La storia di Natale

Oggi, 1 dicembre, è la giornata mondiale della lotta all’Aids. Pubblichiamo un racconto tratto dal romanzo ‘ilmiosoloamicoègiasone’ , di Roberto Cristiano, che parla di un ammalato di Aids che si sposa l’ultimo giorno della sua vita.

 

NATALE

 

 

Proprio mentre Mario si spegneva e dall’altra parte della città Angela fissava le immagini che scorrevano sul televisore, Natale posò le piante dei piedi sul pavimento e inforcò gli occhiali sollevati con sapiente leggerezza dal comodino.

La luce del sole filtrava delicatamente nella stanzetta d’ospedale attraverso la persiana semichiusa.

Natale si diresse con passo incerto verso la finestra e con fatica afferrò la manovella. Gli sembrò di azionare l’argano di una vela, tant’è che fu investito di colpo dalla luce del sole.

Strabuzzò gli occhi risistemandosi gli occhiali sul naso. Era sempre stato molto fiero dei suoi occhiali dalla montatura d’oro e dalla griffe francese. Erano stati la prima cosa che aveva acquistato con i proventi di una rapina effettuata ai danni di un portavalori.

Il ricordo lo fece sorridere.

Era accaduto in provincia, in una strada assolata e polverosa. L’avevano seguito per chilometri, in moto, aspettando il momento giusto. E il momento giusto era arrivato, lui gli era balzato alle spalle colpendolo violentemente con il calcio della pistola, pronunciando una parola sola “Fermo!”. Il portavalori era rovinato al suolo come una marionetta di pezza con il volto inondato di sangue.

Puntandogli la pistola al viso gli aveva strappato le chiavi dalla mano, aveva aperto il portabagagli estraendone la valigetta ed era balzato con uno scatto felino sul sellino: “Vai, vai! Per Dio, vai!”, aveva urlato digrignando i denti in una smorfia di cattiveria.

E Nunzio era andato. Gettate le chiavi dell’auto in un campo, la moto proseguì la sua corsa.

Una corsa veloce fino all’auto lasciata in un posto vicino e sicuro, e poi tranquilli fino a casa. Avevano aperto la ventiquattro ore e, giubilo e contentezza, era spuntato un piccolo tesoro. Brillanti, braccialetti d’oro, anelli, collier, il basista era stato più che preciso, proprio un bel pacco di milioni.

Una gran pera subito, qualche giorno nascosto, un ricettatore fuori zona, e poi via, la bella vita per un po’ di tempo.

Ripensandoci ora non era stata poi una gran vita, visto che poi il grosso dei soldi era andato via in droga da dividere con Gabriella, e che Nunzio dopo un po’ sarebbe morto, consumato dalla Malattia.

Però quel giorno lui era andato in centro e aveva guardato le vetrine con Gabriella, con le mani intrecciate l’una nell’altra, e gli occhiali gli avevano sorriso da una vetrina, con quelle lettere educate e rotonde che gli dicevano: “Cartier”.

Era rimasto come ipnotizzato mentre li guardava, e mentre Gabriella gli diceva: “Mamma mia, sai come ti starebbero bene…, li vedo addosso a te”.

E lui era entrato di scatto, con passo guascone e voce da bambino: “Quegli occhiali là”, aveva detto al commesso indicandoli con il dito, “io li voglio”. E li aveva avuti. E li aveva indossati. E via con delle gran risate per tutto il Corso.

Erano diventati un suo feticcio, a volte li lucidava con attenzione, alitava con quel soffio di vita che gli era rimasto sulle lenti fumè. “Fotocromatiche”. Il solo termine lo faceva sentire importante, uomo di conseguenza, uomo di rispetto, uomo rispettabile. Rispettabile, cosa che avrebbe sempre voluto essere, ma che la vita gli aveva negato.

Di rispetto, sì, proprio sì, tutti lo temevano, visto che non si faceva saltare la mosca al naso e aveva il grilletto facile.

E sì che quella povera madre aveva tentato di farlo rigare dritto, ma non ci era riuscita e lui a dodici anni era già in riformatorio. Il padre era morto ammazzato, nel cortile di casa, pam, pam!, con due colpi di pistola alle spalle, proprio mentre lui scendeva le scale di corsa. Per abbracciarlo.

Lo aveva visto venire dal balcone di casa, con le manine aggrappate al corrimano, aveva aperto la porta e si era lanciato nelle scale buie: “Papà, papà…”, e il ricordo della sua vocina stridula ancora gli torceva le budella, anche a distanza di anni.

Che camicia aveva il padre quel giorno, non lo ricordava più, e ora la testa gli doleva, e doveva stendersi.

Rigirò l’argano con la manovella e la vela si dispiegò, e il sole si ritrasse. Sorrise a questo pensiero, poi sbirciò al di sotto della persiana che scendeva e vide Sandro che discendeva dall’auto.

È arrivato, ci siamo, pensò.

E si ridistese sul letto.

Sandro attraversò il lungo corridoio del padiglione degli infettivi con fare pensieroso e passo veloce, per quanto ormai potesse essere veloce il passo di chi era – come gli ricordava sempre Natale – con un piede nella fossa.

Era tirato a lucido, vestito di fino con il suo abito bordeaux e la cravatta color crema. In una mano, nella destra per la precisione, aveva una grossa borsa. Morbida, quadrata, con i bordi bianchi.

Giunto che fu dietro la porta della stanza 26 passò la borsa nella sinistra e si portò la destra all’attaccatura del naso, stringendolo tra l’indice e il pollice. Chiuse gli occhi, tirò un lungo sospiro, li riaprì lasciando la presa e sfoderando, mentre abbassava la maniglia aprendo la porta, il migliore dei suoi sorrisi:

“Sposooo”.

“Coglione, ma che hai sempre da ridere?”, furono le parole che l’accolsero, ma che non gli spensero il sorriso.

“E più coglione di te che ti vuoi sposare? Eh, un piede nella fossa non ti basta, meglio due…”

“Hai portato l’abito? È bello? Di te non mi fido, in quanto a gusto non capisci un cazzo, tu non capisci un cazzo di niente.”

In realtà si volevano un gran bene, ed erano due duri, poche smancerie, poche confidenze, si tenevano tutto dentro, tanto che non riuscivano neanche a parlare tra di loro del male che li accomunava, l’Aids. Laiza, come Natale chiamava la Malattia storpiando la pronuncia inglese di Liza, perché la malattia era diventata una compagna di vita, e allora meglio immaginarla bella, straniera e ballerina, visto che i sorci verdi glieli aveva fatti vedere.

Laiza, come l’attrice americana che in un film si era innamorata di un sassofonista, e aveva intonato un canto disperato e tragico, dedicato anche a quella bella città con tutte quelle luci che sicuramente rendevano felici tutti i suoi abitanti.

Come brillavano quelle luci nella notte, come sarebbe piaciuto a Natale poter andarci, e poi lì si commettevano tanti reati, e lui allora sicuramente avrebbe trovato da fare. E poi Laiza, vaffanculo, avrebbe anche potuto essere il nome di un cane.

“Dai Sandro, rubiamoci un cane e chiamiamolo Laiza”, e Natale scoppiò in una risata isterica e si rialzò di nuovo dal letto.

“Ma sei pazzo! E se ci morde?”, e allora risero insieme con forza e con gusto. E si abbracciarono stringendosi forte l’un l’altro le spalle smagrite mentre un vago sapore di morte discendeva soffuso tra le quattro pareti.

“Basta! Basta con il sentimento, voglio vestirmi. Dai qua!”, così Natale spezzò il perfido incantesimo, e posò con forza la valigia sul letto.

Lasciò scorrere la cerniera quasi con un gesto di stizza e ne estrasse il contenuto.

Per prima venne fuori una camicia di seta, lucida, brillante, slargata e comoda, di colore arancione, un arancione acceso.

“E che cosa ci dovrei fare con questa cazzo di camicia, porco diavolo? Me lo sai dire, Sandro, che cazzo ci faccio?”, e detto questo Natale scaraventò la camicia sul cuscino.

“Che domande, sposarti! E che cazzo di problema mi fai? Questa è la camicia che mi ha dato tuo fratello, e questa è la camicia che ti ho portato.”

“Cazzo, ma è ridicola. Fai vedere un po’, almeno è firmata?” e allungò la mano afferrandola e aprendola. La tenne così per un po’ aperta nell’aria, tenendola su per le maniche, poi fece una smorfia con le labbra e considerò:

“Sì, in effetti non è tanto male, e poi dai, è di Versace.”

“Di chi sarebbe questa camicia? A me Lucio ha detto che l’aveva comprata in centro. Dimmi la verità, si è fregato i soldi, o ha rubato la camicia a questo Versacio.”

“Versace, meschino, Versace. È un sarto, uno che disegna le camicie e anche i pantaloni. Uno del nord, uno di Milano.”

“Milano. Ci sono stato il mese scorso, all’ospedale Sacco. Sai dicono di aver trovato una nuova terapia, la stanno sperimentando. Mi hanno fatto un sacco di analisi, di prelievi, di radiografie. E c’era una signora che mi ha fatto tante domande, voleva sapere, voleva sapere e voleva sapere. Della mia famiglia, di come mi ero contagiato, di quanti fratelli avevo, se mi sentivo amato, se avevo bisogno di parlare…”

“Dacci un taglio”, fece Natale girando la testa di scatto, “una questurina insomma. E tu che le hai detto, mica ti sei confidato?”, continuò con espressione sospettosa.

