Un aereo di Stato, un detenuto di lusso e un’indagine che scotta. Giorgia Meloni, insieme a Matteo Piantedosi, Carlo Nordio e Alfredo Mantovano, è finita sotto i riflettori della Procura di Roma per peculato e favoreggiamento. Il casus belli è stato il rimpatrio di Osama Njeem Almasri, comandante della prigione libica di Mittiga, accusato dalla Corte Penale Internazionale di torture, omicidi e stupri di migranti. Prelevato, con tutta probabilità, con un Falcon 900 del governo, l’uomo è stato spedito a Tripoli con un volo che oggi diventa il nodo dell’inchiesta.
Che il fascicolo aperto dalla Procura non porterà mai a un processo è quasi scontato: il governo ha i numeri per blindarsi in Parlamento. Ma l’iscrizione nel registro degli indagati di Meloni e dei suoi ministri è stata un atto obbligato per il procuratore Francesco Lo Voi, che non aveva altra scelta di fronte alla denuncia ricevuta. Secondo la normativa, doveva semplicemente iscrivere i nomi e inviare il procedimento n. 3924 del 2025 al tribunale dei ministri senza avviare alcuna indagine autonoma.
Il vero problema non è l’indagine in sé: è il prezzo pagato con soldi pubblici per questo rimpatrio-lampo. Il volo di Stato, il costo dell’operazione e la gestione disinvolta delle risorse pubbliche sono il vero scivolone
Secondo le stime, il Falcon 900 ha percorso circa 2.000 chilometri tra Torino e Tripoli, bruciando tra gli 11.765 e i 16.471 euro per un’operazione che rischia di trasformarsi in un boomerang politico ed economico. A questo si aggiungono i costi logistici, di sicurezza e le spese accessorie che potrebbero gonfiare ulteriormente il conto. Un lusso che ricade sulle spalle dei contribuenti.
Nell’incartamento inviato al tribunale dei ministri, oltre alla lettera di trasmissione, c’è solo l’esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti, che ipotizza i reati di favoreggiamento personale e peculato. Gli indagati sono il capo del governo, i ministri della Giustizia e dell’Interno, accusati di aver deciso la scarcerazione e il rimpatrio di Almasri, mentre il sottosegretario Mantovano è coinvolto per la gestione del mezzo di trasporto.
Meloni non arretra di un millimetro e trasforma l’inchiesta in un atto di guerra tra governo e magistratura, e questo ricorda gli anni dei dissidi tra Silvio Berlusconi e i giudici. “Io penso che valga ora quello che valeva ieri: non sono ricattabile, non mi faccio intimidire”, tuona la premier. Dipinge, insomma, questa vicenda come un attacco politico.
Ma nel fascicolo trasmesso al tribunale dei ministri mancano pezzi fondamentali. Non c’è traccia dell’ordinanza della Corte d’Appello di Roma, che rivela come il ministro della Giustizia fosse stato avvertito dell’arresto di Almasri già il 19 gennaio e avesse ricevuto un’altra segnalazione il giorno successivo. Eppure, non è stato fatto nulla per trattenerlo. Nessun approfondimento neppure sulle comunicazioni tra l’ambasciata italiana all’Aia e il governo, che avrebbero potuto chiarire chi sapeva cosa e quando.
Dal punto di vista giudiziario, la strada sembra segnata. La Procura di Roma ha trasmesso il fascicolo al tribunale dei ministri, ma per far partire un processo servirebbe il via libera del Parlamento. E con una maggioranza blindata, le possibilità che ciò accada sono pari a zero. L’inchiesta, dunque, potrebbe finire su un binario morto. Ma il problema politico rimane.
Non è solo la magistratura a tenere gli occhi puntati sulla vicenda. Il braccio di ferro con la Corte Penale Internazionale rischia di avere ripercussioni diplomatiche. La decisione della Corte d’Appello di Roma di liberare Almasri ha già creato tensioni con l’Aia. L’accusa di favoreggiamento, lanciata da Li Gotti, potrebbe trasformarsi in un nuovo terreno di scontro tra la giustizia internazionale e il governo italiano.
E a complicare il quadro c’è la normativa che regola la cooperazione giudiziaria con la Corte dell’Aia. L’articolo 59 dello Statuto di Roma prevede che “lo Stato Parte che ha ricevuto una richiesta di fermo, o di arresto e di consegna prende immediatamente provvedimenti per fare arrestare la persona di cui trattasi, secondo la sua legislazione”. In altre parole, il governo italiano avrebbe dovuto eseguire il fermo senza esitazioni. E invece Almasri è stato rispedito in patria con un volo di Stato, provocando l’ira dei giudici internazionali.
