in azienda e metà dei crediti in università: sarebbe formalmente impiegato presso l’impresa con un contratto di apprendistato della durata di tre anni, ma l’azienda non avrebbe alcun obbligo ad assumere il giovane alla fine del triennio.

3.2 Sostenere le famiglie

Da tempo la famiglia italiana svolge una faticosa funzione di supplenza, al punto da essere considerata il principale “ammortizzatore sociale” del Paese. La crisi ha reso ancora più fragile la condizione delle famiglie, con effetti negativi anche sulla loro capacità di farsi carico di attività di assistenza sia all’interno delle reti familiari, sia verso l’esterno. Il lavoro di cura grava soprattutto sulle donne, i cui carichi di lavoro complessivi sono significativamente superiori a quelli sostenuti dagli uomini. Va poi notato che, a seguito dell’allungamento della vita media e al calo della natalità, l’Italia va incontro a squilibri crescenti di natura demografica. Inoltre, il problema della non autosufficienza è destinato a divenire ancora più rilevante.

In questo quadro, si segnala l’opportunità di ripensare l’attuale sistema fiscale allo scopo, da una parte, di riequilibrare l’attuale dinamica demografica, tendendo almeno ad eliminare i disincentivi esistenti, di fatto, per i nuclei familiari; dall’altra, di riconsiderare la fiscalità sulle abitazioni (per gli aspetti legati agli interventi di riqualificazione degli edifici e di aumento dell’efficienza energetica si vedano i capitoli successivi). Inoltre, si dovrebbe puntare ad incentivare prestazioni assistenziali non monetarie, avvalendosi delle potenzialità offerte dal Terzo Settore, anche per scongiurare il rischio che, dati i vincoli di finanza pubblica, l’assistenza si concentri verso le situazioni più gravi, riducendo gli interventi più propriamente sociali, di accompagnamento, promozionali, preventivi, ambientali, di comunità.

Il settore dell’assistenza domiciliare, in particolare, rimane un settore non coordinato col sistema integrato dei servizi, con la rete di welfare locale e comunitario, ed è caratterizzato da una scarsa qualificazione e un’alta discontinuità dell’assistenza. In questo ambito andrebbe valutata la possibilità di istituire “buoni-servizio” che i cittadini e le famiglie possono usare per acquistare servizi di welfare all’interno di un mercato regolato, nel quale la funzione pubblica sia quella di garantirne qualità e prezzo.

Al di là di interventi organici nel settore dell’assistenza, non può non essere sottolineata l’urgenza di rifinanziare entro il mese di giugno il meccanismo degli ammortizzatori sociali in deroga per il secondo semestre dell’anno 2013 (circa un miliardo di euro, da valutare in funzione dell’evoluzione della situazione economica). Inoltre, va affrontata la grave questione dei cosiddetti “esodati”, individuando con precisione la platea interessata da questo fenomeno e definendo gli eventuali interventi normativi necessari per evitare il suo ripetersi in futuro ed avviare iniziative per favorire l’attività di tali soggetti in un’ottica di solidarietà intergenerazionale. Infine, va ricordato che a fine marzo è scaduta la moratoria sui mutui delle famiglie in difficoltà, anche se sembra ormai prossimo l’avvio di un nuovo meccanismo che dovrebbe affrontare in modo adeguato tale situazione: a tale proposito, data la situazione congiunturale ancora difficile, è importante assicurare un’adeguata dotazione del fondo di solidarietà da utilizzare a tale scopo.

Definire il nuovo ISEE

È importante definire quanto prima il nuovo Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE), partendo dalla proposta già discussa presso la conferenza Stato-Regioni. Da tale indicatore, infatti, dipende un’ampia serie di benefici e prestazioni sociali erogati sia dalle amministrazioni centrali, sia dalle Regioni e dagli enti locali. L’attuale indicatore presenta una serie di inconvenienti, evidenziati nei lavori preparatori della proposta sopra citata, che determinano iniquità e distorsioni, limitandone la capacità selettiva e, quindi, l’efficacia.

Rendere operativo il casellario dell’assistenza

Il sistema pubblico eroga nel suo complesso oltre 96 miliardi di euro di prestazioni assistenziali, escluse quelle sanitarie. Le prestazioni assistenziali erogate dall’amministrazione centrale o per conto delle amministrazioni territoriali ammontano a 90 miliardi di euro, quelle erogate dal sistema degli enti territoriali ammontano a 6,2 miliardi di euro. Ovviamente, nell’ambito del complesso sistema di lotta alla povertà ed al bisogno, riveste fondamentale importanza la corretta identificazione del perimetro di tale fenomeni attraverso il censimento continuo di tutte le prestazioni assistenziali e la tempestiva imputazione ai relativi beneficiari, anche allo scopo di contrastare fenomeni di indebita percezione di benefici.

Occorre, pertanto, dare avvio immediato ai decreti attuativi del Casellario dell’Assistenza istituito dalla legge 78 del 2010, la cui realizzazione consentirebbe una visione integrata dei soggetti assistiti, delle risorse complessivamente impegnate dalle diverse amministrazioni pubbliche e una migliore integrazione con le iniziative realizzate dal Terzo Settore.

La questione del reddito minimo di inserimento

Da diverse parti è stata avanzata la proposta di introdurre un reddito minimo di inserimento, che leghi il sostegno ad una “condizione di povertà” e all’inserimento lavorativo e sociale (ad esempio, attraverso formazione e tirocini, o altre iniziative previste dalle politiche attive del lavoro), al fine di evitare che una condizione di difficoltà economica temporanea diventi strutturale e si trasformi in esclusione sociale. Tali misure, onerose e quindi difficilmente realizzabili nelle attuali condizioni di bilancio a meno di una decisa redistribuzione delle risorse disponibili, hanno dato buona prova in alcuni paesi europei (ad esempio la Francia). Il Gruppo di lavoro non ha avuto modo di analizzare in dettaglio le diverse proposte; tuttavia, ritiene utile suggerire un approfondimento della questione nell’ambito di un possibile ridisegno delle politiche sociali.

3.3 Rilanciare il ruolo dell’Italia negli scambi internazionali

Facilitare le esportazioni di beni e servizi

A partire dal 2011 la domanda estera ha ripreso, dopo molti anni, il ruolo di principale motore della crescita ed in questo momento è l’unica componente che sta attenuando la profondità della recessione. Per cogliere appieno le opportunità sopra ricordate occorre stimolare le imprese esportatrici a orientarsi verso i mercati più dinamici ed aumentare il numero di imprese esportatrici. Per realizzare questi obiettivi, rispettando le regole UE sugli aiuti di Stato, si propone di ampliare l’offerta di strumenti dedicati grazie ad una migliore struttura del polo creato dall’aggregazione tra SACE, Simest e Cassa Depositi e Prestiti (CDP) sul modello della Ipex-Bank tedesca. Va potenziato il sistema pubblico delle garanzie, superando gli attuali limiti dell’operatività di SACE relativi soprattutto alla disponibilità di capitale, alla concentrazione e tipologia dei rischi: in particolare, si deve favorire lo sviluppo di schemi di garanzie, in linea con i modelli tedesco e francese, che hanno il vantaggio di fornire un accesso diretto alle garanzie pubbliche statali sia per operazioni strategiche per il Paese, sia per il sistema di crediti all’esportazione, pur non avendo un impatto diretto sull’indebitamento pubblico.

Inoltre, si potrebbe prevedere che gli utili della SACE, generati comunque da attività di internazionalizzazione, siano in parte reinvestiti in progetti promozionali (come già fatto per gli utili Simest) e per sviluppare strumenti informativi di supporto per le PMI (questa scelta assume particolare rilievo alla luce di quanto si dirà successivamente).

Un’occasione unica da non perdere: l’EXPO 2015

Nel 2015 l’Italia organizzerà l’Esposizione Universale (EXPO), un’opportunità unica per il Paese intero. Non è ancora diffusa la consapevolezza dell’importanza strategica di questo evento, al quale parteciperanno oltre 130 paesi, con un investimento di circa 1,5 miliardi di euro, quasi totalmente spesi sul territorio italiano. L’Italia deve sfruttare al meglio questa occasione: gli studi più recenti stimano in quasi 5 miliardi di euro la ricaduta in favore del sistema turistico nazionale. Sarà quindi decisivo proporre al mondo tutto il ventaglio delle eccellenze italiane, anche in considerazione del fatto che l’EXPO 2015 è dedicata al tema della nutrizione.

L’EXPO deve divenire un’occasione unificante per il rilancio dell’Italia. A due anni dall’evento è urgente dare un assetto definitivo alla sua governance e configurare i luoghi decisionali speciali per coglierne al meglio le grandi opportunità. Per questo si propone di istituire un “Comitato interministeriale” per assumere le decisioni strategiche ed assicurare il coordinamento fra le varie amministrazioni dello Stato. Presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri, dovrebbero farne parte i ministri rilevanti per materia, i rappresentanti della Regione Lombardia, delle altre regioni e delle istituzioni rilevanti. Una struttura di missione dedicata potrebbe poi essere costituita presso 26

la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Le idee elaborate, le decisioni e i singoli progetti dovrebbero essere resi consultabili in rete, con i relativi stati di avanzamento, seguendo l’esempio dei progetti di coesione territoriale.

Due anni di investimenti orientati all’innovazione nel settore turistico e alla valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico

L’obiettivo da perseguire in occasione dell’EXPO è quello di costruire, nei prossimi due anni, una strategia unificante, culturale ed economica, di promozione internazionale dell’Italia basata sul concetto di qualità della vita, che trova nel paesaggio e nel patrimonio culturale unico al mondo, nell’ambiente e nella creatività i suoi principali componenti. L’attuale capacità di valorizzazione di questa opportunità è ancora limitata: inoltre, se l’Italia non potenziasse le proprie strutture ricettive e culturali, l’impatto turistico legato all’EXPO rischierebbe di divenire un boomerang, mostrando l’immagine di un paese incapace di offrire servizi adeguati ad una clientela internazionale.

Di conseguenza, anche allo scopo di valorizzare nel medio termine le potenzialità turistiche dell’Italia, si propone di definire un piano straordinario di ammodernamento e potenziamento delle strutture ricettive e turistiche, da realizzare nei prossimi due anni attraverso interventi fiscali, creditizi e formativi autorizzati dall’Unione europea e ove possibile, finanziati anche da fondi UE. Per disegnare e realizzare tale piano va valutata la possibilità, per i prossimi due anni, di superare la frammentazione delle competenze in materia turistica tra organismi centrali e locali, derogando alle regole ordinarie. Va poi rivista la politica dei visti turistici, soprattutto nei confronti dei paesi emergenti.

In tale prospettiva, la normativa esistente va rivista allo scopo di favorire le iniziative private (comprese le sponsorizzazioni) per rafforzare la tutela del paesaggio, la valorizzazione del patrimonio storico e la gestione dei servizi culturali. Va poi valutata la possibilità di costituire un fondo straordinario pubblico-privato per i beni culturali, che coinvolga anche fondi UE e risorse provenienti dall’estero (filantropi globali, italiani all’estero, ecc.). Tale fondo dovrebbe, in primis, finanziare un censimento digitale completo del patrimonio culturale, che serva anche a programmare interventi di manutenzione e sostenere corsi di formazione di management culturale rivolti agli amministratori pubblici e privati, organizzati in collaborazione con le università attive in questo campo.

Infine, allo scopo di moltiplicare i luoghi in cui rendere accessibile il patrimonio culturale disponibile, si potrebbero sperimentare forme di prestito oneroso ai privati, ivi comprese le organizzazioni del Terzo Settore, di parte delle opere attualmente chiuse nei magazzini, così da finanziare con il ricavato attività e gestione dei musei esistenti.