“A me mi sono girati i coglioni per quel suo modo zuccherino di fare. E mi sono limitato a sorridere anch’io. E le ho detto che ero stanco. In realtà dentro di me l’ho mandata a cagare. E poi mi sono sentito come quei topolini bianchi che usano i medici per i loro esperimenti. E c’erano degli altri ragazzi che avevano problemi con questa terapia, soffrivano ed erano stanchi. E, cazzo di Budda, tutte quelle domande, ma la pensione che danno è una miseria! Manco ci mangio, manco ci fumo.”

Natale nel frattempo aveva tirato fuori il vestito e il suo viso si era illuminato: “Ecco, questo sì. Questo va bene. Questo è di classe.”

Era un vestito nero, di chantung, con pantaloni a tubo e tasche alla carrettiera, giacca lunga a tre bottoni con i revers piccoli.

“Questo sì, mi piace, bravo Lucio, bravo Sandro. E poi nero è un colore fico, è un colore giusto. Giusto per sposarsi e giusto per morire. Prendi nota, seppellitemi con questo, quando poi sarà. Spero presto.”

“Forse hai ragione. Lo pensavo quando ero a Milano, quando quella tipa continuava a farmi tutte quelle domande. Intanto a Milano io ero andato a mie spese, il treno, il mangiare, il dormire e tutto quanto. Una vita di stenti, di sofferenze. E tutti che ti scansano, che ti evitano…”

Ma Natale lo tagliò: “Ti evitano perchè sei brutto, perchè ti vesti male, perchè ti muovi così, Sandro, come capita, senza vapore. Guarda me, guarda me”, e iniziò una grottesca pantomima, andando avanti e indietro per la stanza, con le mani ai fianchi, le spalle rialzate, il petto in fuori, il mento alto:

“Guarda, guarda, imita me”.

“Sì, te. Ma vaffanculo, che hai il pigiama infilato nei calzini.”

Un colpo secco risuonò sulla porta e l’infermiere entrò con le pillole in mano:“Ma che fate le sfilate, voi due qui dentro?”.

“Fuori dalle palle! Subito!”, il volto di Natale si indurì in una smorfia repentina e secca.

“Ma io veramente… ecco… ho portato…”

“Fuori dalle balle tu e le pillole, oggi niente pillole, oggi voglio mangiare senza nausea”, fu la risposta ferma.

“Ma la terapia, il medico, sai…”

“Dacci un taglio Salvatore, gira…”, gli fece eco Sandro, accompagnando le parole con un gesto sventolante del dorso della mano.

L’infermiere uscì e i due si strizzarono l’occhio battendo a mezz’aria le palme, alla maniera dei negri.

“In effetti ti capisco, tutte quelle pillole, lo stomaco che va via, le gambe che ti mancano, la testa che ti brucia. Forse l’unica uscita è la morte”.

“E vaffanculo, proprio di morte mi devi parlare il giorno del mio matrimonio? E poi dici che ti evitano. Tu porti male, tu deprimi.”

“Sei proprio pazzo, Natale, proprio pazzo, non c’è spesa”, fu l’unica risposta di Sandro che sedette sul letto con aria interrogativa.

Natale fece spallucce e continuò a ispezionare il contenuto della borsa: “Ecco, questa sì che mi piace”, ed estrasse una cravatta lucida, patinata, già annodata, di colore indefinibile vista la rasatura, a righe oblique color panna, che sotto i riflessi della luce sembravano tanti piccoli fermacravatte.

“L’ho comprata io e vista la tua incapacità, e per il tuo nervosismo, le ho fatto anche il nodo.”

“Bravo! Anche per te c’è speranza”, fu la risposta di Natale mentre riponeva la cravatta:

“Ma lo scarpino no, Sandro. Quello l’ho comprato io, guarda qua”, Natale si diresse verso l’armadietto e tirò fuori, accovacciandosi a gambe aperte, un paio di scarpe con i lacci, nere, brillanti e tonde:

“Che te ne pare? Non sono belle?”, e infilando l’intera mano in una di esse, la lasciò volare nell’aria, così come fanno le mamme con il cucchiaio della pappa per far mangiare i loro bimbi negligenti.

“Devi avere immaginazione però, ascolta! Devi immaginare il mio piede, così, sciolto, che cammina davanti a me. Ho anche la cintura in tinta, e mi sbottonerò la giacca. Fluido, fluido, il piede mi correrà davanti. È classe questa, Sandro, è stile. Ma già, tu non puoi capire, tu sei un buzzurro. Anch’io ero un buzzurro, ma poi sono cambiato. Sono cresciuto, capisci”, ormai Natale era eccitatissimo ed era partito per la tangente.

Sandro si limitò a guardarlo con aria interrogativa, dal suo posto al bordo del letto, con i gomiti posati sulle ginocchia e il viso poggiato sulle palme semiaperte. In realtà aveva sempre ammirato Natale per questo suo modo di essere, per questa sua capacità di colorare una realtà che doveva essergli insopportabile, per le sue doti di trascinatore, per il suo coraggio fisico, per tutte quelle doti che lo avevano reso sempre, fin da bambino, un piccolo capo.

“Vatti a preparare, vai, incomincia a camminare tu davanti alle scarpe!”

Arresosi all’evidenza, e visto che non poteva fare niente per elevare Sandro al gusto del bello, Natale si spogliò e radunò a sé tutto il necessario.

“Preparati alla visione, io uscirò dal bagno come un figurino. Forse allora capirai.”

Mentre Natale si preparava, Sandro prese a sfogliare una rivista, ma senza leggerla, né guardarla. Era assorto nei suoi pensieri, pensava a Natale, ai suoi due figli, al suo matrimonio, al suo stato di salute, al fatto che non si stava per niente curando, anzi si stava curando male, con irregolarità.

Gli risuonarono nelle orecchie le parole del primario:

“Guardiamo in faccia la realtà, Sandro”, così gli aveva detto, “Natale è arrivato al capolinea. Ha pochi linfociti, ancora si buca, a giorni prende la terapia e giorni no. Così non conclude niente, anzi è peggio. Poi butta tutto per aria, tutto quello che ha davanti, io non lo capisco Sandro, così anticipa la sua fine. Non so che cosa dirti ancora”.

Sandro c’era rimasto di merda, ma che poteva fare, forse aveva ragione lui. Che senso aveva sperare ancora? In fondo lo capiva, Natale aveva mollato, fanculo tutti, fanculo i medici, fanculo i farmaci, fanculo la vita, fanculo Id…, ma questo non riuscì a pensarlo. Ebbe paura, paura di essere giudicato, di non essere giudicato all’altezza da qualcuno che non riusciva a vedere, e ancora a sentire, ma di cui intuiva la presenza. Eh sì, sinceramente, Sandro temette di non essere all’altezza. All’altezza di portare la Croce.

E fu in quel momento che Natale uscì dal bagno, vestito di tutto punto proprio mentre dall’altra parte della città il nuovo sindaco prestava in pompa magna giuramento e fingendo un’allegria che forse non aveva, e che forse non aveva mai avuto, tuonò con voce e con gesti da baritono, accompagnando le parole con un ampia rotazione dell’avambraccio, fino a tracciare nell’aria un inchino strozzato a metà:

“Ma dov’è il regista? L’attore è pronto!”.

“Il regista c’è, purtroppo c’è. Ma non si vede. A volte però si sente. Comunque stai benissimo. Davvero. Vieni qui, fatti abbracciare.”

In effetti Natale stava da Dio, quasi quasi sembrava veramente un attore. Si era tirato tutti i capelli neri all’indietro cospargendoli di brillantina, era perfettamente rasato, le lenti pulitissime, l’abito nero, le scarpe lucide, e quella camicia che, con il suo colore inverosimile, gli illuminava le guance. Ma il vero tocco di classe era la sua aria di sofferenza, da quell’allegria apparentemente dissimulata ma che proveniva in realtà dolce dal profondo del cuore, dagli anfratti dell’anima. Era come il suono di un flauto, era come il canto di una cicala, come il ronzio di un’elica, che proveniva da lontano, avvolgendo le cose, attraversando i sensi, e si fermava a mezz’aria, così ogni tanto, per non disturbare, e poi ripartiva lenta e flessuosa. Era un’allegria strana, soffusa, come un’allegria che temesse di palesare se stessa, per il timore di non essere riconosciuta. Un’ allegria, insomma, che non osava pronunciare il proprio nome. Un’allegria da ricevere così, in silenzio, senza clamore.

“Fratello, quant’è bella questa cravatta. Sono contento di te, sono contento di me che ti ho insegnato a vivere!”, e detto questo lo baciò sulla bocca, alla maniera dei mafiosi, “E ora usciamo, via, via forte con Dio! Vamos!”.

E così Natale si allungò verso il comodino e flettendo il busto aprì il cassetto:

“Ecco l’ultimo tocco. Riserva personale, da tenere sotto controllo. Roba esclusiva, capisci Sandro”, e felice e trionfante sollevò nell’aria una bottiglietta bombata. Roba di lusso, profumo di classe”, ma non gli riuscì di aprirla perché Sandro lo interruppe:

“Posa quella porcheria. Ho io quello che fa per te”, e tirò fuori dalla tasca con fare ammiccante e cospirazione carbonara un flaconcino quadrato dal tappo dorato, su di un lato del quale campeggiava una scritta: Ashantè.

“L’ho preso per te”, disse porgendoglielo con una mano mentre con l’altra, rovesciata verso il petto, faceva il gesto di dirgli: “Dai retta a me!”.