In data 18 gennaio 2025 la Corte emetteva un mandato di cattura di Almasri e sulla base del luogo e degli spostamenti del ricercato nell’area Schengen la richiesta della Corte è stata inoltrata a sei Stati tra cui l’Italia. Nel suo comunicato stampa del 22 gennaio la Corte ha sottolineato che la richiesta “è stata trasmessa attraverso i canali designati da ciascuno Stato ed è stata preceduta da consultazioni e coordinamenti preventivi con ciascuno Stato per assicurare l’appropriato ricevimento e la successiva attuazione della richiesta della Corte”. Nello stesso comunicato la CPI ha evidenziato che “la Cancelleria ha anche ricordato alle autorità italiane che, nel caso in cui dovessero individuare problemi che potrebbero ostacolare o impedire l’esecuzione della presente richiesta di cooperazione, dovrebbero consultare la Corte senza indugio per risolvere la questione. Il 21 gennaio 2025, senza preavviso o consultazione con la Corte, Osama Elmasry Njeem sarebbe stato rilasciato e riportato in Libia. La Corte sta cercando, e non ha ancora ottenuto, una verifica da parte delle autorità sui passi che sarebbero stati compiuti”.
Come noto, il 19 gennaio Almasri veniva arrestato a Torino; il 21 gennaio la IV sezione penale della Corte d’appello di Roma emetteva però un’ordinanza di scarcerazione di Almasri (procedimento n.ro 11/2025 R.G.A.I) aderendo alla tesi del Procuratore Generale secondo la quale vi sarebbe stata “irritualità dell’arresto in quanto non preceduto dalle interlocuzioni con il Ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Corte Penale Internazionale; Ministro interessato da questo Ufficio in data 20 gennaio u.s., immediatamente dopo aver ricevuto gli atti dalla Questura di Torino, e che, ad oggi, non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito”.
Vi sono ragioni per dubitare dell’interpretazione della norma su cui si è basata la citata Sezione della Corte d’Appello di Roma; come infatti hanno fatto osservare alcuni giuristi (Valeria Bolici e Alberto Martino, “La pagliuzza e la trave”, in Questione Giustizia, 23.01.25) alla cui tesi chi scrive modestamente aderisce, pur nell’inerzia del Ministro della Giustizia “la trasmissione degli atti della Corte Penale Internazionale al Procuratore generale avrebbe infatti consentito la richiesta di applicazione della misura cautelare da parte della Procura, e la conseguente applicazione della cautela”. Non mi addentro tuttavia ulteriormente su questi profili strettamente tecnico-giuridici rinviando chi vuole farlo alla lettura della citata analisi, in quanto in ogni caso il cuore della questione risiede altrove. Anche volendo infatti aderire all’interpretazione normativa fornita dalla citata sezione penale della Corte d’appello che ha ritenuto di non poter convalidare l’arresto di Almasri per ragioni procedurali, non possono essere elusi diversi e cruciali interrogativi; perché il Ministro della Giustizia Nordio non ha tempestivamente inoltrato alla Corte d’Appello la richiesta di convalidare l’arresto al fine di consegnare il ricercato Almasri alla CPI? L’articolo 59 dello Statuto della CPI stabilisce che “lo Stato Parte che ha ricevuto una richiesta di fermo, o di arresto e di consegna prende immediatamente provvedimenti per fare arrestare la persona di cui trattasi, secondo la sua legislazione e le disposizioni del capitolo IX del presente Statuto”. Altresì l’articolo 97 dello stesso Statuto della CPI prevede che “Quando uno Stato parte, investito di una richiesta ai sensi del presente capitolo, constata che la stessa solleva difficoltà che potrebbero intralciarne o impedirne l’esecuzione, esso consulta senza indugio la Corte per risolvere il problema”.
La L. 20.12.2012 n. 237 relativa alla cooperazione con la Corte Penale Internazionale, all’articolo 2 prevede che i “rapporti fra lo Stato Italiano e la Corte Penale Internazionale sono curati in via esclusiva dal Ministro della Giustizia, al quale compete di ricevere le richieste della Corte e di darvi seguito” tanto che l’articolo 14 c.3 della stessa legge dispone che “il Ministro della giustizia comunica immediatamente alla Corte penale internazionale l’avvenuta esecuzione della misura cautelare”. Tale competenza non pone in capo al Ministro della Giustizia alcuna facoltà di disattendere o diversamente valutare la validità e l’efficacia della richiesta di arresto emanata dalla Corte Penale, bensì solo l’obbligo di adoperarsi per porlo in esecuzione, interagendo con la Corte stessa in caso di problemi attuativi e procedurali di qualunque natura al solo fine di conseguire l’obiettivo; anche in caso di ritardi e di problemi organizzativi di ogni genere, e quindi e a maggior ragione, dopo la scarcerazione di Almasri, il Ministro Nordio, e l’intero Governo, avrebbero dovuto adoperarsi per farlo arrestare e consegnarlo alla Corte Penale Internazionale.