3.4 Fare arrivare il credito alle piccole e medie imprese

Da quando, cinque anni fa, è iniziata la crisi le imprese, soprattutto quelle di media, piccola e micro dimensione, hanno avuto ricorrenti, e dal 2012 crescenti, problemi di accesso al credito bancario. La questione è affrontata anche dall’Unione europea attraverso appositi strumenti di cui è importante fruire. Parallelamente, le banche italiane hanno un problema di adeguatezza del capitale rispetto ai crescenti rischi di credito: esse devono, dunque, necessariamente aumentare la loro selettività nella concessione dei prestiti.

Le piccole e medie imprese (PMI) possono contare sullo strumento del Fondo Centrale di Garanzia (FCG), che presta garanzie su crediti bancari a PMI sane (ritenute tali dal Fondo medesimo sulla base di criteri fondati sull’analisi dei loro bilanci) per poco più di metà del totale del prestito. La parte garantita dei crediti delle banche non impegna il loro patrimonio, “liberandolo” per altri crediti. Nel 2012 sono state accolte dal FCG più di 60.000 domande, per un volume complessivo di finanziamenti di 8,2 miliardi. La dotazione del Fondo è stata accresciuta a più riprese, l’ultima volta di 0,4 miliardi annui per il periodo 2012-14; ampliando altresì la platea delle aziende beneficiarie (includendo artigiani e imprese di trasporto). Tuttavia, il ruolo del FCG può ancora rafforzarsi, consentendo di allentare il vincolo del razionamento del credito bancario. A questo punta la proposta che segue.

Aumentare l’operatività del Fondo Centrale di Garanzia per le PMI

Fatta salva una verifica di compatibilità con le regole UE sugli aiuti di Stato, si propone un aumento della dotazione del Fondo di 2 miliardi, che potrebbe consentire maggiori finanziamenti alle PMI per oltre 30 miliardi, senza incidere significativamente sui conti pubblici nel biennio 2013-2014. Lo stanziamento di fondi pubblici a favore del FCG transita nel disavanzo (indebitamento netto) della pubblica amministrazione solo nel momento in cui la garanzia viene effettivamente escussa. Ipotizzando tassi di insolvenza sui prestiti bancari alle imprese vicini a quelli molto elevati registrati nella seconda parte del 2012 (4,0 per cento), dati i tempi necessari alle istruttorie e i ritardi con cui si manifestano le insolvenze, è ragionevole stimare che non vi sarebbero oneri per le finanze pubbliche nel 2013, mentre nel 2014 la spesa potrebbe essere dell’ordine di soli 0,2 miliardi.

L’efficacia dell’intervento potrebbe essere ulteriormente aumentata consentendo al FCG di allentare i criteri di accettabilità delle imprese su cui estendere la propria garanzia, tenendo conto del fatto che, con due gravi recessioni in cinque anni, i benchmark di bilancio che consentono di definire “sana” un’azienda non possono essere più quelli tipici di una fase ciclica espansiva. Peraltro, il FCG andrebbe peraltro dotato del potere di controllare che il beneficio della garanzia sia effettivamente trasferito alle imprese in termini di maggiore credito erogato o di minori tassi di interesse.

4. AGIRE SUI PRESUPPOSTI DI UNO SVILUPPO EQUO E SOSTENIBILE

4.1 Aumentare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche e fornire migliori servizi alle imprese e ai cittadini

Le classifiche internazionali sulla competitività dell’economia italiana segnalano l’inefficienza delle pubbliche amministrazioni e la pesantezza degli oneri burocratici tra i principali fattori che penalizzano il nostro Paese e scoraggiano gli investimenti. Le politiche fin qui seguite hanno incontrato principalmente due ostacoli, legati al fatto che la semplificazione si è dimostrata una “tela di Penelope”, in quanto i pubblici poteri, se da una parte semplificano, dall’altra introducono nuovi oneri burocratici. La “semplificazione”, inoltre, ha riguardato essenzialmente il livello statale, mentre in un sistema istituzionale multilivello l’attività amministrativa tende a concentrarsi nelle Regioni e negli enti locali.

In questa prospettiva, si propongono diversi interventi: completare il pagamento dei debiti commerciali verso le imprese, rafforzare gli obiettivi di riduzione degli oneri, potenziare la disciplina pro-semplificazione per garantirne l’effettiva attuazione, accelerare l’adozione dei costi e dei fabbisogni standard, aumentare la trasparenza delle prestazioni delle singole amministrazioni attraverso la diffusione dei dati sui servizi resi, i loro costi e le pratiche migliori.

Inoltre, si considera necessario intervenire sull’efficienza della giustizia civile, afflitta in Italia dalla lunga durata media dei processi e dall’accumulo di processi pendenti. È un’autentica emergenza, che arreca un pregiudizio gravissimo all’economia, seminando incertezza fra gli operatori economici, scoraggiando gli investitori esteri e minando la reputazione internazionale del Paese.

Le cause della malattia vanno ricercate sia dal lato della domanda di giustizia (litigiosità eccessiva rispetto all’esperienza di altri paesi, anche con sistemi giuridici analoghi al nostro), sia dal lato dell’offerta di servizi di giustizia (procedure, organizzazione degli uffici, incentivi/disincentivi per i giudici). Sono immaginabili molte linee d’azione per tentare di ridurre la litigiosità (come delle forme di conciliazione obbligatoria) e per innalzare l’efficienza produttiva della “macchina giustizia” (come una maggiore comparabilità degli uffici giudiziari, una migliore accessibilità ai dati, un uso più esteso dell’informatica). Su questi temi si sofferma la relazione del Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali.

Va poi notato che, in un sistema così complesso e articolato come quello della pubblica amministrazione italiana, è fondamentale che le decisioni siano basate su dati accurati e che gli effetti di tali decisioni siano misurati in modo standardizzato: si sottolinea, quindi, l’assoluta necessità di migliorare significativamente la qualità delle informazioni amministrative e statistiche riguardanti le pubbliche amministrazioni, soprattutto quelle relative ai diversi livelli istituzionali (centrali e locali), le quali devono essere rese pienamente e tempestivamente disponibili al pubblico. Inoltre, appare necessario consolidare e potenziare le reti ed i sistemi di misurazione e monitoraggio dei diversi fenomeni economici, sociali e ambientali, con una particolare attenzione alla sorveglianza, anche in tempo reale, dell’ambiente fisico, chimico e biologico del territorio. 29

Completare il pagamento dei debiti commerciali verso le imprese

Per molti anni le pubbliche amministrazioni hanno saldato i debiti commerciali dovuti alle imprese con un riprovevole ritardo, fra i maggiori rispetto alla media europea. L’entrata in vigore, a partire dal 1 gennaio 2013, della direttiva UE con il termine vincolante di 30 giorni, impone all’Italia una notevole azione di adeguamento che deve essere guidata dal Governo. In primo luogo, occorre garantire, a livello sia centrale che locale (per esempio, prevedendo l’obbligo di contabilizzare subito tanto in “competenza” che in “cassa” l’ammontare di cui all’accordo commerciale stipulato), la scrupolosa osservanza del termine temporale, pena significative sanzioni per mezzo degli interessi moratori.

In secondo luogo, dopo il decreto legge varato nei giorni scorsi dal Governo, va completato il pagamento, per la parte ancora da versare, del debito pregresso accumulato fino al 31 dicembre 2012. Ciò avrà un’incidenza soprattutto sul debito pubblico (solo i versamenti a fronte di spese pregresse per investimenti aumentano il deficit), ma la Commissione europea, dopo lungo negoziato, ha assicurato che non ne trarrà elementi di valutazione negativa, trattandosi di un pagamento una tantum conseguente alla messa in opera di una direttiva UE. Ci sembra, peraltro, essenziale procedere nei tempi più rapidi possibili per assicurare alle aziende, via il recupero di quanto loro dovuto, un’importante linfa finanziaria, suscettibile di effetti positivi sulla crescita. Infine, è opportuno saldare l’intero debito commerciale pregresso prima del 2015, anno in cui inizia l’obbligo europeo di progressiva riduzione del debito pubblico.

“Opzione zero” per i regimi autorizzatori non necessari

La piena attuazione delle disposizioni sulla misurazione e sulla riduzione degli oneri amministrativi (Moa) consentirebbe di ridurre sensibilmente i regimi autorizzatori e i connessi oneri burocratici. Tuttavia, la regola in base alla quale è necessario eliminare un numero di oneri pari a quelli che si ritiene di dover introdurre muove implicitamente dal presupposto che l’attuale livello di oneri amministrativi sia soddisfacente. Al contrario, esso andrebbe drasticamente ridotto, perseguendo prioritariamente l’integrale eliminazione dei vincoli e delle restrizioni. Solo dove questa semplificazione non sia possibile per evidenti ragioni di pubblico interesse, i vincoli all’iniziativa economica andrebbero mantenuti, ma limitatamente a quanto strettamente necessario per il perseguimento di tali ragioni, assicurando il rispetto del principio di proporzionalità. Di conseguenza, occorre varare un provvedimento che obblighi le amministrazioni a dichiarare, in tempi certi, gli atti per i quali si intende procedere a una drastica semplificazione, prevedendo un monitoraggio trimestrale on-line sulle effettive realizzazioni, i cui dati siano accessibili al pubblico.

Assicurare la semplificazione, sfoltire i livelli decisionali e rafforzare i poteri sostitutivi

Il quadro legislativo va completato attraverso l’introduzione di incentivi e sanzioni che assicurino l’attuazione delle politiche di semplificazione a livello statale, regionale e locale. Dopo aver determinato quali attività restano subordinate a forme di assenso, autorizzazione o comunque a permessi delle pubbliche amministrazioni, va evitato che l’inerzia amministrativa sia un vero ostacolo all’avvio di attività economiche, grandi e piccole.

Negli ultimi tempi, la legislazione ha fatto riferimento a istituti che, in diversa misura, equiparano il silenzio della pubblica amministrazione al permesso di avviare l’attività, fatta salva la possibilità di un controllo successivo. Tale sistema incontra però due limiti: il primo è che, soprattutto quando si tratta di investimenti importanti, non basta il silenzio, perché chi investe vuole la sicurezza di una decisione favorevole espressa; il secondo è che questo genere di istituti (come la SCIA) hanno un ambito di applicazione incerto.

Queste incertezze vanno eliminate. Soprattutto, occorre introdurre meccanismi che disincentivino e sanzionino i ritardi e consentano a imprese e cittadini di conoscere preventivamente quali siano i tempi dell’azione amministrativa. Di conseguenza, si propone di introdurre una norma che preveda un indennizzo forfetario e automatico per i ritardi delle pubbliche amministrazioni, la quale coesisterebbe con la possibilità di far valere il danno da ritardo davanti al giudice; tale strumento andrebbe generalizzato a tutti i livelli amministrativi e a tutte le modalità di azione.

D’altra parte, occorre evitare che il pluralismo istituzionale si trasformi da ricchezza in ostacolo. Quindi, si ritiene indispensabile riordinare, eventualmente sopprimendo o accorpando, i troppi enti che affollano il sistema amministrativo (come le Province, le Comunità montane, i consorzi di enti locali), al fine di rendere più efficiente il processo decisionale amministrativo e di assicurare una dimensione territoriale migliore allo svolgimento ottimale delle funzioni loro assegnate.