Natale svitò il tappo leggendo quasi a se stesso: “Eau de toilette. Pour homme”. Ne versò qualche goccia sulle dita, lo annusò incredulo, e incredulo si umettò i polsi, l’attaccatura dei lobi, il viso, il fazzoletto, poi sbottò: “Ma di chi è? Qui non c’è scritto”.

“Come di chi è? Ora è tuo.”

“Ma no, che c’entra. Chi è il sarto?”

“Ma come, il sarto? Mica i sarti fanno i profumi. I sarti fanno i pantaloni, le giacche, al massimo le gonne.”

“Bestia, i sarti firmano anche i profumi.”

“E come li firmano, con l’ago o con la macchina da cucire?” “Ma fai finta di non capire? Mi prendi per il culo?”.

Ma Sandro non si tenne più e scoppiò in una risata che lo fece piegare in due: “Io l’ho preso a Napoli, su una bancarella. Forse lo hanno inventato loro, sai i napoletani hanno fantasia…”.

A queste parole Natale fece una smorfia di disgusto e si slanciò verso Sandro nel tentativo di rifilargli un calcio nel culo, ma Sandro fu più lesto nell’aprire la porta e uscire.

Natale fu preso da un momentaneo sconforto, poi posò il falso profumo sul comodino e lo seguì nel corridoio. Faticò a restare serio, ma in cuor suo scoppiò dal ridere.

Sandro lo precedeva e ogni tanto si girava e rideva, Natale scuoteva la testa ripetendo” Bastardo!”.

All’altezza della medicheria gli infermieri e i medici attendevano i due disposti a parata, allineati, sorridenti e curiosi. Natale si fermò guardando Sandro che si teneva a distanza e si rivolse a un signore dal volto sorridente, disteso e abbronzato, vestito di verde da capo a piedi: “Andasti a mare?”.

“Sì, l’altro giorno, ero di riposo.”

“Bravo!”, e gli mollò un buffetto affettuoso sul collo scoperto: “Ora che sei rosso in viso gli assomigli di più. Bravo!”.

“Assomiglio di più, ma a chi?”, gli fece di rimando l’infermiere.

“Ma alla minchia, no! Bianca sotto e rossa sopra, coglione!”, e tutti, infermiere compreso, esplosero in una fragorosa risata.

Così i due uscirono dall’ospedale e si infilarono in auto diretti in municipio.

“Che coglione quell’infermiere. Io li detesto sai, detesto la loro aria buonista, la loro falsa commiserazione.”

“Dai non essere tragico e cattivo. Fanno quello che possono.”

“No, Sandro, no. Loro ci disprezzano, portiamo rogne, appena possono vanno in altri reparti. Noi siamo malati di scarto, agli occhi loro ce la siamo cercata la malattia.”

“Non sono tutti così. E poi è difficile anche per loro.”

“Ma è difficile anche per me, anche per te… e forse hai ragione, la maggior parte di loro è sincera e cerca di aiutarci. A volte vedo tutto nero, comprendimi.”.

“Certo, ma questo non toglie che hai ragione, quell’infermiere è fesso.”

“Sì, quell’infermiere è proprio fesso.”, e dicendo questo si ritrovarono davanti all’antico palazzo sede degli uffici comunali.

Un gruppetto di persone dall’aria un po’ smarrita li aspettava a lato di una imponente scalinata.

“Stammi vicino Sandro. Speriamo che non mi dolga la testa”, e così porgendogli il braccio come un buon padre, Sandro si incamminò verso il gruppo: “Stammi vicino e non preoccuparti. Andrà tutto bene”.

Mentre attraversavano un piccolo tratto di strada che separava l’ampio parcheggio dall’edificio, un’elegante figura, rimasta fino quel momento un po’ in disparte, si diresse verso di loro con la mano tesa e il volto sorridente: “Auguri, tu sei Natale suppongo”.

A queste parole Natale si fermò di colpo, sfilò il braccio e lo guardò fermo e risoluto: “E tu chi sei? Sei della questura?”, stringendo i denti con disprezzo.

“E tu? Chi sei, la morte in vacanza? Il cimitero ti ha dato la libera uscita?

“Cornuto. Cornuto e sbirro, io ti ammazzo, ti ammazzo!”, e Natale scattò di colpo verso di lui.

Ma Sandro fu più lesto nel frapporsi tra i due, fermandoli entrambi a braccia aperte, all’altezza del petto, separandoli ancor prima che si sfiorassero: “Tranquillo Natale, tranquillo, lui è Marcello”.

“E chi cazzo è Marcello? È il giorno del mio matrimonio, e tu mi porti uno che mi fa incazzare. Tu sei fuori, chi cazzo è questo signorino?”, e dicendo questo guardò Marcello dall’alto e con sufficienza.

“Ma pensa te, cose da pazzi. Questo è matto. Voi siete matti, Sandro. Perché diavolo mi hai fatto venire, per essere insultato?”

“Minchia, e continua pure…”, e dicendo questo Natale si rivolse con gli occhi al gruppetto dei parenti che si era nel frattempo avvicinato.

“Tranquilli tutti e due. Lui è Marcello, fa così perché non vuole essere provocato. Lui è così, ma è un amico, è qui per te Natale, non rompere i coglioni”, e afferrando energicamente il polso di Natale con una mano, e quello di Marcello con l’altra: “Datevi la mano ora, e non rompete i coglioni che vi lascio qui. A tutti e due”.

Così, poco convinti, i due si strinsero la mano.

“Forza voi, andate avanti. E tu vieni qui amore mio, fatti dare un bacio. Come sei bella”, e tirò e strinse a sé una ragazza bruna dal volto un po’ smagrito. Gabriella, la futura moglie, madre dei suoi due figli.

Il gruppo si arrampicò sù per la scalinata, seguito da Marcello, e un po’ staccati Sandro e Natale.

“Ma che idea del cazzo, un estraneo al mio matrimonio.”

“Ti piacerà vedrai. È un bravo ragazzo, che si sta impegnando molto per la causa.”

“Ma quale causa? Allora è avvocato?”

“Ma che avvocato e avvocato. Si sta impegnando a favore della causa della malattia.”

“Ho capito, le tue solite cazzate, i tuoi soliti sogni. Minchia, ma lo capisci che la gente non ne vuole sapere? Che potendo ci metterebbe in isolamento totale? Sei cretino che non lo capisci?”, e detto questo si fermò per ansimare: “Mi duole la testa, aiutami”.

Sandro gli passò una mano sulla fronte: “Va meglio ora?”.

“Sì va meglio. Forse hai ragione, mi sembra un bravo ragazzo”, gli fece guardando Marcello, che si era fermato a seguire la scena qualche gradino più su, sottecchi.

Quel giorno Marcello indossava un abito di lino, un po’ gualcito, bianco. La giacca comoda, a due bottoni, dai revers moderatamente larghi, che sembravano reggere il colletto alla francese di una camicia azzurro carico su cui spiccava una cravatta regimental, rosa salmone a righe bleu. Il pantalone era alto di vita, con una cintura di cuoio color coloniale della stessa tonalità delle scarpe.

“Elegante però l’amico tuo, non c’è che dire”, fece Natale a Marcello staccandosi da lui e dirigendosi verso la moglie e la propria madre, che attendevano docili fuori l’ingresso della sala giunta.

Sandro restò qualche passo indietro e guardò Marcello con aria complice e soddisfatta.

“Tranquillo. Gli sei riuscito simpatico.”, e accompagnò le parole con una piccola gomitata all’altezza dello sterno.

La madre di Natale era una signora bassina, tondeggiante, dal volto sofferente. Si vedeva che ce la metteva tutta per mostrarsi serena e allegra ma, nonostante gli sforzi compiuti, il suo disagio era visibile e la sua sofferenza palpabile. La vita l’aveva troppo e sempre delusa e non c’era in lei nessuna voglia di simulare un’allegria che non aveva, era un giorno come un altro e non sentiva quell’emozione che ogni madre sente e prova nel vedere il proprio figlio sposarsi. La considerava una stranezza, una delle tante a cui suo figlio l’aveva abituata. Nulla più la scuoteva e si era da tempo abituata all’idea di vedere quanto prima il figlio morire. Al suo fianco Lucio, il fratello di Natale, che insieme a lei e a Sandro e sua moglie, avrebbe fatto da testimone.

All’interno della sala li attendeva, visibilmente teso, in abito blu e fascia tricolore, il presidente della circoscrizione in cui Natale era nato e cresciuto. Appena vide il gruppetto simulò un gran sorriso e si avvicinò con fare mellifluo: “Natale, per me è un grande onore unirti in matrimonio”, e così dicendo abbracciò lui e la futura moglie baciandogli le guance.

Strinse velocemente la mano a tutti, riservò un mezzo inchino con il capo a Marcello e continuò:

“Se vogliamo iniziare, se siete pronti”.

La cerimonia filò via senza sorprese, furono lette le formule di rito e Gabriella, anch’essa in abito blu e camicia di seta bianca, riuscì persino a commuoversi. Fu quando Natale le infilò la fede al dito e la baciò sulla bocca, girando il capo al disopra della spalla proprio per non emozionarsi.

“Non posso neanche lanciare il bouquet, che tristezza”, questo fu l’unico commento della ancor giovane sposa.

Anche Gabriella era ammalata, non certo gravemente come Natale, ma ormai la malattia l’accompagnava da un decennio avvelenandole il corpo e l’anima. Non si lamentava mai perché questo non era previsto, non glielo avevano insegnato, la vita per lei era stata difficile fin dalla nascita, era vissuta per strada, la strada le aveva insegnato tutto e tutto la strada le aveva tolto, una vita normale, una famiglia serena, degli amici, la scuola, quello insomma che tutti hanno.