Dopo la scarcerazione di Almasri il Ministro dell’Interno Piantedosi, con fulminea tempestività, ha provveduto invece all’emanazione di un provvedimento di espulsione a suo carico per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato disponendo accompagnamento immediato di Almasri in Libia con un volo di Stato predisposto per l’occasione. Tale peculiare tipologia di provvedimento espulsivo, prevista dall’articolo 13 c.1 del TU Immigrazione è disposto dal Ministro dell’Interno “dandone preventiva notizia al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro degli affari esteri” (nel caso, a Meloni e a Tajani). Gli unici motivi per cui Almasri poteva a ragione essere ritenuto un grave pericolo per la sicurezza dello Stato sono rappresentati tuttavia proprio dalle accuse di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra in ragione delle quali egli era ricercato ed andava consegnato alla Corte Penale Internazionale e non certo fatto sparire dall’Unione Europea e riportato in Libia dove la Corte non potrà agire (la Libia non ha firmato il trattato internazionale che istituisce la CPI). Con la restituzione di Almasri alla Libia le finalità della norma sull’espulsione per decisione ministeriale dei soggetti pericolosi sono state dunque del tutto rovesciate; il conseguente sviamento di potere appare evidente.
Il primo punto fermo è che la Corte poteva convalidare il fermo. Nel provvedimento si parla di «arresto irrituale» e di non luogo a procedere sull’arresto». Due frasi altrettanto «irrituali» perché atecniche rispetto al linguaggio di un dispositivo. L’arresto era illegittimo? La Digos dice di aver seguito la procedura, più di un esponente dell’opposizione ha ammesso che la Questura ha fatto il proprio dovere arrestando Almasri come da richiesta dell’Interpol per un codice rosso. Quale sarebbe il cavillo, l’irritualità? «L’arresto andava fatto dopo l’ok del ministro Carlo Nordio», tuonano i magistrati, ma sappiamo benissimo che così non è. A essere concordata tra ministero e Corte penale è la «consegna» del criminale di guerra, prevista dall’articolo 11 della legge 237 del 2012 che regola i rapporti con l’Aja. È impensabile pensare che la polizia debba parlare con il Guardasigilli prima di arrestare un criminale di guerra. Ma perché nel dispositivo si parla di «non luogo a procedere» e non di «mancata convalida dell’arresto»? Non è un tecnicismo di poco conto.
L’iter della legge è preciso: il ministro riceve gli atti, trasmette alla Pg, il Pg letti gli atti chiede la misura cautelare, la Corte d’Appello decide, il ministro conferma con decreto entro 20 giorni. Ma la polizia l’aveva già arrestato. Anche se, come lamenta Md da giorni, la legge 237 del 2012 «è priva di una legislazione, sostanziale e processuale che lascia gravi margini di incertezza operativa», è altrettanto vero che più giuristi ricordano come in mancanza di norme precise si debba adottare il Codice di procedura penale. Il Pg poteva chiederne la convalida «in attesa della procedura ex articolo 11 della 237/2012 che dice quando la richiesta della Cpi ha per oggetto la consegna di una persona il Pg, ricevuti gli atti, chiede la custodia cautelare», dicono fonti vicine alla Corte penale, che da giorni chiede di avere spiegazioni: «Il criminale di guerra è stato rilasciato senza preavviso e senza consultarsi con noi».
Il secondo comma del 716 dice che la Corte d’Appello provvede con ordinanza e che l’eventuale ricorso in Cassazione non sospende il provvedimento. E invece il Pg ha seguito alla lettera la 237. Il vulnus è qui. Ma perché non c’è un’indagine? Se davvero ci fosse una ragione di Stato dietro la mancata consegna di Almasri all’Aja (per la nostra intelligence le sue milizie avrebbe potuto attaccare le ambasciate e i pozzi petroliferi in Libia), Pg e Corte d’Appello se ne sono forse fatte carico? C’è qualcuno che sta indagando? O è vietato toccare la magistratura?
Ha ben ragione l’Associazione Nazionale Magistrati quando, ribattendo alle bizzarre dichiarazioni della presidente Meloni secondo la quale Almasri “è stato liberato non per scelta del Governo ma su disposizione della magistratura” osserva nel suo comunicato del 26.01.25 che “Almasri, per scelta politica e nel silenzio del Guardasigilli, il solo deputato a domandare all’autorità giudiziaria una misura coercitiva, è stato infine liberato e, seppur indagato per atroci crimini, riaccompagnato con volo di Stato in Libia. Tanto va detto per amor di verità”. Almasri potrà dunque rimanere in Libia continuando ad esercitare il suo potere e custodendo i suoi terribili sagreti. A noi tutti, ognuno per il suo ruolo, incombe però la responsabilità di andare a fondo su questa pagina così oscura della storia del nostro Paese, per quanto tempo e fatica ciò richieda.