La sussidiarietà è un criterio elastico di ripartizione dei compiti tra i vari livelli amministrativi e va presa seriamente: se una funzione viene esercitata in modo inadeguato e inefficiente da parte dell’amministrazione che ne è titolare, essa deve essere attratta a un livello territoriale superiore. Perciò, se l’amministrazione competente a decidere non lo fa nei tempi stabiliti, deve essere sostituita da un’altra di livello superiore. Occorre, pertanto, rivedere la disciplina legislativa dei poteri sostitutivi e, in linea di massima, con riguardo ai procedimenti e alle attività amministrative più importanti, prevedere espressamente chi e come interviene, in chiave sostitutiva, in caso di inerzia. La sostituzione dovrebbe operare sia tra uffici di livello diverso della medesima amministrazione, sia nel rapporto tra diversi soggetti istituzionali (Comuni, Regioni, Stato). I meccanismi prospettati – sui tempi certi di decisione e sull’uso dei poteri sostitutivi – andrebbero applicati anche quando si ricorra alla conferenza di servizi che, da strumento di semplificazione, in tanti casi si è trasformata in una negoziazione senza fine.

Pronta adozione dei costi/fabbisogni standard

Per innalzare l’efficienza nell’uso delle risorse pubbliche occorre intervenire anche sulla finanza decentrata, concludendo in tempi rapidi il processo di attuazione della riforma del 2009 sul federalismo fiscale. Dal punto di vista degli incentivi ex ante, il sistema di finanziamento degli enti territoriali va conformato in modo tale che ciascun ente riceva risorse commisurate al costo delle proprie funzioni, valutato in base a parametri oggettivi (costi standard), piuttosto che alle spese pregresse. L’individuazione dei costi standard può innescare comportamenti di bilancio virtuosi permettendo agli amministratori locali, di confrontarsi con le pratiche gestionali migliori (benchmarking), ai cittadini di valutare le condizioni locali di erogazione dei servizi pubblici.

La logica del costo/fabbisogno standard rappresenta il cardine della riforma delineata dalla legge delega del maggio del 2009. Tuttavia, a distanza di quattro anni, questo importante tassello non è ancora attuato. Occorre concludere rapidamente la fase di determinazione dei costi/fabbisogni standard, che devono divenire quanto prima l’unico criterio di riferimento per la perequazione e per la revisione della spesa degli enti territoriali.

A tal fine, condizione prioritaria è che si proceda finalmente all’identificazione, per tutte le funzioni fondamentali degli enti, dei livelli di prestazione e di assistenza ritenuti essenziali sull’intero territorio nazionale. Sotto il profilo metodologico, la scelta di stimare la funzione di costo sottostante ciascuno dei servizi fondamentali degli enti locali ha notevolmente complicato il calcolo dei fabbisogni standard, poiché richiede una mole di informazioni che devono essere disponibili con cadenza annuale e che, per loro natura, sono difficilmente verificabili; inoltre, espone al rischio di frequenti modifiche alla lista delle funzioni fondamentali1. Si potrebbe, invece, dare più spazio a dati di spesa, opportunamente standardizzati, o procedere per aggregazioni di funzioni: la perdita di accuratezza sarebbe bilanciata dalla disponibilità di un set di indicatori tempestivamente disponibili e di semplice interpretazione.

1 La legge 42 del 2009 considerava l’80 per cento delle spese degli Enti locali attinenti a funzioni fondamentali, rinviando ad apposite norme legislative (il cosiddetto “Codice delle autonomie”) l’individuazione di una lista puntuale. In assenza del “Codice delle autonomie”, il decreto legislativo 216 del 2010 ha fornito un elenco provvisorio delle funzioni fondamentali di Province e Comuni, sulla cui base è stata avviata la procedura per la determinazione dei costi e fabbisogni standard degli enti, articolata in sei categorie. Tale elenco è stato poi modificato dalla legge 135 dell’agosto 2012 sulla spending review.

Contestualmente all’adozione dei costi standard, occorre rafforzare anche il sistema di incentivi ex post alla responsabilità finanziaria degli enti, in modo da evitare che il costo di comportamenti poco prudenti si scarichi sull’intera collettività. A tal fine è importante che si semplifichino e vengano resi pienamente operativi i meccanismi di verifica e di sanzione dei comportamenti di bilancio degli amministratori locali.

Peraltro, come detto nel primo capitolo, alla luce dell’entrata a regime della modifica costituzionale sul vincolo di bilancio strutturale vanno riviste le modalità attraverso cui opera il cosiddetto “Patto di stabilità interno”, utilizzato nel passato unicamente come forma di compartecipazione di Regioni ed enti locali allo sforzo di raggiungimento degli obiettivi europei.

Una pubblica amministrazione strumento di innovazione e crescita: misurare, valutare, promuovere e condividere le migliori pratiche

Non è sufficiente impedire che le pubbliche amministrazioni siano un ostacolo all’attività economica. Esse devono trasformarsi in un elemento di competitività del sistema e in un supporto per i cittadini. Le amministrazioni pubbliche devono trasformarsi da ostacolo a stimolo alla crescita.

E’ quindi essenziale che l’azione e l’organizzazione amministrativa si basino sulla cultura del risultato, attuando un modello legislativo che già è stato tracciato. Occorre procedere al più presto alla determinazione di standard di efficienza e di costo comuni a gruppi omogenei di pubbliche amministrazioni, in modo tale da rendere possibile la comparazione delle prestazioni, effettuata da soggetti terzi e indipendenti. Si propone, quindi, di velocizzare lo sviluppo di tali standard e di mettere a disposizione del pubblico, sul portale recentemente sviluppato dall’Istat e dal Cnel, tutte queste informazioni, prevedendo sanzioni automatiche, anche finanziarie, per le amministrazioni che ostacolano la diffusione e la comparazione dei dati.

L’obiettivo è quello di creare una competizione virtuosa, anche grazie all’uso del web, tra pubbliche amministrazioni, specialmente quelle che erogano servizi ai cittadini, come le strutture sanitarie, la scuola e l’università. A tal fine è necessario attuare quanto già previsto dalle norme che prevedevano la valorizzazione del merito attraverso il salario accessorio. Purtroppo, il blocco agli stipendi ha impedito al meccanismo premiale di realizzare i propri effetti. Inoltre, dal punto di vista del cittadino, è più importante valorizzare l’amministrazione virtuosa che il singolo dipendente meno efficace.

Perciò, si propone di costituire il fondo previsto dalla normativa per le amministrazioni dalle prestazioni migliori sulla base di parametri comparabili, il quale non dovrebbe essere soggetto al blocco degli stipendi pubblici. In questo modo, si può stimolare una sana competizione tra amministrazioni pubbliche e valorizzare le tante risorse eccellenti che in esse operano, troppe volte penalizzate di fronte all’opinione pubblica sulla base di stereotipi o di casi di cattiva amministrazione.

Per raggiungere i menzionati obiettivi è necessaria la diffusione delle tecnologie digitali. Esse riducono i costi, favoriscono la semplificazione e, facendo dell’amministrazione una “casa di vetro”, agevolano il controllo e la partecipazione dei cittadini. Pertanto, va data sollecita attuazione all’Agenda digitale nelle pubbliche amministrazioni secondo quanto previsto alla fine della scorsa legislatura dal d.l. 179/2012 convertito nella legge 221/2012.

Il blocco al turn-over e l’aumento dell’età del pensionamento determinerà nei prossimi anni un forte invecchiamento dell’età media dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, la cui età media (50 anni) è già la più alta dei paesi OCSE: di conseguenza, si deve essere consci che conseguire gli obiettivi sopra indicati è estremamente difficile, soprattutto in quelle amministrazioni in cui la ricerca e l’innovazione tecnologica sono il core business. Peraltro, il taglio delle spese per la formazione del personale limita la possibilità di riqualificare il capitale umano disponibile e di innovare appieno l’organizzazione sfruttando le nuove tecnologie.

Rivedere la struttura dei livelli retributivi delle figure apicali e dirigenziali delle amministrazioni pubbliche

Attualmente è previsto un limite superiore per le retribuzioni delle figure apicali delle amministrazioni pubbliche, parametrato sulla retribuzione del primo Presidente della Corte di Cassazione. E’ però necessario rafforzare il monitoraggio sull’effettiva attuazione della norma con riferimento alle figure apicali, sub-apicali e dirigenziali delle amministrazioni centrali, e riparametrare le retribuzioni al ruolo delle diverse istituzioni e al livello dell’incarico ricoperto, superando i limiti della normativa esistente già messi in luce dal rapporto della Commissione governativa per il livellamento retributivo Italia-Europa. Il medesimo approccio (incluso il monitoraggio) va esteso alle amministrazioni regionali e locali.

Rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo

L’Italia ha aderito alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed è sottoposta alla giurisdizione dell’apposita Corte da essa istituita. Il numero delle condanne subite dall’Italia è tra i più alti fra i membri della Convenzione e comporta ingenti sanzioni economiche, pari a 120 milioni di euro nel 2012. Si attira, quindi, l’attenzione del futuro Governo su questo contenzioso, foriero di conseguenze rilevanti per il Paese e in grado di incidere sulla sua immagine. Inoltre, poiché attualmente il coordinamento della difesa dello Stato di fronte alla citata Corte è competenza di più uffici di amministrazioni diverse, va valutata l’opportunità di concentrarlo presso un unico ufficio che si suggerisce sia inquadrato nel Ministero della Giustizia e operi in collegamento con l’Avvocatura Generale della Stato.

Concordato preventivo fallimentare

Il cosiddetto “concordato preventivo con effetti anticipatori” (o “in bianco”) prevede un coinvolgimento formale dei creditori al momento dell’approvazione del piano di ristrutturazione dei debiti, ma non nella fase precedente, dal momento dalla presentazione del ricorso in bianco (senza cioè che sia già stato presentato un piano) a quello della sua omologazione. Durante questa fase i debitori beneficiano della sospensione delle azioni esecutive senza possibilità di intervento da parte dei creditori. A tutela di questi ultimi vi è il fatto che i tempi sono contenuti (il piano deve essere presentato entro 60-120 giorni, estendibili di altri 60, mentre il giudice deve omologare il piano di ristrutturazione entro 6 mesi dalla presentazione del ricorso) e che sono previste sanzioni per chi presenta il ricorso ma non il piano di ristrutturazione. Tuttavia, al fine di evitare abusi in questa difficile fase recessiva e di non escludere eventuali soluzioni più tempestive alla crisi d’impresa che possano emergere con l’ausilio degli stessi creditori, si può prevedere che il giudice disponga l’audizione dei maggiori creditori già al momento della presentazione del ricorso.

4.2 Migliorare il sistema tributario

Come già notato nel secondo capitolo, il livello della pressione fiscale ha raggiunto, in Italia, livelli molto elevati: aliquote fiscali e contributive così alte, a fronte di un livello di servizi pubblici non sempre adeguato, sono un ostacolo alla crescita economica. Inoltre, la distribuzione del carico fiscale effettivo tra i diversi operatori economici risente dell’ampiezza del fenomeno dell’evasione, la quale genera, oltre ai ben noti effetti negativi sull’equità, inefficienze nel sistema economico, intralciando lo sviluppo. Inoltre, il carico fiscale sui fattori della produzione è particolarmente alto, mentre viene ampiamente riconosciuta la necessità, soprattutto alla luce della globalizzazione e della libertà di movimento dei capitali finanziari, di riequilibrare la tassazione, riducendo il carico che grava sui redditi da lavoro e d’impresa. Infine, il sistema fiscale dovrebbe anche tenere conto 34

dell’impatto ambientale delle attività produttive, così da penalizzare consumi e produzioni dannosi per l’ambiente ed incentivare attività favorevoli a quest’ultimo.

Se quelle appena ricordate appaiono posizioni sostenibili indipendentemente dalla fase ciclica attraversata dall’economia, nell’attuale recessione da più parti è stata anche sottolineata la necessità di intervenire modificando radicalmente la struttura di talune imposte o operando ampi interventi redistributivi, a parità di gettito, tra diverse tipologie di imposte. In particolare, dopo l’introduzione dell’Imposta Municipale Unica (IMU) è stato proposto di rimodulare quest’ultima, rendendo esente la prima casa (con esclusione di quelle di lusso) o definendo uno schema fortemente progressivo.