L’unica cosa che la strada le aveva dato era la droga, e la droga in una terribile catena di Sant’Antonio le aveva dato il carcere, e il carcere le aveva dato l’Aids. Perché così si era contagiata, bucandosi in cella. E la malattia le aveva dato il disprezzo, anche dei suoi stessi familiari, e i familiari le avevano dato il benservito buttandola fuori di casa e scaraventandola in strada, e la strada a chiusura di un tragico cerchio le aveva dato l’odio feroce, ossessivo, per tutto il mondo.

Forse l’unica cosa bella della sua vita era stato Natale, che l’aveva conosciuta, e gli era piaciuta, e lei era stata un’amica, una compagna, un’amante, una moglie e una complice, e una persona con cui confidarsi. Per un momento insieme avevano anche sperato di riuscire a risorgere, unendo i loro mali e le loro solitudini, ma il lieto fine esiste solo nelle fiabe. La vita, è questa l’amara verità, in breve li avrebbe travolti spazzandoli via. Come fuscelli morti, come brodaglia.

Avevano messo al mondo due figli, belli e vivaci e, fortunatamente, sani come pesci, che si trovavano, al momento del loro matrimonio – e come consuetudine – in un brefotrofio.

Finita la cerimonia, Natale fece un cenno con il capo al fratello e questi si allontanò dalla sala per ritornare dopo poco tempo portando un pacco avvolto in una carta bianca, del tipo sottile, a velina, trasparente.

“Questa è per te, è la più bella e, tra tutte le altre bomboniere, è un pezzo unico. È una palma d’argento, è un segno di pace, è un segno d’amicizia. Mettila a casa su di un mobile e ricordati sempre di me”, disse porgendola al pubblico ufficiale che l’aveva unito in matrimonio.

“Ti avrei ricordato lo stesso e sempre, anche senza questo pensiero che comunque accetto con grande piacere e che fortifica l’affetto e la stima che provo per te”, fu la risposta che ricevette insieme a un altro abbraccio e a due nuovi baci sulle guance. Così, dopo che tutti s’abbracciarono, la cerimonia ebbe fine e il gruppetto riguadagnò l’uscita.

Natale affiancò Marcello che precedeva tutti scattando foto con un’automatica ricevuta da Lucio.

“Non dargli retta. È un politico da strapazzo, un pezzo di merda. È venuto solo perché gli ho sempre procurato voti e in più conosco le sue mancanze. E poi ha paura di me. Questa è la verità. In vita mia l’amicizia non l’ho mai conosciuta, e non so cosa sia il vero rispetto, di me hanno solo timore. Anch’io sono così, amico di tutti, fedele di nessuno.”

Marcello non rispose, si limitò solo a guardarlo. Usciti che furono dal palazzo attraversarono la strada e si diressero alle auto.

Marcello verso una berlina tedesca, di colore blu. Azionò un telecomando, aprì la portiera e poggiò un piede sul predellino e un gomito sul tetto:

“Come ci dividiamo?”

Natale aveva seguito la manovra con molto interesse e si era avvicinato all’auto:

“Bella quest’auto, è l’ultimo modello?”, e incominciò a girargli intorno.

“Sì, sì, è proprio l’ultimo modello. Venti valvole, duemila di cilindrata, un motore da spavento, tutti i possibili optional, aria condizionata, stereo, servosterzo, sedili in pelle. Proprio bella. Ragazzo, tu mi piaci!”

“Vuoi guidarla?”

Natale restò un attimo perplesso e guardò Gabriella che, dalla fine della cerimonia, era rimasta un passo dietro di lui:

“Vuoi fare un giro? Vai, poi ci vediamo in ospedale e facciamo una piccola festa”, fu la risposta della moglie alla sua domanda muta.

“Non ti dispiace?”

“No, se tu sei contento.”

“Andiamo allora, vieni pure tu Sandro.”

Così Natale prese posto alla guida, Marcello al suo fianco e Sandro sul sedile posteriore. Natale si aggiustò il sedile con la pulsantiera, regolò gli specchietti retrovisori, giocò con lo stereo, climatizzò l’abitacolo e partì sgommando.

“Tranquillo Marcello, alla guida so il fatto mio.”

Stette un po’ in silenzio, poi all’imbocco dell’autostrada si girò verso Marcello: “Proprio bella. Quanto costa?”.

“Boh! Non è mica mia. Io lavoro per un grosso personaggio e stamattina lui aveva un convegno. Gli ho detto che l’avrei parcheggiata e sono venuto da te. Ne avrà ancora per tre ore.”

“Un grosso personaggio? Allora ci sarà pure la paletta.

Guarda, guarda nel portaoggetti, ci sarà la paletta.” Marcello aprì il vano ma rialzò la testa deluso:

“Non c’è niente. L’avrà la sua guardia del corpo. Figurati, certe persone userebbero la paletta pure quando sono a piedi.”

“E la sirena c’è? Dai, vedi se c’è la sirena.”

Marcello frugò un po’, poi rialzò la testa ridendo da matto:

“No, non c’è. Ma senti qua. Ci sono due froci che parlano della morte e della rinascita. Fa l’uno all’altro: “Se tu rinasci cosa vuoi essere?” “Un cerbiatto” è la risposta. “Così ho gli

occhi belli e tutti mi vogliono. E tu?”

“Io”, risponde l’altro, “voglio essere un’ambulanza”. “Un’ambulanza? E che c’azzecca l’ambulanza?”

“C’azzecca. Così mi aprono dietro, me lo infilano dentro e io faccio eeee, eeee, eeeee, per tutta la città!”, e dicendo questo Marcello fece una strana smorfia muovendo tutte le spalle, e ruotando poi il collo e il mento con gli occhi socchiusi. Natale rise così tanto che dovette fermarsi perché aveva le lacrime agli occhi:

“Quando vado all’ambulatorio per il calcolo dei linfociti me la spendo subito. Lì ci sono un sacco di ricchioni”.

In quel preciso momento Natale aveva dimenticato di dover morire, era un pensiero positivo quello, visto che gli esami non li faceva più da tempo, e non aveva, fino a quel momento, nessuna intenzione di farli, o di pensare di farli.

“Che tipo che sei, Marcello. Sicuro che il tuo capo ne ha per molto?”

“Tranquillo, ne ha almeno tre ore.”

In realtà l’auto era l’auto aziendale che il suo amico Aquis usava per viaggiare. Marcello gliela aveva chiesta su indicazione di Sandro che conosceva la passione di Natale per le auto.

Natale incominciò a premere sull’acceleratore e dopo un po’ di tempo furono nella zona di mare. Uscirono dall’autostrada e si portarono sulla litoranea. Fu lì che Natale portò la testa fuori del finestrino e respirò forte continuando a guidare.

“Che dici mi mancherà il mare? O dal cielo si continua a vedere, il mare?”

Nessuno dei due rispose e nell’auto scese il silenzio. L’auto filava via oltrepassando di volta in volta alberi, case, pedoni, bambini, ciclisti, e nessuno parlava, intenti com’erano a fissare, Sandro e Marcello, le onde che si arrotolavano dietro le loro spalle, e il vuoto nel parabrezza, Natale.

“Però che bel profumo che hai, Natale”, gli fece Marcello ispirando con le narici.

Fu un attimo, Natale ebbe un lampo, rialzò le spalle e rispose. “Bello vero? È firmato francese. L’ho preso in quella grossa città con quel monumento alto, tutto di ferro…”

“La Torre Eiffel, Parigi. E di chi è, di Cardin, di Saint Laurent?”

“No, no. Cioè sì, sì. Di tutti e due. Ti dico come è andata. Io ero lì, perché sai a te sembra che io sia così, ma io giro, viaggio, vedo il mondo. Non come Sandro, che il mondo lo conosce solo perché glielo racconto io.

Mi trovavo in un grande viale, era sera, e il viale era pieno di luci. E a me piacciono le luci. C’erano dei ristoranti e io camminavo e ogni tanto mi guardavo nelle vetrine, avevo i denti nuovi, poi ti dico com’era andata, ma è un’altra storia”, e a queste parole sorrise dentro il retrovisore:

“Vedi che bel sorriso che ho? All’Alain Delon…”

“Alén vorrai dire.”

“Sì, Alén. Perchè, come ho detto io? Alèn! Comunque io ero lì ed ero entrato in un bar. C’erano due persone che discutevano. Discutevano e mi guardavano. Sai, a me non piace essere guardato dagli uomini, ma tu capisci, ero all’estero e non potevo fare cattiva figura. Uno di loro si alzò e mi chiese se volessi sedere con loro che dovevano propormi un affare. Io, quando mi parlano di affari, ascolto sempre e così mi sedetti.

Tu mi capisci, vero?”

“Continua.”

Sandro scuoteva la testa e abbassava il viso sornione. Natale continuò:

“Erano loro due, come hai detto tu… aiutami…”, e fece un gesto ampio lasciando scivolare il dorso del pollice sui polpastrelli delle altre dita, “Marcello aiutami…”

“Pierre e Yves”. Marcello era entrato ormai nel gioco, e Natale continuò:

“Sì, questi qua. Mi hanno offerto da bere. Poi mi fanno: Tu sei il tipo che cercavamo, tipo mediterraneo, tipo giusto. Noi vogliamo che provi il nostro nuovo profumo.”

“Beh, gli dissi, se mi pagate la cosa si può fare.”

“Così uscimmo e andammo in un grande appartamento con il terrazzo, da dove si vedevano un sacco di luci. A me piacciono le luci. A te piacciono le luci?”

“Certo che mi piacciono…”

“Così mi diedero una camicia. Questa che mi vedi addosso, e una bottiglietta di profumo. Unica era. Era il prototipo. Ma questa camicia ti piace?”

“Bellissima. E ti sta da Dio. Ma continua.”

“A Sandro questa camicia non piace. Ma lui non fa testo, non capisce un cazzo”, e a queste parole Sandro prima aggrottò le sopracciglia e poi le distese in alto ad arco, con un gesto eloquente del capo.

Natale continuava ormai a ruota libera:

“Così mi misi la camicia e mi misi il profumo. Appena feci questo uno mi accarezzò il braccio e l’altro voleva odorarmi il petto. Io allora capii che loro volevano la minchia. Capisci, la minchia!”

“E tu, che hai fatto?”, Marcello si finse interessato.”

“E che dovevo fare? La minchia è sacra. È solo per le donne. Noi siciliani abbiamo tutti una bella minchia. È nostra, ma è come se non fosse nostra. Il Signore ce l’ha data in uso, è una specie di prestito, l’abbiamo sempre con noi, ma quando la femmina la vuole, noi gliela dobbiamo dare. Così, senza discussioni. Agli uomini no, però. La minchia è per le donne. Così gli mollai a tutti e due una serie di schiaffoni e andai via. Con il profumo, e con la camicia. Certo gli feci un danno perché il profumo non è più uscito in vendita, io ne ho ancora un po’, però. È conservato e non lo do a nessuno. Ma se il mio cumpare Marcello lo vuole provare, quando torniamo in ospedale io in segno di amicizia glielo farò provare. Tu lo vuoi provare, Marcello?”

“Se le cose stanno così, certo che sì!”

“Marcello tu mi piaci. Non da ricchione però. Mi piaci da uomo, mi piaci perché sei dritto”, e detto questo fermò l’auto.

Aprì lo sportello e rivolse l’invito: “Uscite, forza! Facciamo prendere aria alla minchia”, e così tutti e tre scesero e si diressero sulla spiaggia, in riva al mare.

La spiaggia era deserta, non si era ancora in piena estate, e arrivati che furono sulla battigia Natale si girò all’indietro. Certo che non lo vedeva nessuno tirò giù la cerniera dei pantaloni:

“Chi non piscia in compagnia o è un ladro o è una spia! Io potrei anche farlo perché sono un ladro. Spia no, però. Questo mai.”

Gli altri lo seguirono e così tutti, spalle alla strada e volto al sole, innaffiarono l’acqua del mare. Completata l’operazione Nat ale allargò le braccia e chiudendo gli occhi respirò forte:

“Dio mio, come lo amo il mare, e il sole, e la sabbia, e l’odore dell’acqua salata. Quanto mi mancheranno. Ma chissà se poi, dall’altra parte, si resta coscienti”, così aprì gli occhi e continuò:

“Guarda un po’. Questa camicia è identica al colore del sole. Forse è stata colorata con la sua luce. Che dite voi, il sole mi ama?”, ma in quello stesso momento una nube oscurò la luce dell’astro. Natale si rabbuiò perché gli sembrò un cattivo segno.

Marcello se ne rese subito conto, con un passo veloce gli fu davanti e a braccia aperte spinse gli occhi verso il cielo. Abbassò su di un fianco, quello sinistro, un braccio e con l’altro tracciò dei segni decisi nell’aria in direzione del sole. Prima verso il basso, poi verso l’alto, in maniera obliqua, poi disegnò un piccolo cerchio, e alcune linee orizzontali. Fu questione di un istante e, ops!, la nuvola si ritrasse scoprendo così una palla di fuoco che via via aumentava sempre più d’intensità. Poi di colpo tutto finì e il sole tornò a splendere come sempre. Moderatamente.

“Sì”, fece Marcello, “il sole ti ama e ti ha risposto”.

“Ma che è successo, come hai fatto?” Natale era incredulo. E spaventato. Non riusciva a capire, la sua mente rifiutava ciò che aveva visto. Chi era Marcello, che comandava al sole?

Non ho fatto niente. Diciamo così, che ho degli amici nell’aria, che ti hanno sentito, e hanno chiesto al sole se voleva rispondere alla tua domanda. Lui ti ha risposto, perché ti ama. Lui ama tutti, anche se non a tutti risponde, siamo noi che spesso non siamo degni del suo amore.

Sandro, pragmatico, non lo prese proprio in considerazione, l’idea gli sembrava assurda e così riportò tutti alla realtà:

“Ma che, sei scemo? Che è, siete scemi? È stata solo una coincidenza. Tutto qui!”

Ma, in realtà, era turbato perché per la seconda volta assisteva a una cosa del genere. Aquis una volta aveva fermato la pioggia per qualche minuto. Anche lui aveva guardato in alto e aveva lanciato in un burrone un sassolino raccolto da terra e poi, ops!, il cielo si era aperto e la pioggia si era fermata. Rifiutò comunque l’idea, la sua vita era già abbastanza complicata così, meglio tornare alla realtà, per quanto brutale essa potesse essere, almeno riusciva a spiegarla a se stesso: “Sediamoci, forza e fumiamo una sigaretta”, ed estrasse un pacchetto dalla tasca offrendone ai due amici.

Si sedettero sulla sabbia e fumarono per un po’ in silenzio.

Natale dopo un po’ si sfilò le scarpe e si tolse i calzini, si arrotolò i pantaloni, si rialzò ed entrò nell’acqua fino all’altezza delle caviglie.

“Sto trascorrendo una bella giornata. Da quanto tempo lo desideravo. Vorrei tanto fare un viaggio. Ricordi Sandro, quando andammo a Roma?”

“Certo che lo ricordo, come potrei dimenticarlo, come potrei dimenticare quella faccia da scemo dell’albergatore. Che storia.”

“Che successe a Roma?” – Marcello entrò nella discussione – “dai Natale, racconta”.

“Niente. Io ero uscito dal carcere, e il giudice mi aveva dato il soggiorno obbligato in un cittadina del Lazio, alle porte di Roma. Per disinfestare il territorio mi mandava fuori casa a inquinare quello degli altri. Era la prima volta per me, e non avevo esperienza. Arrivati che fummo in zona incominciammo a cercare un albergo. E io andavo e chiedevo se c’era una stanza per noi due – Sandro mi accompagnava – per un po’ di tempo, forse sei mesi, forse un anno. Ma tutti, quando venivano a conoscenza del motivo che mi conduceva da loro, mi dicevano che l’albergo era pieno, che non avevano visto bene, e mi consigliavano di provare più avanti. Così dopo qualche tentativo cambiai strategia, tu mi capisci, se la voce si spargeva restavo fregato e sarei dovuto o scappare o ritornare in carcere. E poi la zona mi piaceva, ero stato dentro troppo tempo, non avevo problemi di soldi, i giudici lo sanno che li abbiamo sempre, e avevo bisogno di una bella vacanza, anche per distendermi e guadagnare poi altro danaro. Il danaro mi fa sentire libero. Libero e forte.”

“E come risolvesti il problema?”, Marcello si stava appassionando all’argomento.

“Niente, in modo semplice. Scesi in un albergo, un bell’albergo alle porte di Roma, e chiesi una stanza, per due, per una notte, con prima colazione. Da servire in camera, è chiaro. Così l’indomani dissi al signore che avevo fatto una telefonata e dovevo restare un po’ di più, forse una settimana, forse due. Lui controllò il registro e disse che la cosa si poteva fare. Io ero disteso, elegante, tranquillo. Mi chiese un po’ di danaro. Io feci chiamare Sandro in camera, che arrivò con un fascio di banconote che sarebbe bastato per tre mesi.”

“Così scesi io dalla camera” – lo interruppe Sandro – “all’albergatore, un buon uomo, con la faccia da scemo e le mani sudaticce, alla vista del danaro brillarono gli occhi. Facciamo così, gli dissi, tenga questi nel caso dovessimo prolungare la nostra permanenza, in caso contrario ci restituirete la differenza. Acconsentì subito, poi come preso da un pensiero improvviso disse:

“Ma voi, che lavoro fate?”,e io risposi:

“Siamo rappresentanti e azionisti di una grande società, con sede a Palermo e filiali negli Stati Uniti d’America…”, ma Natale lo interruppe: “Capisci? Azionisti…”, e fece il volto da furbetto mentre con il dito indice faceva il gesto di premere ripetutamente il grilletto. Sandro continuò:

“…perché anche proprietari di una piccola quota…”

“Sapessi che faccia che fece il meschino quando il giorno dopo i carabinieri vennero a controllarmi”, interloquì Natale, e ruppe in una risata fragorosa, feroce e sarcastica. E Sandro e Marcello risero con lui.

E lo fecero di gusto.