Ovviamente, esiste un numero infinito di combinazioni possibili di variazioni alle singole imposte, tutte potenzialmente efficienti, quanto differenti riguardo ad effetti redistributivi e di politica economica, tanto nel breve che nel lungo periodo. E’ evidente che il Gruppo di lavoro non ha titolo per operare scelte che possono essere fatte soltanto dal futuro Governo, una volta scelti in modo chiaro gli obiettivi di politica economica e sociale da perseguire. Per questo, il Gruppo non ha espresso preferenze su una particolare combinazione del carico fiscale tra diversi strumenti: purtuttavia, si è deciso di sottolineare, a titolo di esempio, alcuni ambiti sui quali sarebbe possibile intervenire per migliorare rapidamente il funzionamento di questa componente fondamentale dell’amministrazione pubblica, la quale incide fortemente sul rapporto tra Stato e cittadini.

Approvare il disegno di legge sulla “delega fiscale”

Nella scorsa legislatura il Parlamento aveva ampiamente dibattuto il disegno di legge-delega per il riordino del sistema tributario. Esso prevedeva riforme importanti e attese da tempo, come quella del Catasto e del diritto penale tributario, interventi volti alla semplificazione, al miglioramento della riscossione, al potenziamento degli strumenti contro l’evasione, al ridisegno e alla semplificazione del sistema delle cosiddette “spese fiscali” e dell’istituto dell’interpello, cercando anche di fare chiarezza su argomenti rilevanti come quello dell’abuso del diritto in materia di elusione fiscale. Il disegno di legge delega avrebbe consentito di realizzare alcune azioni suggerite dalle istituzioni internazionali e di migliorare il rapporto tra contribuente e amministrazione fiscale. In particolare, avrebbe permesso di realizzare per la prima volta in maniera sistematica un calcolo ufficiale del cosiddetto tax gap, cioè dei diversi tributi non pagati a causa dell’evasione, strumento indispensabile per rendere possibile l’utilizzo dei proventi della lotta all’evasione per la riduzione delle aliquote legali.

Si raccomanda, quindi, di riprendere quanto prima la discussione del testo esistente per finalizzarlo secondo gli orientamenti che l’attuale Parlamento esprimerà. A tale proposito si sottolinea la necessità di operare scelte che vadano nella direzione di una maggiore equità nella distribuzione del carico fiscale. A valle dell’approvazione della delega fiscale e dei relativi provvedimenti, sarà poi necessario un nuovo Testo Unico delle Imposte sul Reddito (TUIR), così da ridurre la confusione esistente sulle normative che si sono andate affastellando negli anni.

Migliorare il rapporto tra il fisco e il cittadino

Il patto fiscale tra il cittadino e lo Stato richiede, da una parte, il pieno e corretto adempimento degli obblighi tributari e, dall’altra, un’amministrazione che adotti comportamenti proporzionati al singolo contribuente, non vessatori, bensì collaborativi. Seguendo il modello tedesco, ad esempio, sarebbe possibile pervenire a un “fisco amico” che, ove occorra, assista il contribuente negli adempimenti fiscali e non si limiti a perseguitarlo, instaurando così una costante interazione.

L’attività svolta da Equitalia ha impresso un cambiamento rispetto a quella delle amministrazioni precedentemente incaricate di effettuare la riscossione dei tributi, con risultati importanti in termini di gettito. Tuttavia, l’esperienza dimostra come sia necessario modificare alcune delle procedure utilizzate, al fine di creare un rapporto di fiducia reciproca con il cittadino. In particolare, si segnalano le seguenti direttrici di intervento:

– qualunque attività di verifica, in qualsiasi forma condotta, deve necessariamente concludersi, a pena di nullità, con la redazione di un processo verbale notificato al contribuente. Quest’ultimo, entro 60 giorni, può formulare le proprie deduzioni e produrre documentazione della quale l’Agenzia delle entrate è obbligata a tenere conto in sede di emissione dell’avviso di accertamento;

– la conciliazione giudiziaria va estesa anche al secondo grado di giudizio, al fine di alleggerire la pressione del contenzioso fiscale sulla Corte di Cassazione;

– deve essere prevista la non iscrivibilità sull’abitazione principale di ipoteca da parte dell’Agente della riscossione, mentre va considerata con attenzione la sua eventuale impignorabilità;

a) possibilità di sanzionare le amministrazioni che commettono errori sistematici, attivando indebitamente l’azione di Equitalia;

b) rivedere l’istituto dell’interpello, in modo da garantire la collaborazione dell’amministrazione alla soluzione imparziale delle questioni proposte dai cittadini.

 

Per riportare alla normalità il rapporto tra fisco e contribuente è inoltre necessario ridurre drasticamente il contenzioso tributario. A tale proposito si segnala la proposta volta a permettere ai contribuenti di portare in mediazione tributaria anche le potenziali controversie di valore superiore a 20.000: ad esempio, elevare il limite a 50.000 euro potrebbe aumentare significativamente la quota delle potenziali liti avviate a mediazione.

Evasione: minaccia all’equità sociale e alla crescita economica

Come già notato, l’evasione fiscale non rappresenta soltanto un danno per la collettività in termini di scarsa equità sociale, ma anche un elemento che riduce l’efficienza del sistema economico e quindi le potenzialità di crescita. Inoltre, l’evasione distorce i meccanismi concorrenziali, alimentando comportamenti collusivi che influenzano l’immagine internazionale del paese.

Molte proposte sono state elaborate e attuate negli ultimi anni per migliorare la lotta all’evasione tributaria e contributiva, con risultati positivi in termini di gettito. Altre vanno ancora messe in pratica. Rinviando al Rapporto elaborato nel maggio del 2011 dallo specifico Gruppo di lavoro costituto presso il Ministero dell’economia e delle finanze, si ritiene opportuno segnalare le seguenti azioni da quest’ultimo suggerite:

– potenziare l’efficacia dei controlli sui contribuenti attraverso: a) l’accelerazione del processo di messa in comune delle informazioni sul sistema delle imprese e dei risultati delle azioni di controllo tra le diverse amministrazioni coinvolte (Inail, Agenzia delle entrate, Ministero del lavoro, ecc.); b) l’uso appropriato di metodologie di tipo statistico-induttivo per migliorare i meccanismi di selezione dei comportamenti anomali per PMI e lavoro autonomo, così da aumentare l’efficacia delle ispezioni e degli accertamenti; c) la compartecipazione degli enti locali all’attività di accertamento;

– procedere alla revisione e all’ulteriore affinamento degli studi di settore e di altri strumenti previsti dalla normativa, prevedendo: a) la possibilità di aggiornamenti annuali, sia per tenere conto di mutamenti nel ciclo economico e di andamenti congiunturali particolarmente marcati, sia per evitare comportamenti opportunistici da parte dei contribuenti; b) il possibile cambiamento delle variabili di riferimento (valore aggiunto invece dei ricavi/compensi); c) ulteriori miglioramenti nelle metodologie di stima e, per le attività non soggette a studi di settore, sostituzione dei parametri con una metodologia di stima più evoluta e aggiornata;

– sviluppare il tutoraggio preventivo per le imprese medio-grandi, così da attivare un contraddittorio tra contribuente e Agenzia delle entrate sulla base della proposta d’imposta. Andrebbe poi valutata la possibilità di prevedere che le imprese si sottopongano volontariamente a controlli fiscali da parte dell’amministrazione, in cambio di condizioni più favorevoli su altri aspetti del rapporto con lo Stato.

 

4.3 Migliorare la legislazione, consolidare la certezza del diritto

Secondo un convincimento pressoché unanime, un forte ostacolo alla competitività del Paese è costituito da carenze nella certezza del diritto. Il “diritto inconoscibile” impedisce il calcolo economico, pregiudica le aspettative e, quindi, blocca o ostacola gli investimenti e la loro convenienza. Inoltre, trasforma il cittadino in suddito, perché la garanzia prima dei diritti risiede nella possibilità di riferirsi una regola chiara e nel diritto di ottenere, nel caso di una sua violazione, una decisione rapida da parte del giudice, che assicuri l’effettività della tutela.

Si tratta di un fenomeno complesso, in cui si intrecciano molteplici fattori, non tutti riconducibili alla capacità di azione dei poteri nazionali. Alcune cause del fenomeno, però, potrebbero essere arginate con interventi immediati e neppure troppo difficili da realizzare.

Emanare gli atti normativi secondari in tempi certi

Vi è, in primo luogo, l’eterogeneità dei testi legislativi, in cui confluisce la disciplina delle materie più disparate. In questo modo si crea una legislazione confusa, episodica, stratificata, asistematica.

L’omogeneità delle leggi costituisce, invero, un dovere costituzionale. Come assicurarla, è spiegato nella relazione del Gruppo che si occupa delle riforme istituzionali.

In secondo luogo, ritardi sono dovuti all’uso di una tecnica normativa “a cascata”: la legge rinvia ad altri atti normativi secondari, con la conseguenza che, fino a che essi non vengono adottati, la disciplina è incompleta, incerta, talora inefficace2. Il fenomeno deriva innanzitutto dalle difficoltà di ricomporre il conflitto in sede politica – con la conseguenza che la sua più precisa ricomposizione viene affidata all’amministrazione – ma anche dalla complessità tecnica della materia, che necessariamente richiede l’intervento delle amministrazioni competenti.

2 Secondo un recentissimo rapporto del Governo, i provvedimenti legislativi adottati durante il Governo Monti ammontano complessivamente a 69, i quali rinviano a 832 atti di secondo livello da emanare da parte delle amministrazioni centrali. Circa un terzo delle norme in essi contenuti rinvia a successivi atti normativi (regolamenti, Dpcm, Dpr): di questi, circa 319 verranno lasciati in eredità al prossimo Governo, secondo una tendenza che non è certamente nuova. Lo stesso Governo Monti ha dovuto adottare almeno 254 provvedimenti attuativi di normazione primaria approvati dai precedenti Governi.

Il problema è che questi atti devono essere adottati, possibilmente, in tempi certi. Per favorire il raggiungimento di questo obiettivo si propone:

– un monitoraggio effettivo da parte del Parlamento, secondo scadenze prefissate, dello stato di attuazione delle leggi, per far valere la responsabilità del Governo e delle singole amministrazioni;

– la necessaria consultazione dei soggetti coinvolti (i destinatari delle norme e gli stakeholders) nella fase di elaborazione degli atti di normazione secondaria;

– la completa pubblicità on-line dell’iter di approvazione degli atti normativi secondari e delle eventuali cause di blocco, con l’obbligo di rendere note le ragioni che rallentano o impediscono l’adozione degli atti nei termini stabiliti, in modo da favorire il controllo diffuso e le sanzioni reputazionali (secondo il principio del cosiddetto “name and shame”);

– il collegamento del rispetto dei termini per la loro adozione ai premi alle amministrazioni e al premio di risultato ai dirigenti.

 

Inoltre, sempre più spesso le norme di legge, invece di rinviare la loro attuazione ad un “regolamento”, che ha un regime giuridico sufficientemente preciso, rinviano a figure di incerta definizione come i “decreti ministeriali non regolamentari”, semplicemente allo scopo di evitare le lungaggini dell’iter di approvazione dei regolamenti. Per riportare tale processo alla normalità è urgente snellire drasticamente l’iter di adozione dei regolamenti, evitando, tra l’altro, la pronuncia sul testo sia del Consiglio di Stato che della Corte dei conti.