Natale restò ancora un po’ nella sua posizione, poi allargò le braccia, tirò un sospiro e fece una smorfia, come se fosse stato disturbato da un brutto ricordo. Infilò una mano in tasca e tirò fuori un tagliaunghie: “Vedi Marcello, vedi questo tagliaunghie? È l’unica cosa che mi resta di mio padre. Mio padre sì che era un vero mafioso, un vero duro, uno che non riuscivi a distogliere dai suoi modi di vedere la vita. Nel senso che la mattina si alzava alle sei del mattino, e andava a lavorare. Si spaccava la schiena per quattro lire. Non ho mai saputo perché lo abbiano ammazzato. Forse aveva visto qualcosa che non doveva vedere, forse non volendo aveva offeso qualcuno, forse una questione di donne, ma lui la mamma non l’avrebbe mai tradita, questo no, e io ancora oggi sono qui a chiedermi perché me lo hanno ucciso… Perché uccidere un uomo come lui, che non si vedeva, non si sentiva, che non dava fastidio a nessuno? Perché? Per anni ho cercato di sapere, ma non ci sono mai riuscito. So solo che il giorno della sua morte aveva in tasca questo oggettino, e da quel giorno io lo porto sempre con me, non me ne sono mai separato, neanche un giorno, e morirò con questo in tasca, lo porto con me anche di notte, e poi aveva tre monete, e quattro caramelle. E al collo una misera catenina d’acciaio, con una targhetta, quella dei militari con i dati personali, era un ricordo di quando era stato in guerra. E sai che ho fatto? Ho preso le monetine e la targhetta e le ho seppellite in una pianta, le tre monetine a formare un triangolo, e la catena arrotolata intorno. C’ho gettato la terra su e ho piantato i gerani, che a lui piacevano tanto. E poi l’ho messa sul balcone di casa. E quando ero in carcere ero in pena per la mia pianta, perché sapevo che papà era in pena per me, anche se era dall’altra parte, e scrivevo alla mamma di badare a lei, alla pianta, e so che quando morirò lui mi aspetterà e come prima cosa mi chiederà se mi sono ricordato dei gerani, se li ho raccomandati a qualcuno rimasto sulla terra. A te piacciono i gerani? Io non mi sono mai fidato di chi non ama i gerani…” e poi Natale avrebbe voluto parlare delle quattro caramelle, e di cosa ne avesse fatto, ma non gli riuscì di trattenere le lacrime e scoppiò in un pianto dirotto, si portò le mani al viso, si coprì gli occhi e pianse, e pianse. Marcello avrebbe voluto abbracciarlo, ma non ebbe la forza di alzarsi, troppa era la tristezza che gli aveva stretto l’anima.

Come sempre, dopo qualche minuto di doveroso silenzio, la realtà fece il suo ingresso tra i tre amici attraverso la voce di Sandro:

“Ora, però, fatti una bella risata e racconta a Marcello la storia dei denti…”

Natale al ricordo dell’episodio si riebbe, e rise:

“Sì, è vero, ne vale la pena. La storia è questa. Io avevo ormai perso quasi tutti i denti, e la cosa non mi piaceva. Un bel giorno decisi di andare da un dentista, mi ero informato ed ero andato dal migliore della città. Ci ero andato da persona educata, che voleva pagare e come era giusto che fosse l’avevo informato del mio stato di salute. Non mi è mai piaciuto mettere la salute degli altri a repentaglio in questo tipo di cose. Allora il dottore mi ascoltò compiacente, così mi sembrò la prima volta, guardò l’agenda e mi disse di ritornare dopo due mesi. Io pensai che lui era bravo e allora bisognava aspettare e benché a me non piace aspettare volevo fare la persona perbene, e mi ero messo pure la cravatta e cercavo di esprimermi al meglio, cioè in italiano. Dopo due mesi ritornai, ma la signorina che era allo studio mi disse che il dottore non poteva ricevermi, che aveva avuto dei contrattempi, e mi invitava a ritornare dopo altri tre mesi. Io capii l’antifona e finsi di accontentarla. Andai via e uscii. Arrivato a casa mi accavallai, mi misi cioè la pistola alla cintola…”, e detto questo si toccò all’altezza del fianco.

“E poi che successe?”

“Ritornai allo studio e, per lo stupore della signorina, mi sedetti in sala d’attesa. La signorina protestò, ma io fui irremovibile. Signorina, voglio solo un consiglio dal professore, sia buona mi faccia ricevere, magari alla fine delle altre visite. Il professore dovette pensare che era meglio far andare via tutti perché mi avrebbe potuto indorare la pillola senza dare nell’occhio. E poi mi avevano visto così mansueto che non si allarmarono. Quando giunse il momento, pregai la signorina di lasciarmi solo con il professore, perché dovevo parlare di cose intime, di cose mediche, e lei non poteva ascoltare perché mi vergognavo. Certe cose, vedi Marcello, non si fanno davanti alle donne, c’è un codice d’onore, anche se oggi si è perso anche quello…”

Marcello incuriosito lo interruppe:

“Perché cosa facesti?”

“Quando entrai, lui era seduto alla scrivania a testa bassa, fingeva di leggere, e allora chiusi la porta a chiave e senza parlare saltai con le ginocchia sulla scrivania, lo afferrai con una mano per la nuca e gli infilai la canna della pistola in bocca. Tutta la canna, fino alla gola. Lessi il terrore nei suoi occhi e spinsi così in fondo che quando lo lasciai il meschino si portò le mani al collo, e pianse, e vomitò. E io allora gli puntai la canna sulla tempia, e alzai il grilletto.”

“Farò tutto ciò che vuoi, lo farò gratis, ma non sparare, ho figli.”

“Anch’io ho dei figli e i pezzi di merda come te li hanno buttati via dalla scuola solo perché hanno un padre infetto. Lo stavo per uccidere, e non avrei neanche commesso reato, perché era un maiale, e l’unica cosa che avrebbero potuto farmi era una multa per avere sparso sangue di maiale, il che è vietato, anche in pasticceria. Così mi mise a posto i denti, in una serie infinita di sedute. Sapessi la faccia della signorina. E mentre me li curava e me li sostituiva, io leggevo la paura nei suoi occhi, e in cuor mio lo disprezzavo.”

“Lo pagasti poi?”

“Certo che lo pagai. L’ultima seduta feci uscire ancora una volta la signorina e gli versai tutta una serie di schiaffi e di calci. Tutti contanti, tutti sonanti. Ma questo solo perché era un vigliacco, e io i vigliacchi li detesto. L’Aids in quel caso non c’entrava più…”

Marcello restò in silenzio e non si sentì in cuor suo di biasimarlo. Era rimasto turbato da quel che aveva sentito, non tanto per la storia del dottore, ma per il razzismo e per l’emarginazione che vi emergevano, e per i bambini di Natale, buttati fuori dalla scuola. In quel momento capì fino in fondo il dramma di Natale, di Sandro e di tutti gli ammalati di Aids e sentì verso di loro tutti un profondo amore.

“Ho male alla testa, è tardi, andiamo via, in ospedale ci aspettano”, così Natale uscì dall’acqua, si rimise le scarpe e si diresse, seguito dagli altri, verso l’auto.

“Guida tu, io ho voglia di aprire il finestrino e farmi sfiorare dal vento. E poi voglio guardare tutte queste cose, finché me ne resta il tempo.”

Marcello si mise alla guida ed escogitò di nuovo un modo per distrarre Natale dalla sua malinconia. Accelerò forte, pattinò con la frizione tenendo l’altro piede in bilico tra freno e acceleratore, e ripartì con una forte sgommata, ruotando veloce allo stesso tempo il volante che, finita la sua corsa, gli ritornò rapidissimo, docile e dritto tra le mani. Sculettando forte, l’auto si era girata ritrovandosi nella direzione opposta a quella dalla quale erano provenuti.

“Tu devi capire, Natale, che non mi devi provocare più dicendomi che te la cavi alla guida delle auto. Incomincerai a cavartela quando saprai fare cose come questa. E ricorda, donne e motori vanno spremuti al massimo. Tu capisci cosa voglio dire?”

Natale, che era distratto e non si aspettava una simile partenza, sobbalzò: “Figlio di una grande… buona donna… Che tipo che sei!”

“Vai a cagare” – continuò – “capisco solo che hai un servosterzo che ti permette di farle, certe cose…” e così, con il rientro del sorriso, presero la strada del ritorno.

Per un po’ l’auto scivolò via lungo la strada ombreggiata sui due lati da alberi centenari. Nessuno parlava. Natale si limitava a osservare le pietre miliari che via via l’auto si lasciava alle spalle, Sandro era sporto in avanti, sempre in silenzio, con i gomiti appoggiati ai sedili anteriori, Marcello fumava con lentezza una sigaretta, limitandosi a gettare occhiate di sbieco a Natale e, attraverso il retrovisore, a Sandro: “Che strano, i nostri abiti sono in nero, in bianco e in rosso”.

“E che c’è di strano, un colore vale l’altro”, fu la pronta risposta di Sandro che colse prontamente l’occasione fornitagli per allentare silenzio e tensione.

“Non è proprio così, Sandro. In realtà sono i tre colori sacri, i colori della creazione.”

“Che cosa vuoi dire con questo?” Natale, che era rimasto turbato dall’episodio del sole alla spiaggia e da quei segni strani che Marcello aveva tracciato nell’aria, stava pensando proprio a questo, e al fatto che non gli riusciva di dargli una collocazione .

“Che cosa posso dirti? In che modo posso spiegarmi? Considera che l’uomo può, diciamo così, ritrovarsi in cielo pur restando in terra lavorando su questi tre colori, il nero, il bianco ed il rosso.”

“Minchia, all’infermiere gli manca solo il nero allora!”, Sandro voleva cambiare discorso, anche perché non riusciva a seguirlo, e poi Natale era ritornato a essere presente.

“Che cos’è questo fatto dell’infermiere?”

“Niente, cosa nostra, cosa mia e di Natale”

L’auto si bloccò di colpo perché da una stradina laterale era sbucata una bici guidata da una ragazza che poteva avere diciassette anni, biondina, dal viso pulito, con i capelli sciolti sulle spalle, una magliettina bianca aderente, e un paio di shorts che stringevano delle gambe esili, slanciate, abbronzate. Mentre la ragazza sulla bici sfilò davanti al parabrezza, Natale le lanciò una lunga occhiata. Si sfilò gli occhiali e il suo sguardo fu attraversato da un lampo:

“Veronica. Questa ragazzina mi ricorda Veronica.”

“Chi è Veronica?”

“Veronica è, Marcello, la ragazza che mi ha contagiato. Una troietta dei quartieri alti, ma quant’era bella. Piena di vita, dispettosa, prepotente, sempre alla ricerca di droga. Io già allora ero il capo, nel mio quartiere, il capo di tutto”, e dicendo questo fece ruotare l’indice destro.

“Capisci? Stavo impazzendo per lei” – continuò – “il suo sesso, la sua fica, mi facevano letteralmente impazzire. Lei stava con me per procurarsi la droga. Era un pozzo senza fondo, di sesso, di droga, di vita, di allegria. Mi contagiò la Malattia. Non aveva una fica, aveva una rosa, una rosa ancora umida di rugiada. Io ci andavo piano, tuf, tuf, tuf…”, Natale si emozionò al ricordo, “ci andavo piano perché non si può fottere una rosa, una rosa la puoi solo cogliere, la puoi solo odorare, e la devi rispettare, la devi amare. Quando lei era sotto di me, io la stringevo, le baciavo le braccia, le leccavo il collo e lei socchiudeva gli occhi, e muoveva la testa, e schiudeva le labbra. Io la baciavo sulla bocca, facevo ruotare le mie labbra con avidità e mi muovevo dentro di lei, così” e, sporgendosi in avanti sul sediolino, fece il gesto di ruotare il bacino, “tuf, tuf, tuf… e impazzivo, capisci, impazzivo. Ma, come ogni rosa, aveva le sue spine e mi punsi. È tutto qui, è tutta qui la storia. Mi porti a casa? Ho voglia di vedere la mia casa.”

Marcello seguì le sue indicazioni e in breve parcheggiò l’auto sotto il balcone dell’abitazione del suo insolito compagno di viaggio.

“Sono nato qui, in questo viale, tra questi casermoni, tra questa sporcizia, tra questa voglia di andare comunque avanti, tra questa capacità di non rassegnarsi mai. Neanche di fronte all’evidenza che questo non basta a cambiare lo stato di cose. Ma venite, andiamo su…”

Marcello fu colpito dall’odore d’ordine e di pulito che l’abitazione emanava, i pavimenti lucidati a cera, i mobili in legno che sulla loro superficie luminosa non trattenevano neanche un granello di polvere, i vetri quasi invisibili nella loro trasparenza, ma più di tutto fu colpito dall’aria d’attesa che sembrava essere a mezz’aria, e che dava all’ambiente una vibrazione particolare, intensa.

“Vieni, per prima cosa voglio mostrarti la mia piantina di gerani”, e così Natale si diresse sul balcone, “Eccola, questa pianta è come me, sempre sopravvissuta. A tutto, a tutte le stagioni, al vento, al sole, alla pioggia. Lei è sempre qui”, e dicendo questo ne accarezzò i fiori.

“Seguimi, Marcello”, e si diresse verso la camera da letto. La casa era piccola, un ingresso, un saloncino, una piccola cucina, e due camere da letto. Una di queste ultime era occupata per lo più da un grande letto matrimoniale, poi da un armadio, e da un mobile a specchio, su quest’ultimo erano allineate due foto in due cornici d’argento, un crocifisso di legno era appoggiato allo specchio, vicino a una statuetta in porcellana della Madonna di Loreto con in braccio il suo bambino.

“Volevo mostrarti la foto di mio padre”, e nel dir questo sollevò la cornice, “mio fratello dice che assomiglia a lui, ma non è vero, sono io che assomiglio a mio padre. Sono il suo ritratto, guarda!”

Marcello prese in mano la foto, e la guardò con attenzione prima di riconsegnarla a Natale:

“Vero!”

“ In quest’altra foto sono io sulla mia prima moto. Avevo sedici anni”. Poi fece per girarsi, ma si fermò a metà, in posizione obliqua, guardando la porta. Si rigirò quindi verso lo specchio, stette per qualche attimo in silenzio, poi afferrò il crocifisso e lo baciò: “Gesù mio, perdonami!”. Poi ripeté l’operazione con la statuetta della Santa Vergine: “Madre mia, ma un miracolo per me non lo puoi proprio fare?”, e risistemò lentamente e delicatamente la statuina girandosi di colpo:

“Andiamo, è tardi e vorrei passare anche in chiesa. Dio mio, perché mi fa così male la testa?”, e si accasciò di colpo sul letto, “Mi fa male, mi brucia”, e si toccò la testa con le mani.

Marcello si avvicinò e gli portò la mano alla fronte:

“Scotti, vieni, andiamo in bagno”, Natale lo seguì e Marcello aprì il rubinetto dell’acqua fredda facendola scorrere per un po’ di tempo, poi disse a Sandro di prendere una sedia, si sincerò che l’acqua fosse fredda, fece scattare la chiusura del lavabo, e fece sedere Natale davanti al lavabo. Gli portò così la mano sinistra alla fronte, appoggiandoci sopra il palmo aperto, e infilò l’altra mano nell’acqua. Stette così per qualche minuto, poi in rapida successione tirò via la mano dall’acqua, staccò l’altra dalla fronte, tirò via l’asciugamano dalla parete e si asciugò:

“Non scotti più ora, possiamo andare!”

Natale, che aveva seguito tutta l’operazione con un senso di timidezza non disse parola e lo seguì. Attraversarono a piedi l’isolato e ben presto furono in chiesa, che era deserta.

“Sono anni che non entro in chiesa”, Natale si inginocchiò di fronte all’altare e si segnò con l’acqua benedetta. Sfilò attraverso le panche allineate sui due lati e davanti al crocifisso, si inginocchiò nuovamente e si diresse al pulpito. In quello stesso frangente il parroco, che lo aveva visto entrare e che conosceva il suo amore per le luci, illuminò la chiesa a giorno. Natale, sorpreso, si voltò verso l’altare mostrando al Cristo il suo stupore dipinto sul volto. Si sentiva disarmato, come un bambino. Abbassò quindi la testa e ritornò con gli occhi al messale, e tra sé e sé lesse:

Getsemani… fu preso da timore e angoscia e disse loro: “l’anima mia è rattristata, fino alla morte; rimanete qui e vegliate”. E, andato un poco avanti, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, si allontanasse da lui quell’ora. E disse: Abba, Padre, ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi…”, e mentre Natale leggeva, il volto gli si rigava sempre più di lacrime. Allora smise, scese dal pulpito, si inginocchiò e portò a terra la fronte. Poi si rialzò, prima un ginocchio, poi l’altro, e cominciò a indietreggiare. Non poteva dare le sue spalle al Cristo, perché dentro di sé le trovava inadatte e così in questa posizione, un po’ accovacciato, un po’ ripiegato in avanti, giunse con esse alla porta, e si rialzò completamente, e fu all’impiedi, e così fu fuori, di scatto.

Fu raggiunto poi dai suoi amici e dal parroco, che lo salutò, che lo abbracciò, che lo accompagnò all’auto.

“Come hai fatto?”

“Come ho fatto cosa?”

“A casa, la testa, l’acqua…”

“Niente. Tu avevi la fronte calda, e avevi l’acqua fredda, io con la mano sinistra ho preso il calore, e con la destra l’ho dato all’acqua. Risultato? La tua fronte è diventata più fredda, l’acqua è diventata più calda”

“Ma chi sei tu, chi sei?”

“Io? Marcello, un tuo amico.”

L’auto ripartì lenta permettendo così a Natale di asciugare al sole le lacrime versate distendendole al vento, ma non aveva più parole e dovette aspettare ancora un po’ per riaversi.

“Passa per il porto. Voglio guardare le navi, hai mai notato che c’è sempre una barca bianca tra le onde ogni volta che guardi il mare dal porto?”

Così l’auto costeggiò le banchine procedendo lentamente tra le persone che sciamavano disordinatamente lungo la schiena del molo.

Natale guardò in alto, volgendo gli occhi alla madonnina che, dalla cima di un obelisco, accoglieva i visitatori che arrivavano dal mare, con una mano aperta nel gesto di proteggerli e proteggere la città.

“Ben presto la città sarà collegata alla terraferma. Arrivare qui scavalcando le acque sarà come entrare in chiesa dalla sacrestia. Osservarla dall’alto di sfuggita sarà come assistere a una funzione religiosa da dietro l’altare. Una bestemmia”, ma la gente ricca lo vuole e il parere dei poveracci a questo mondo, credimi Marcello, è sempre contato poco, ed è sempre valso a nulla. Questa città è sventurata, è sempre stata gettata per aria, non è mai riuscita veramente a vivere, solo a sopravvivere…”

Poi continuò con fare serioso:

“Dice Sandro che ti stai impegnando per la Causa. Che state combinando voi due?”

“Quale causa, quella del tribunale?”, Marcello aveva sentito lo scambio di battute tra Natale e Sandro al municipio.

“Ah, ah, certo che sei malandrino tu. Dai, cosa stai facendo per la lotta all’Aids?”

“Stiamo distribuendo questionari nelle scuole e ne stiamo discutendo i risultati incontrando i ragazzi insieme ai professori.”