Realizzare un’effettiva valutazione delle politiche

L’Analisi di impatto della regolazione (AIR), introdotta nel sistema italiano – sulla base delle indicazioni dell’Unione europea relative alla Better regulation – già nel 1999, e rafforzata tra il 2001 ed il 2011, è ancora scarsamente utilizzata. Questo impedisce che il processo normativo sia 38

sviluppato attraverso una seria valutazione ex ante ed ex post degli effetti di quest’ultima. Si propone, quindi, di rafforzare l’obbligo di tali valutazioni, sia per i testi approvati dal Parlamento, sia per quelli approvati dalle Regioni.

Ogni nuova normativa, soprattutto quelle “di sistema”, dovrebbe prevedere precisi obblighi di monitoraggio e valutazione a scadenze prefissate, analogamente a quanto fatto nel caso della recente riforma del mercato del lavoro. Inoltre, è indispensabile che Governo e Parlamento si avvalgano in modo sistematico e strutturato, prima dell’approvazione di nuove norme, dell’apporto conoscitivo delle amministrazioni dotate di competenza tecnica e di indipendenza (Istat, Banca d’Italia, Autorità indipendenti, ecc.) nella valutazione d’impatto delle politiche: l’esito di tali valutazioni dovrebbe avere ampia diffusione presso l’opinione pubblica. A tale proposito, si segnala anche la necessità di procedere con la massima rapidità alla costituzione dell’Organismo indipendente previsto dalla legge rafforzata di attuazione del principio del pareggio del bilancio in Costituzione.

4.4 Potenziare l’istruzione e il capitale umano

Tutte le analisi condotte sul tema della crescita economica indicano nella disponibilità di un capitale umano di qualità uno degli ingredienti fondamentali per sfruttare appieno le nuove tecnologie, per favorire l’innovazione e l’aumento della produttività. Di conseguenza, migliorare le performance dei sistemi di istruzione e formazione è fondamentale per assicurare nel medio termine una crescita economica in grado di riassorbire la disoccupazione e la sottoccupazione di cui è afflitto il nostro Paese. D’altra parte, la formazione si interseca strettamente con ricerca, innovazione e sviluppo: di conseguenza, la sua efficienza dipende dalla rapida connessione di tutti questi elementi e, dunque, dalla capacità del nostro Paese di rendere quanto più “corta” possibile questa filiera.

Secondo le classifiche internazionali sull’argomento, l’Italia presenta un forte deficit in termini di qualità del capitale umano rispetto ai principali paesi europei. Esso riguarda sia le competenze maturate dai giovani al termine della scuola dell’obbligo, sia la quota di laureati sulla popolazione. Inoltre, la formazione svolta dalle imprese è significativamente inferiore a quella tipica degli altri paesi europei.

Non è questa la sede per valutare nel dettaglio ipotesi di intervento sui sistemi educativi. Ciononostante, si ritiene che sia possibile adottare nel breve termine misure in grado di alleviare alcune situazioni particolarmente gravi o di influire, al contempo, sulla sostenibilità a lungo termine di un’area particolarmente rilevante per la pubblica amministrazione come la sanità.

Contrastare l’abbandono scolastico

In Italia l’abbandono precoce della scuola è assai più diffuso che nel resto d’Europa: nel 2011 il 18,2 per cento dei giovani non ha completato il percorso di studi secondario, contro una media europea del 13,5 per cento: tra gli stranieri la percentuale è vicina al 45 per cento. L’identikit degli studenti a rischio di dispersione è chiaramente delineato: si tratta di maschi, tipicamente immigrati di prima generazione, provenienti da un background socio-economico e culturale svantaggiato e che hanno già perso almeno un anno nel corso del primo ciclo (elementari e medie). Se non invertita, questa tendenza farà sì che, nella migliore delle ipotesi, la futura forza lavoro non avrà le competenze minime richieste da processi produttivi in rapida evoluzione; nella peggiore, genererà emarginazione e rischi per la sicurezza in numerose aree, specialmente nelle grandi città.

Va definito urgentemente un programma speciale per la riduzione dell’abbandono scolastico, specialmente nelle aree territoriali a rischio criminalità, rafforzando l’Azione “Contrasto alla dispersione scolastica” prevista nel Piano d’Azione Coesione. Tale programma dovrebbe valorizzare le esperienze di successo, evitando misure universalistiche e concentrandosi su interventi tempestivi e mirati nei confronti dei soggetti più vulnerabili. Ad esempio, le analisi disponibili indicano come il miglior strumento di contrasto all’abbandono sia il prolungamento della scuola al pomeriggio negli anni del primo ciclo, mentre oggigiorno il tempo pieno alle elementari è diffuso solo in alcune regioni (non a caso, quelle in cui la dispersione è minore) ed è di fatto inesistente nelle scuole medie.

Le attività scolastiche nel pomeriggio non dovrebbero però essere una mera replica delle lezioni frontali della mattina. L’estensione del tempo scolastico consentirebbe, infatti, di scomporre i gruppi classe, lavorando su piccoli numeri, sperimentando metodologie didattiche innovative (ad esempio, apprendimenti cooperativi e attività sociali) e individuando percorsi specifici per i ragazzi maggiormente a rischio. Per questi ultimi, l’insegnamento individualizzato dovrebbe riguardare in modo prioritario il rafforzamento delle competenze di base: comprensione dei testi, competenze logico-matematiche e applicazione del metodo scientifico. Inoltre, gli istituti scolastici dovrebbero dotarsi di strumenti di misurazione, a cadenza regolare, dei progressi compiuti dagli studenti a rischio di dispersione.

Promuovere il merito, aumentare le opportunità

La mobilità sociale si è drasticamente ridotta, al punto che le generazioni nate negli anni ’80 hanno molte meno opportunità di evolvere nella scala sociale rispetto alle generazioni precedenti. La condizione della famiglia di origine condiziona pesantemente l’esito scolastico e i percorsi di vita. Si iscrive all’università solo il 14 per cento dei figli di operai, a fronte di un valore pari al 59 per cento per i figli della borghesia. Parallelamente, i finanziamenti per il “diritto allo studio” sono stati drasticamente ridotti negli ultimi anni.

Questa tendenza va immediatamente invertita. Si suggerisce, quindi, che la Conferenza Stato-Regioni vari, quanto prima, il decreto sulla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e dei requisiti di eleggibilità per il diritto allo studio universitario. Inoltre, il Fondo Integrativo Statale delle borse di studio, recentemente ridotto a livelli minimi, va aumentato in modo consistente, anche per sottolineare che lo Stato intende offrire reali opportunità verso gli studenti meritevoli provenienti da famiglie meno abbienti. Per questo, tale Fondo deve essere portato a 250 milioni di euro annui, il che corrisponde ad un raddoppio della posta dedicata a questa materia prima dei drastici tagli operati per il biennio 2013-2014.

Investire in istruzione per migliorare la salute e ridurre i costi del sistema sanitario

La speranza di vita è cresciuta molto, portando il nostro Paese a divenire uno dei più longevi al mondo. D’altra parte, una quota crescente della popolazione anziana, soprattutto donne, vive numerosi anni in cattiva salute. Parallelamente, sta aumentando l’incidenza di comportamenti (obesità, sedentarietà, abuso di alcool, fumo, ecc.) che mettono a rischio la salute delle presenti generazioni (soprattutto quelle giovanili – oltre il 35 per cento dei bambini è sovrappeso) e generano elevati costi sul sistema sanitario nazionale (il Ministero della Salute stima in 28.000 i decessi prematuri all’anno imputabili esclusivamente all’inattività fisica).

L’istruzione gioca un ruolo fondamentale nel determinare il rischio di mortalità: nella popolazione fra i 25 e i 64 anni le donne con livello di istruzione più basso hanno un rischio di mortalità circa doppio rispetto alle donne della stessa età con titolo di studio più elevato, mentre tra gli uomini meno istruiti il rischio è dell’80 per cento più elevato rispetto ai più istruiti. Di conseguenza, dedicare risorse all’insegnamento di stili di vita salutari è un investimento sul futuro, oltre che uno strumento per migliorare la qualità della vita odierna.

Per questo si propone di avviare iniziative di prevenzione quali, ad esempio:

– Il potenziamento delle iniziative finalizzate ad insegnare stili di vita salutari nelle scuole e nelle università, promuovendo, sul modello americano, l’eliminazione dai distributori automatici collocati nelle scuole di cibo e bevande ad alto contenuto calorico;

– l’introduzione di un sistema di certificazione per iniziative realizzate all’interno delle aziende volte alla salute dei dipendenti, da realizzare secondo le linee guida disponibili a livello internazionale;

– la sensibilizzazione dei medici di base al fine di prescrivere esercizio fisico ai pazienti, con eventuale deduzione fiscale delle spese per l’esercizio svolto su prescrizione medica o per l’acquisto di strumenti per l’esercizio fisico.

 

La scuola digitale e la cultura dei dati

Il cambiamento della scuola passa anche attraverso la capacità di sfruttare quello che le nuove tecnologie offrono, soprattutto per la costruzione degli ambienti di apprendimento. Per far questo è indispensabile il miglioramento dell’infrastruttura di rete delle scuole, attualmente dimensionata per la gestione amministrativa, anche in vista dell’adozione dei libri digitali, prevista progressivamente dal 2014, la quale stimolerà una forte domanda di formazione e di innovazione attraverso i linguaggi digitali.

Inoltre, con il miglioramento dell’accesso ai dati va sviluppata una nuova cultura della decisione basata sui dati, che superi le barriere disciplinari e apra la strada agli approcci sistemici e quantitativi che sono ora possibili e necessari. Ogni cittadino può oggi contribuire a piattaforme partecipative per la raccolta dei dati, fungendo come sensore volontario per la creazione di osservatori digitali della società, dell’economia, e della salute pubblica, così generando quelli che si chiamano i Big Data. La capacità di questi osservatori di coinvolgere i cittadini come partecipanti attivi dipende dallo sviluppo, a partire dal livello scolastico, di una cultura attiva del dato, che predisponga i cittadini di domani ad un ruolo attivo nei confronti del proprio ambiente e delle proprie condizioni socio-economiche.

4.5 Aprire alla concorrenza, tutelare meglio i consumatori

Le politiche per la tutela della libera concorrenza costituiscono un importante stimolo allo sviluppo economico e all’efficienza. Infatti, esse incentivano la corretta allocazione delle risorse sia nella singola impresa sia nel mercato e hanno effetti positivi, in termini di minori costi, sui settori “a valle”. La concorrenza aumenta il benessere dei consumatori, perché accresce le loro possibilità di scelta e porta una riduzione dei prezzi, e costituisce un potente catalizzatore per l’innovazione, che è uno strumento fondamentale per rafforzare la crescita e la competitività.

Un mercato aperto e concorrenziale richiede la certezza delle regole del gioco ed il fatto che i giocatori non barino. Da qui l’importanza degli interventi a favore della certezza del diritto, il contrasto senza tregua all’evasione fiscale, a tutte le forme di criminalità organizzata e alla corruzione. L’applicazione a livello dell’Unione europea delle regole antitrust e di quelle che vietano gli aiuti pubblici alle imprese, nonché delle direttive per il mercato interno e per i processi di liberalizzazione hanno prodotto importanti risultati. In Europa e in Italia sussistono, però, barriere che bloccano alcuni settori e rendono difficile, anche nei mercati aperti e liberalizzati, l’effettiva partecipazione di nuovi attori economici.

L’azione indispensabile del Governo deve riguardare due dimensioni: da una parte, occorre vigilare sulle situazioni esistenti in altri Stati europei ovvero su nuove normative suscettibili di violare le norme UE, non esitando a denunciarle formalmente alla Commissione europea; dall’altra, si deve agire, a livello italiano, in vari comparti. Al di là di interventi di sistema, la normativa per favorire la concorrenza è fatta di un’opera di emendamento di tanti aspetti particolari della legislazione vigente che ostacolano le dinamiche concorrenziali: a tal fine va maggiormente valorizzata la “legge annuale sulla concorrenza” e andrebbe rafforzato il controllo esercitato dall’Autorità Antitrust sulle legislazioni regionali.