“Che ne sta venendo fuori?”

Sandro intervenne: “Che i ragazzi non sono bene informati su come la malattia si trasmette, ancora oggi. E noi stiamo consegnando loro alcuni opuscoli colorati e di facile comprensione.”

Natale drizzò le orecchie e portò di scatto la mano destra davanti agli occhi, agitandola e infervorandosi tutto:

“Dovete dire ai ragazzi di fare quello che vogliono, ma di non usare mai la droga. Di stare attenti, ditelo nei quartieri poveri, spingeteli a studiare. La droga è morte, l’ignoranza è la morte civile, non vali un cazzo, ti resta solo la violenza. Io non mi sono mai pentito, ma la mia vita l’ho bruciata. Io lo so, non valgo niente, sono solo un poveraccio. Avrei voluto essere diverso, ma è stato il destino che mi ha voluto incastrato in tale schema. Io sono contrapposto all’opposto di ciò che avrei voluto essere, non ho mai voluto e potuto cambiare, c’era gente, per quanto strano possa sembrare, che credeva in me, e io non avrei voluto deluderli, ma l’ho fatto.

Ma anche dal male può nascere il bene.

È l’unica consolazione che ancora mi resta. Se solo potessi essere utile a qualcun altro, non farlo sbagliare, non fargli fare i miei stessi errori. C’è una differenza tra il bene e il male. Io forse l’ho capita, o sto incominciando a capirla. Ma per me è troppo tardi.”

Natale si fermò qui perché nel frattempo erano arrivati all’Ospedale. Discesero dall’auto e s’incamminarono verso il padiglione.

Natale si fermò un attimo, come perplesso, prima di varcare la soglia:

“Però, che presa per il culo chiamarsi Natale e stare per morire!”

“La morte non esiste. Ogni morte è rinnovamento, rinascita, principio di vita nuova. Ma ora entriamo, non rattristarti, oggi è la tua festa”, e così, ascoltando le parole di Marcello, Natale, ancora una volta ritrovò il sorriso.

Erano attesi dal personale del reparto che li accolse con un battito di mani.

“Auguri. Auguri allo sposo.”

Le donne di casa avevano preparato il piccolo rinfresco nel saletta d’attesa, all’ingresso. Alcune bottiglie di champagne francese, dei rustici, e una piccola torta nuziale.

“Hai portato quella borsa?”, domandò alla sua sposa.

“Sì, è in camera tua.”

“Vieni, allora. Andiamo!”, e così si diresse con Gabriella verso la sua stanzetta, facendo agli altri, con una mano, il gesto di aspettare.

Ritornarono dopo poco tempo in abiti sportivi, pantalone bianco su camicia a disegni cachemire, scarpe e cintura blu, lui; in gonna beige su camicia di seta marrone e scarpe in tinta, lei.

“Ho sempre visto che le persone giuste si cambiano d’abito dopo essersi sposati, e volevo farlo anch’io. Ora mangiamo, è la mia festa.”

Consumarono in allegria, o meglio in tutta l’allegria possibile in una tale situazione, poi Marcello prese tra le mani una bottiglia di champagne:

“Bisogna tenere fermo il tappo e fare girare la bottiglia, Natale ricordalo. Ma taglia la torta, tagliala con tua moglie.

C’è chi scatta la foto?”

“Aspetta” – fece Sandro – “falla scattare a lui”, indicando l’infermiere del “buffetto”. Si portò così dietro gli sposi che si erano messi in posa, in mezzo agli altri invitati, e con un sorriso birichino invitò tutti: “Come mi ha insegnato un mio amico napoletano, ripetete tutti: Muori acciis…”

E così tutti risero dicendo queste parole, e un alone di irriverente allegria scese su tutti, anche sul fotografo. Natale si staccò dal gruppo, si diresse verso il malcapitato infermiere e, togliendogli l’automatica dalle mani, gli assestò sul collo un nuovo buffetto:

“Bravo! Gli assomigli sempre di più!”

Il gruppetto si sciolse e i più intimi si recarono in camera di Natale.

“È stato il giorno più bello della mia vita. Grazie a tutti, grazie a te amore mio. Non possiamo neanche passare insieme la nostra notte di nozze, ma accontentiamoci, accontentiamoci di questa giornata che la vita ha voluto regalarci. Ora però ho bisogno di riposare, non me ne vogliate, sono stanco”.

E così tutti incominciarono a salutare Natale abbracciandolo a turno. Marcello si fece da parte appoggiandosi a un angolo.

Quando tutti ebbero finito si staccò dalla parete e si diresse verso Natale, fermandoglisi di fronte:

“Sono contento di aver trascorso questa giornata con te. Tu non lo sai, ma in te c’è la bellezza. Ma chi ha guardato negli occhi la bellezza, così disse il poeta, è votato alla morte. Ci rivedremo ancora, io lo so, forse in un’altra vita, sicuramente in un altro luogo.”

Natale lo guardò e sentì la commozione scendergli alla gola. Risalì con forza, con un colpo di reni:

“Marcello, io non so che cosa significhi quello che mi hai detto. Io sono un ignorante e posso dire poche cose. Sei bello pure tu, sei togo. E anch’io sono contento di averti conosciuto. Non so se ci rivedremo ancora, nel dubbio eccoti questo, e ricordati di me”, e così dicendo si sfilò dal dito mignolo della mano sinistra un anello d’oro.

“Tienilo. È tuo. Sappi però che l’anello al dito mignolo lo portano i mafiosi.”

Marcello aprì il palmo della mano e osservò l’anello che cadeva, che cadeva quasi al rallentatore, mentre Natale lo guardava dritto negli occhi.

Lo prese al volo prima che rimbalzasse, chiudendo il pugno:

“Anch’io non so cosa voglia dire mafioso. Ma se lo sei tu, voglio esserlo anch’io, così, per solidarietà.”

E aprì il pugno e infilò l’anello. E abbracciò Natale, e lo baciò sulla bocca. Gli afferrò le spalle, lo guardò negli occhi, poi si girò di scatto sui tacchi e infilò la porta. Tutti lo seguirono.

Mentre attraversavano in silenzio il corridoio del reparto, una voce li rincorse. Era quella di Natale, che si trovava sull’uscio con un piede fuori dalla stanza e con una mano sulla porta semiaperta: “Marcello, Sandro, come fa l’ambulanza?”.

E i due amici risposero in coro, ripetendo con lui:

“Eeee, eeee, eeee, eeee” e tutti e tre, tra lo stupore dei presenti, così risero, e così si salutarono.

Natale rientrò in camera, si spogliò, spense la luce, accese la tv, si distese sul letto e di colpo si addormentò.

Si svegliò nel cuore della notte. Aveva freddo e la testa gli scoppiava. Si alzò, andò al bagno e si guardò nello specchio, ma si sentì mancare. Spense la tv e si infilò nuovamente sotto le lenzuola. Ripensò alla giornata trascorsa, a quello che aveva fatto, a Marcello, a Sandro, alla moglie, al fratello, alla madre. A questi pensieri si raggomitolò nel letto, e si sentì piccolo. Il suo pensiero volò dalla madre alla Madonna di Loreto. E si rivolse a Lei: Io ho capito il tuo segreto, le disse tra sé e sé. Il tuo volto non è del nero dei negri. Molti dicono: è la Madonna dei negri. Come se esistesse una Madonna per i bianchi e una per i negri, o per i gialli, o per i rossi. Tu sei di tutti, al di là del colore della tua pelle. Tu sei nera e sei nera perché ti sei dipinta il volto con il lucido delle scarpe, e hai dipinto con lo stesso lucido anche il volto di Gesù Bambino. E lo hai fatto per protestare, perché ti senti sola, perché ti senti incompresa. Perché il tuo dolore è grande. Più grande del mio, perché il tuo dolore contiene anche il mio, perché è il dolore di tutti, e contiene anche il dolore di chi è senza cuore e non riesce a sentire neanche il proprio, di dolore. E tu per questo ti sei sentita sola, e hai preso il lucido delle scarpe e ti sei dipinta il volto, e hai dipinto il volto di Gesù Bambino. Speravi che qualcuno capisse, ma nessuno ha capito. Io sì però…”

E Natale a questi pensieri scoppiò in lacrime, e lo fece senza controllarsi, e lo fece senza fermarsi. Tanto nessuno lo vedeva, o lo sentiva, almeno così lui credeva.

“Ora però ascoltami, ma non piangere con me, non piangere per me, io non lo merito. Io però ti prego, ma lo faccio come si fa con una madre, non come si fa con la Madonna, senza vergogna. Io mia madre l’ho sempre delusa, anche quando non volevo, ma tu ascoltami lo stesso, io non voglio un miracolo, mi sembrerebbe un’ingiustizia anche verso di te che soffri più di me. Io non voglio guarire, voglio solo morire senza soffrire. Tu mi puoi accontentare. Accontentami se puoi, madre mia, io ho paura di morire.”

E non se ne era reso conto, ma due lampi di luce erano entrati nella stanza, e si erano divisi, e si erano portati negli angoli delle pareti. Proprio di fronte a lui. E allora nella stanza vi fu come un boato di bagliori, e le luci si riunirono al centro della stanza, e Natale sobbalzò, e guardò la camicia poggiata sulla sedia. E pensò, mentre la luce lo avvolgeva tutto:

“Però, questa camicia arancione, che pugno nell’occhio.”

E su quest’ultimo pensiero Natale si spense in un tripudio di luci e di colore.

 

Circa Roberto Cristiano

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