Inoltre, occorre una tutela diretta contro le pratiche commerciali scorrette e la pubblicità ingannevole. Al riguardo, già esistono gli strumenti offerti dal Codice del consumo, ma la tutela va rafforzata lungo le seguenti direttrici: rapido recepimento della nuova direttiva UE sui diritti dei consumatori; garanzia di una migliore informazione del consumatore, anche attraverso l’uso di siti pubblici espressamente dedicati (per esempio, sui prezzi giornalieri dei carburanti praticati dai differenti distributori); miglioramento della disciplina della class action in modo tale da renderne più agevole l’esercizio; valorizzazione del ruolo delle associazioni di tutela dei consumatori.

Tra i settori di particolare rilievo che consentono interventi realizzabili nel breve termine si segnalano i seguenti:

– l’apertura del trasporto aereo e, più di recente, di quello ferroviario alla concorrenza ha avuto effetti sicuramente positivi in termini di minori prezzi e di efficienza: tuttavia, va istituita quanto prima l’Autorità di regolazione del settore dei trasporti prevista dal Decreto

 

“Cresci Italia”, la cui mancanza pesa soprattutto sul settore ferroviario, dove al medesimo soggetto è riconducibile la rete e la gestione del servizio, ma anche sullo sviluppo della concorrenza nel trasporto pubblico locale. Se, per ragioni di risparmio, si dovesse rinunciare alla istituzione di una specifica Autorità, i relativi poteri regolatori andrebbero attribuiti a una delle Autorità già esistenti;

– il settore assicurativo nel ramo RC auto appare caratterizzato da elementi che condizionano il pieno dispiegarsi delle dinamiche competitive, con evidenti ricadute sull’andamento dei premi: nel periodo 2007-2012 la crescita dei prezzi è stata quasi doppia di quella osservata nell’Eurozona. Si propone, quindi, di riformare la legislazione per incentivare le imprese a raggiungere maggiori livelli di efficienza, soprattutto con riguardo alle repressione delle frodi (la cui ampiezza incide sensibilmente sul livello dei prezzi). Pertanto, va modificato il meccanismo del rimborso diretto e vanno diffuse le clausole contrattuali che associano l’uso della scatola nera a congrui sconti sui premi pagati dai consumatori. Va poi favorita la mobilità degli assicurati, garantendo chiarezza e certezza in merito alle “classi interne”, rendendo trasparente e non penalizzante il cambiamento della compagnia con cui stipulare la polizza;

– il settore energetico è cruciale per lo sviluppo del Paese. Tra le varie priorità c’è quella di ridurre i costi dell’energia, in un contesto di salvaguardia ambientale. Il mercato elettrico è un mercato liberalizzato, ma nel settore della vendita al dettaglio esiste ancora un grado di concorrenza modesto. I nuovi operatori nel mercato libero si contendono meno del 6 per cento del mercato. Occorre, quindi, perseguire interventi di forte impatto, finalizzati allo sviluppo del mercato libero retail. Ad esempio, dovrebbe essere definita per via normativa la data oltre la quale uscire definitivamente dal regime di maggior tutela ed affidare alla sole forze di mercato il sistema delle offerte di vendita al dettaglio.

 

Sul versante della generazione, esiste una forte capacità produttiva di operatori termoelettrici, che hanno investito negli ultimi dieci anni circa 25 miliardi di euro per l’ammodernamento del parco centrali. Di fronte alla stagnazione della domanda ed al crescente ingresso nel mercato di impianti alimentati da fonti rinnovabili, si stanno registrando forti sofferenze finanziarie che spingono alcuni operatori a mettere in conservazione parte della loro capacità produttiva, con la conseguenza che il mercato elettrico potrebbe tornare a concentrarsi. Questa situazione può essere trasformata in opportunità, sfruttando la maggiore flessibilità che caratterizza il sistema italiano rispetto a quella di altri Paesi europei come Francia e Germania, dove prevalgono forme rigide di produzione basate sul nucleare e il carbone. Emerge nell’Unione europea una carenza di capacità e di flessibilità della generazione di energia elettrica che per l’Italia deve tradursi in un’opportunità economica, diventando un esportatore netto dei servizi di flessibilità;

– il mercato del gas soffre delle gravi carenze di flessibilità dei sistemi di approvvigionamento. Il nostro Paese è fortemente dipendente dalla fornitura via condotte, e quindi dai produttori esteri. La rigidità dell’offerta di gas “a monte” mantiene i prezzi alti e ostacola la concorrenza nei mercati “a valle”. Ne risente il prezzo dell’energia, stante la prevalenza nel mix produttivo di centrali a gas, e la possibilità che la concorrenza nei mercati all’ingrosso e al dettaglio – rafforzata dalla recente separazione della rete dall’Eni – possa dispiegare i suoi effetti benefici.

 

Pertanto, andrebbero attuati subito gli indirizzi contenuti nella Strategia Energetica Nazionale, che insiste sulla necessità di creare abbondanza di offerta di gas, attraverso i terminali di rigassificazione già costruiti o autorizzati. E’ da sottolineare, inoltre, che l’uso di tali tecnologie permetterebbe di massimizzare i benefici derivanti dalla crescente diffusione di gas non convenzionale;

– nel settore farmaceutico si riscontrano ancora rilevanti ostacoli all’ingresso dei farmaci generici, mentre nei principali paesi europei il mercato dei farmaci generici rappresenta circa il 60% delle unità vendute. Questa situazione determina un aggravio della spesa a carico del Servizio Sanitario Nazionale e di quella sopportata dai consumatori per quei farmaci che non sono soggetti a rimborso. Per risolvere tale situazione, nell’immediato proponiamo di evitare di vincolare le procedure di concessione delle autorizzazioni per l’immissione in commercio di farmaci generici alla risoluzione di eventuali dispute inerenti presunte violazioni della proprietà industriale e procedere ad una campagna di sensibilizzazione dei pazienti consumatori in merito all’equivalenza di efficacia e sicurezza dei farmaci generici rispetto agli altri;

– nel settore postale andrebbe ridefinito l’ambito del servizio universale riservato a Poste italiane e andrebbero migliorate le condizioni alle quali gli altri operatori possono accedere alla rete dell’operatore dominante; nel settore portuale, in cui persiste una commistione tra regolazione e gestione delle operazioni portuali che crea ostacoli alla concorrenza nei servizi portuali, andrebbe ridotto il numero delle Autorità portuali;

– un settore di grande rilevanza è quello dei servizi pubblici locali (rifiuti, acqua, trasporto urbano, illuminazione, ecc.). In questo campo attualmente prevale la formula secondo la quale gli enti locali gestiscono il servizio tramite una società da essi direttamente controllata. Accanto a realtà caratterizzate da notevole efficienza ve ne sono molte altre in cui la gestione risulta in perdita, con notevole aggravio per la finanza pubblica e inefficienze del servizio, che si traducono in un pregiudizio grave per gli utenti.

 

Nel contesto economico attuale in molti casi mancano le risorse adeguate per assicurare la qualità del servizio e per migliorare, o anche solo manutenere, le infrastrutture. In realtà, si tratta di settori con un forte andamento anticiclico che potrebbero, soprattutto in un momento di crisi, attrarre investimenti privati. Una simile prospettiva va necessariamente armonizzata con l’esigenza che l’ingresso di privati non porti pregiudizio ai fondamentali diritti che sono tutelati tramite l’erogazione del servizio stesso e con il fatto che tali servizi utilizzano comunque dei beni comuni (come l’acqua). Perciò, la presenza dei privati va bilanciata da forti poteri di regolazione delle autorità pubbliche (in particolare l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e l’Autorità per i trasporti), dall’indirizzo generale e dal controllo politico degli enti locali, dalla proprietà pubblica delle infrastrutture fisiche.

L’apertura ai privati deve, quindi, avvenire in regime di concessione a seguito di gara (concorrenza per il mercato). Tutte le volte che è possibile, in regime di effettiva 44

concorrenza (concorrenza nel mercato). Quando l’ente locale sceglie di riservare per sé il servizio ovvero di mantenere un regime di esclusiva, previa un’approfondita analisi economica e finanziaria, il parere dell’Autorità Antitrust dovrebbe diventare vincolante. Per rafforzare l’efficienza e le economie di scala in alcuni settori (in particolare i rifiuti) vanno riorganizzati rapidamente gli Ambiti territoriali ottimali. Infine, all’acqua, soprattutto a seguito del referendum del 2011, va garantito lo status di bene comune e va, conseguentemente, assicurato ai consumatori a basso reddito l’accesso a condizioni di favore all’uso delle percentuali d’acqua necessarie per un pieno soddisfacimento dei bisogni fondamentali, mentre vanno incrementati i prezzi per altri usi della risorsa (per esempio, riempire una piscina). Solo in questo quadro, si potrebbe pensare alla presenza di privati circoscritta alla gestione del servizio.

4.6 Favorire la ricerca, l’innovazione e la crescita delle imprese

La spesa in Ricerca e Sviluppo (R&S) delle imprese italiane è, in rapporto al PIL, più bassa del 50% rispetto alla media europea, pari alla metà di quella francese e a poco più di un terzo di quella tedesca. Inoltre, gran parte delle innovazioni realizzate dalla moltitudine di piccole imprese italiane che dichiarano di non svolgere attività esplicita di R&S tendono a essere marginali: queste imprese sono meno capaci di brevettare, registrare disegni industriali, marchi o diritti di autore rispetto a quelle che fanno R&S; anche la loro quota di fatturato da prodotti innovativi per il mercato è decisamente più bassa.

Per accrescere il potenziale innovativo delle imprese si può agire su almeno due fronti, nel rispetto delle regole UE sugli aiuti statali alle imprese: promuovere una finanza ad hoc, stabilire agevolazioni dirette.

Finanza per l’innovazione e la crescita delle imprese

Numerose analisi mostrano come l’incidenza del capitale di rischio nella struttura finanziaria delle imprese e la loro attività innovativa siano variabili positivamente correlate. Lo strumento elettivo per sospingere, tramite questa relazione, i processi innovativi è il sistema dei fondi di private equity e di venture capital. Questo sistema è nettamente sottodimensionato in Italia rispetto agli altri paesi avanzati: in rapporto al PIL vale circa un terzo della media europea e un decimo di quella nord-americana.

Sono già stati compiuti passi per cercare di colmare questo divario, modificando gli incentivi fiscali a favore di un aumento della capitalizzazione delle imprese. Con l’ACE (Aiuto alla Crescita Economica) dal 2011 è consentito dedurre dal reddito d’impresa il rendimento figurativo associato a un dato apporto di capitale. Sono previsti anche incentivi fiscali per chi investe in fondi di venture capital e nel capitale di rischio di imprese start-up innovative, il che avvicinerebbe l’Italia alla normativa di altri paesi europei.

Purtroppo, però, non sono stati ancora emanati i decreti attuativi; inoltre, la definizione di start-up è probabilmente troppo restrittiva: aver posto un limite temporale ravvicinato alla vigenza dell’incentivo (2015) rende la misura poco efficace, perché incoerente con gli orizzonti temporali necessariamente più lunghi di imprenditori e investitori. Queste sono altrettante linee d’intervento urgente per rendere la misura più incisiva.

L’esperienza di altri paesi indica come il mercato del venture capital possa beneficiare di una azione pubblica volta a rendere più “spesso” il mercato, a condizione che essa poggi su prassi virtuose: in particolare, è essenziale che la selezione degli investimenti sia lasciata agli intermediari finanziari specializzati, ai quali deve essere richiesta una diretta partecipazione ai rischi. Una opportuna modalità di intervento nel caso italiano può consistere nella costituzione di un Fondo di investimento a compartecipazione pubblica e privata (sul modello del Fondo Italiano di Investimento) che operi come fondo di fondi nel settore del venture capital.

Oltre che fra capitalizzazione e innovatività, un’altra correlazione forte empiricamente verificata è fra dimensione aziendale e innovatività.

In Italia, com’è noto, le piccole imprese sono di gran lunga più diffuse che negli altri paesi avanzati e tendono a persistere nel tempo nella piccola dimensione con più probabilità che in altri paesi. Tra le ragioni di questo fenomeno vi è la carenza di risorse manageriali e organizzative, spesso legata alla natura prevalentemente familiare delle imprese italiane. Le imprese familiari non sono da noi più diffuse che in altri paesi: ciò che differenzia il caso italiano è la bassa propensione della famiglia proprietaria a ricorrere a dirigenti di provenienza esterna: nella manifattura le imprese familiari in cui il management è interamente espresso della famiglia sono due terzi in Italia, un terzo in Spagna, un quarto in Francia e in Germania, soltanto il 10 per cento nel Regno Unito. Vi si associano pratiche manageriali inefficienti (scarsa propensione alla delega e a sistemi di remunerazione individuale incentivanti) e minore propensione all’innovazione e all’internazionalizzazione.

Pur consapevoli delle radici profonde della cultura imprenditoriale che sostiene questo assetto, è necessaria un’azione pubblica per cercare di cambiarlo. Il private equity è una risposta a questa esigenza, ma va sospinto sia dal lato dell’offerta sia da quello della domanda. Il Fondo Italiano di Investimento e il Fondo Strategico Italiano, istituiti presso CDP, sono nati proprio con la vocazione di facilitare l’incontro fra una domanda riottosa da parte delle imprese e un’offerta svogliata da parte dei grandi fondi multinazionali, poco interessati all’Italia per l’insufficiente dimensione del business potenziale. La loro operatività può essere rafforzata, rimuovendo alcuni vincoli normativi e regolamentari.

Politiche di incentivazione della R&S

L’attività innovativa delle imprese va promossa anche per via diretta, riducendo la frammentazione delle politiche di incentivazione attualmente in vigore e migliorandone il disegno con meccanismi tendenzialmente automatici, che implichino semplicità e stabilità nel tempo delle norme, rapida erogazione dei fondi in tempi certi, monitoraggio e valutazione da parte di soggetti indipendenti. In particolare, si propone l’introduzione di un credito di imposta alla spesa in R&S che preveda: a) una quota di investimento da portare in detrazione del 30-40 per cento (come nel Regno Unito), più alta del 10-15 per cento previsto da norme passate; b) spese ammissibili iscritte a bilancio secondo gli appropriati principi contabili, così da disincentivarne l’utilizzo per progetti poco connessi con gli obiettivi. Si ricorda che, per non pesare sui conti pubblici, almeno in un’ottica pluriennale, occorre che il credito d’imposta stimoli spese che altrimenti non sarebbero state effettuate, ad esempio applicandolo solo alla parte di spesa in eccesso rispetto al livello medio realizzato dall’impresa nei tre anni precedenti.

Migliorare la capacità di accesso ai fondi erogati dall’Unione europea

Da sempre le imprese e i centri di ricerca italiani risultano vincitori di gare per i fondi UE per la ricerca e lo sviluppo tecnologico in misura inferiore alla teorica quota cui potrebbero aspirare. Non di rado, ciò dipende dalle difficoltà che incontrano con i bandi di gara UE le realtà di piccola, media e micro dimensione, frequenti nel nostro Paese. Strutture di specifica assistenza vanno rapidamente attivate, per non continuare a perdere fondi e importanti occasioni di collaborazione internazionale. Il Governo e le Regioni possono valutare se istituirle direttamente a livello centrale e regionale ovvero se promuovere a tale scopo forme di partenariato pubblico-privato, coinvolgendo le associazioni di categoria.

Miglioramento delle infrastrutture

Il miglioramento delle reti infrastrutturali crea condizioni operative più favorevoli per le imprese e per i cittadini, contribuendo in misura determinante alla crescita economica e alla competitività di un paese. Il tema è vasto e complesso. Dalla discussione in seno al Gruppo sono emersi molti spunti; se ne segnalano qui sinteticamente solo alcuni.

Una prima azione possibile consiste nell’alzare la soglia di 500 milioni per usufruire del credito d’imposta previsto dall’attuale normativa sulle opere. Secondariamente, sarebbe utile un maggior coinvolgimento della CDP, sia nella fase di individuazione delle infrastrutture da realizzare, sia nelle fasi di definizione e di finanziamento del progetto. A tal fine la garanzia dello Stato potrebbe essere estesa su tutta la raccolta di fondi effettuata da CDP, secondo i modelli tedesco e francese, dotandola della stessa ampiezza di intervento di cui godono, come promotori e finanziatori dello sviluppo economico, gli enti consimili in tali paesi. Infine, si segnala come un rafforzamento della cooperazione fra Regioni, prevista dalla Costituzione, possa molto facilitare il disegno e la realizzazione di progetti infrastrutturali che riguardano un’area vasta, nonché l’accesso ai fondi europei.

Potenziare il sistema pubblico della ricerca

L’attuale sistema degli enti pubblici di ricerca rappresenta, insieme al sistema universitario, un’infrastruttura essenziale per lo sviluppo del Paese. Uno sviluppo che non può che avvenire attraverso l’avanzamento e la diffusione della conoscenza, il miglioramento del contenuto qualitativo delle produzioni di beni e servizi, la creazione continua di capitale umano di eccellenza. Tuttavia, l’efficacia e l’efficienza del sistema degli enti pubblici di ricerca appare limitata da un insieme di regole che, ideate per la generalità della pubblica amministrazione, mal si adattano a disciplinare l’attività di ricerca. Il rafforzamento del controllo della buona amministrazione deve essere accompagnato da una pianificazione certa a medio termine delle risorse umane e finanziarie. Inoltre, l’attuale limite per le nuove assunzioni (20% delle uscite, un valore identico a quello imposto su tutte le altre pubbliche amministrazioni), unito all’allungamento della vita lavorativa, sta già determinando un invecchiamento precoce delle risorse impegnate negli enti di ricerca, condizionando la capacità di innovazione. Di conseguenza, si propone di:

– definire un nuovo sistema di assegnazione da parte dello Stato delle risorse agli enti pubblici di ricerca, basato su: a) budget pluriennali specifici per ciascun ente basati su piani di attività dettagliati e discussi non solo con i ministeri vigilanti, ma anche con le competenti commissioni parlamentari; b) un monitoraggio continuo dell’attività, i cui risultati siano resi disponibili al pubblico; c) rendicontazione finale da parte dell’ente;

– aumentare la quota del turn-over per i ricercatori, tecnologi e le altre figure tecniche degli enti pubblici di ricerca e delle università, conservando per queste ultime il limite delle disponibilità finanziarie già disponibili (il che vorrebbe dire che solo gli atenei più virtuosi potrebbero procedere a reclutamenti aggiuntivi rispetto alla situazione attuale);

– prevedere una maggiore flessibilità e autonomia nella definizione della struttura interna degli enti, selezionando i dirigenti delle strutture di ricerca con procedure pubbliche, sulla base delle migliori pratiche disponibili a livello internazionale;

– consentire una totale mobilità (anche temporanea) dei ricercatori tra enti di ricerca e università, all’interno dei vincoli di bilancio predefiniti. Anche in questa prospettiva, che consentirebbe di creare, in analogia a quanto già avviene in altri paesi europei, un “sistema nazionale della ricerca”, sarebbe importante ridefinire lo stato giuridico dei ricercatori degli enti di ricerca.

 

4.7 Migliorare l’ambiente, aumentare l’efficienza energetica

L’ambiente non è solo qualcosa da proteggere. Va migliorato continuamente. In questo modo non solo si eleva la qualità della vita dei cittadini, ma si rafforzano le opportunità di far crescere l’Italia sul piano economico e sociale, rendendolo un Paese attraente nel panorama mondiale, dove vivere bene e di cui apprezzare i prodotti e i servizi. Per questo, si deve puntare a realizzare le possibilità offerte dalla cosiddetta green economy e assicurare la messa in sicurezza e la tutela del territorio e del paesaggio.

In Italia si verificano mediamente sette eventi disastrosi all’anno, con vittime, feriti, migliaia di senzatetto e danni economici ingentissimi, connessi anche alla distruzione di beni culturali ed ambientali. Lo Stato spende in media circa un miliardo all’anno per riparare i danni causati dal dissesto, mentre per la prevenzione vengono spesi in media 400 milioni di euro all’anno. Il Ministero dell’Ambiente ha stimato che, per mitigare il dissesto idrogeologico e idraulico, sarebbero necessari investimenti pari a 40 miliardi di euro in 15 anni (circa 2,7 miliardi all’anno).

Questi dati mostrano come solo integrando la dimensione economica dello sviluppo e quella ambientale si possa promuovere un salto culturale e una maggiore sinergia tra interventi infrastrutturali e di politica industriale e quelli di natura ambientale, nell’ottica del perseguimento di quello sviluppo sostenibile sostenuta a livello globale, su cui l’Italia ha assunto impegni precisi anche nella recente Conferenza dell’ONU “Rio+20”.

Rivedere la normativa sul consumo del suolo

Negli ultimi dieci anni l’Italia ha consumato molto più territorio rispetto agli altri paesi europei. La spinta ad arrestare questa tendenza è apparsa evidente nella scorsa legislatura, con la risoluzione della Commissione territorio e ambiente del Senato e due disegni di legge, il primo approvato dal Governo in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo, il secondo dall’Intergruppo parlamentare per l’Agenda urbana.

Si raccomanda, quindi, di ripartire da tali testi per affrontare con decisione e urgentemente la questione, al fine di fissare e conseguire obiettivi pluriennali di contenimento quantitativo del consumo di suolo attraverso la pianificazione territoriale e urbanistica, da fissare d’intesa tra lo Stato e le Regioni sulla base di un Rapporto annuale al Parlamento. In particolare, la proposta prevede l’introduzione di un contributo per la tutela del suolo e la rigenerazione urbana legato alla perdita di valore ecologico, ambientale e paesaggistico determinato dal consumo di suolo, contributo che si dovrebbe aggiungere agli obblighi di pagamento connessi con gli oneri di urbanizzazione e con il costo di costruzione. Il contributo esistente per interventi su aree edificate o comunque utilizzate ad usi urbani e da riqualificare andrebbe contestualmente ridotto o soppresso.

Vanno poi rafforzate le condizionalità previste dalla politica agricola comune, garantendo lo scambio tra aiuti comunitari e manutenzione idraulico forestale e dei reticoli idrografici minori delle superfici agricole che generano l’aiuto stesso. Priorità di accesso ai fondi e incentivi per la produzione elettrica da fonti rinnovabili potrebbero essere assicurati alle aziende agricole che si impegnano nella manutenzione del territorio di propria pertinenza.

Infine, da più parti è stata proposta l’introduzione di un sistema assicurativo misto pubblico-privato di cui lo Stato dovrebbe garantire l’equilibrio, il controllo, la riassicurazione e l’intervento di ultima istanza. Nella valutazione del premio dovrebbe essere considerata anche l’esposizione al rischio, così favorendo la percezione di quest’ultimo tra i cittadini e le amministrazioni locali, in modo da stimolare un percorso virtuoso per la costruzione di comunità resilienti. Il Gruppo di lavoro non ha avuto modo di analizzare in dettaglio tale proposta, ma ritiene utile suggerire un approfondimento della questione.

Promuovere la riqualificazione urbana

Tutti gli indicatori demografici ed economici confermano un cambiamento radicale in termini dimensionali della domanda abitativa condizionata dalla dinamica dei nuclei familiari, dai flussi migratori, dall’invecchiamento della popolazione e dalla capacità reddituale. Inoltre, il patrimonio abitativo esistente presenta una bassissima qualità energetica, un’inadeguatezza delle strutture statiche rispetto alle classificazioni sismiche e una scarsa rispondenza degli impianti domestici degli immobili più vecchi non solo a standard di sicurezza adeguati, ma anche alle nuove esigenze di ambienti domestici assistiti: essi, infatti, dovrebbero prevedere livelli di accessibilità e sistemi tecnologici innovativi, in grado di favorire la permanenza degli anziani in casa propria, con positivi effetti di riduzione della spesa sanitaria. Infine, in varie aree del Paese è sentito il tema della riqualificazione delle città, anche per rendere più competitivi i sistemi economici locali e per garantire progetti di integrazione ed inclusione sociale.

Di conseguenza, la rigenerazione urbana, il riuso e la ristrutturazione del patrimonio esistente e la riconversione di aree dismesse possono realizzare l’obiettivo del risparmio di risorse scarse, in particolare il suolo fertile, e a generare una nuova offerta abitativa accessibile, soprattutto ai giovani, e di qualità.

Per far questo occorre rendere più efficace il Fondo Investimento per l’Abitare (FIA) promosso da CDP, il quale ha obiettivi minimi di redditività che impediscono nella sostanza di praticare canoni di locazione maggiormente sociali. Questa criticità può essere risolta operando sul regime fiscale, sulla gestione di immobili o aree demaniali da parte degli enti locali, o da compensazioni dello Stato.

Sul fronte della riqualificazione energetica, vanno segnalate le opportunità rappresentate dalla programmazione dei Fondi strutturali europei 2014-2020 e dal Fondo Kyoto già operativo presso CDP, il quale prevede esplicitamente il sostegno finanziario agli interventi finalizzati a migliorare gli utilizzi finali dell’energia nell’housing social, strumento dal quale vanno eliminati quei vincoli che lo rendono scarsamente fruibile. Va poi incentivata l’istituzione a livello locale di soggetti di partenariato pubblico-privato (Agenzie locali per la riqualificazione) che promuovano e coordinino la realizzazione degli interventi programmati dall’ente locale, con il compito di far convergere sulle iniziative di riqualificazione tutte le risorse e le modalità di incentivazione disponibili.

Infine, il regime fiscale agevolato per interventi di ristrutturazione e riqualificazione, anche in funzione antisismica e di efficienza energetica (si veda il paragrafo successivo), dovrebbe essere mantenuto e opportunamente ampliato a valere sul gettito dell’IMU, mentre ai comuni dovrebbe essere attribuita la facoltà di individuare ambiti di rigenerazione urbana nei quali poter disporre, per un periodo massimo di dieci anni, un regime fiscale agevolato. La CDP dovrebbe avviare un nuovo strumento finanziario, garantito da beni demaniali, per favorire l’accesso al credito dei proprietari di immobili ricompresi negli ambiti di rigenerazione urbana che intendano investire per la sicurezza antisismica e il risparmio idrico e energetico degli edifici, utilizzando i risparmi dei costi energetici e di manutenzione per ottenere condizioni finanziarie e tassi d’interesse vantaggiosi.

La tutela delle acque e l’economia dei servizi idrici

La tutela delle acque e l’economia dei servizi idrici vanno realizzate salvaguardando le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio idrico e ambientale. Peraltro, l’acqua è un bene scarso, di rilevanza economica e sociale, da preservare anche attraverso la cura del territorio, la manutenzione dei bacini idrografici, la tutela dei corpi idrici e delle aree di salvaguardia.

I servizi idrici relativi al consumo di acqua per uso umano devono avere carattere di accesso universale, ma devono anche realizzare il proprio equilibrio economico e la propria sostenibilità ambientale attraverso gestioni definite su ambiti territoriali ottimali. La realizzazione e la manutenzione straordinaria delle opere e degli impianti può essere sostenuta da risorse pubbliche nazionali o comunitarie e da una quota della tariffa, ambedue concorrenti alla dotazione di un Fondo pubblico costituito a tal fine.

Accrescere l’efficienza energetica

Il settore energetico è uno di quelli in cui è possibile coniugare meglio salvaguardia ambientale e crescita. La Strategia Energetica Nazionale, approvata l’8 marzo 2013, ha indicato la promozione dell’efficienza energetica e lo sviluppo sostenibile delle energie rinnovabili tra le priorità d’azione che devono essere adottate. L’accrescimento dell’efficienza energetica può consentire di abbassare il costo dell’energia, di migliorare la qualità dell’ambiente e di attivare una massa di investimenti che potrebbero stimolare la crescita, soprattutto delle economie locali. Per raggiungere questi obiettivi si propone di:

– rivedere il rapporto tra incentivi all’efficienza energetica e quelli allo sviluppo di energie rinnovabili: nel 2012 in Italia si sono spesi solamente 500 milioni di euro per incentivi all’efficienza energetica, a fronte dei 6,5 miliardi di euro impiegati per incentivare le fonti energetiche rinnovabili;

– mantenere la detrazione fiscale del 55 per cento accordata agli investimenti effettuati nella riqualificazione energetica degli edifici. Tale detrazione, che è vicina alla scadenza, dovrebbe essere quantomeno prorogata o, meglio, resa permanente;

– introdurre o rafforzare standard qualitativi minimi degli edifici in termini di efficienza energetica;

– definire direttive precise per aumentare l’efficienza energetica degli edifici pubblici e promuovere politiche di green-government, alle quali collegare incentivi, ad esempio consentendo di reimpiegare parte dei risparmi conseguiti nel sistema premiale del personale;

– sviluppare il sistema dei “titoli di efficienza energetica” (noti come “Certificati bianchi”), il quale prevede che i distributori di energia elettrica e di gas naturale debbano raggiungere annualmente determinati obiettivi di risparmio di energia primaria e che possano adempiere tale obbligo anche acquistando “certificati bianchi” da altri soggetti nell’apposito mercato organizzato dal Gestore del mercato elettrico.

 

Perseguire il risparmio energetico non significa certamente abbandonare la promozione ed il sostegno delle energie rinnovabili, i cui meccanismi di incentivazione andrebbero però razionalizzati. Infatti, la forte incentivazione ha comportato notevoli oneri per gli utenti finali. Se quindi è opportuna una revisione delle voci di bolletta costituite da “altri oneri di sistema”, occorre però evitare la retroattività di tali revisioni che comprometterebbe l’equilibrio finanziario di investimenti già effettuati.

La profonda revisione degli incentivi andrebbe controbilanciata dalla semplificazione delle procedure e dalla contestuale riduzione degli oneri burocratici sopportati attualmente dalle imprese nel processo di autorizzazione per i nuovi impianti. In ogni caso, va assicurata la piena integrazione degli impianti da fonte rinnovabile nel sistema elettrico complessivo. Il conseguimento di tale obiettivo passa attraverso lo sviluppo delle infrastrutture di rete ed il miglioramento delle modalità di dispacciamento.

Migliorare il ciclo dei rifiuti e gestire le scorie nucleari

Se la promozione della raccolta differenziata costituisce il presupposto per la trasformazione del rifiuto in merce dotata di valore economico, si potrebbe prevedere la destinazione di una parte dei ricavi derivanti dalla vendita del materiale differenziato all’abbattimento del costo della raccolta dei rifiuti pagato dai cittadini e dalle imprese. Questo provvedimento aumenterebbe gli incentivi a comportamenti virtuosi, favorendo lo sviluppo di una cultura diffusa orientata al riciclo dei rifiuti.

D’altra parte, si dovrebbe procedere ad una liberalizzazione di tutte le fasi della filiera della gestione dei rifiuti, che non devono essere necessariamente svolte in regime di privativa: in pratica, tutte le fasi che si situano a valle delle attività collegate alla raccolta urbana dei rifiuti dovrebbero essere liberalizzate. Inoltre, un impulso all’utilizzo dei materiali provenienti dal recupero e riciclaggio dei rifiuti potrebbe derivare dall’imposizione alle pubbliche amministrazioni dell’obbligo di acquistare prodotti realizzati con materiale riciclato.

Infine, non può essere taciuto che nell’ultimo anno è stato impresso un deciso impulso sulla strada del definitivo smantellamento delle centrali nucleari nel nostro Paese. Tuttavia, occorre implementare un programma di interventi sulle centrali esistenti, completare il trasporto di rifiuti nucleari per essere riprocessati all’estero, definendo con chiarezza il cronoprogramma ed i costi, così da giustificare la relativa quota prevista in bolletta a carico dei cittadini. E’ altresì da affrontare la sistemazione definitiva e condivisa della generalità dei rifiuti radioattivi sul territorio nazionale.

4.8 Questione meridionale e questione settentrionale

Il divario in termini di PIL pro-capite e di capitale sociale tra Centro-Nord e Sud ha smesso di ridursi dalla metà degli anni Settanta. Dal 2007, con la crisi, il divario si è allargato. Il PIL pro-capite è oggi poco sopra il 57 per cento di quello delle aree centro-settentrionali. Questa è l’evidenza innegabile dell’inefficacia delle politiche che avevano come obiettivo specifico lo sviluppo accelerato del Sud, fatta forse eccezione per la prima stagione d’intervento della Cassa del Mezzogiorno negli anni Cinquanta e di un breve periodo successivo alla riforma del Titolo V della Costituzione. È, tuttavia, unanime il convincimento che il rilancio della crescita economica in Italia debba oggi poggiare su un forte sviluppo del Sud, così come avvenne negli anni del decollo economico dell’Italia dopo l’ultima guerra.

Una politica nazionale da tempo in atto punta alla informatizzazione degli uffici. In quell’ambito è stato messo a punto il progetto “Processo Civile Telematico nel Mezzogiorno”, varato dai Ministeri della Giustizia, della Coesione territoriale e della Funzione pubblica, che prevede per il Sud uno sforzo aggiuntivo, anche finanziario, riconoscendo la particolare gravità del problema costi/tempi della giustizia nell’area meridionale. Le risorse aggiuntive (pochi milioni di euro) sono prelevate dai fondi europei, quindi non vengono distratte da usi nel Centro-Nord: essendo state “riprogrammate” sono anzi risorse che altrimenti sarebbero state perse. Ci si è dati l’obiettivo al Sud della totale digitalizzazione delle notifiche di cancelleria in 80 tribunali e Corti di appello, della digitalizzazione dei decreti ingiuntivi in 23 Tribunali. Anche se la dimensione dell’intervento è finanziariamente modesta i benefici potrebbero essere decisivi. Il progetto prevede specifiche azioni di monitoraggio e di comunicazione pubblica dello stato di avanzamento. Quest’ultima ha il fine di rendere visibili in progress gli obiettivi raggiunti nei diversi uffici giudiziari coinvolti nel progetto.

Appendice statistica

Relazione del Gruppo di lavoro in materia economico-sociale ed europea istituito il 31 marzo 2013 dal Presidente della Repubblica, composto da Filippo Bubbico, Giancarlo Giorgetti, Enrico Giovannini, Enzo Moavero Milanesi, Giovanni Pitruzzella e Salvatore Rossi 

Indice

1. Le difficoltà del mercato del lavoro

2. Il disagio economico delle famiglie

3. La caduta del Pil

4. La domanda interna del settore privato

5. La domanda estera e le opportunità di crescita

6. Il mercato del credito

6.1 L’andamento degli impieghi e del costo del credito 

6.2 Le difficoltà di accesso al credito

7. I conti pubblici

8. Ricchezza e indebitamento delle famiglie

9. Percorsi di avvicinamento agli obiettivi di Europa 2020

Circa redazione

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