Jobs act e resa dei conti con la minoranza del Pd

Quando è quasi l’una di notte, un sms avverte Matteo Renzi che il governo ha incassato al Senato la fiducia sul Jobs act con numeri anche superiori al previsto. E’ dunque con visibile soddisfazione che il premier, all’indomani della battaglia a Palazzo Madama, guarda alle prossime sfide: “Noi andiamo avanti”, dichiara. E avverte che, se sarà necessario, non esiterà a porre la fiducia anche alla Camera. Ma sindacati e minoranza Pd non mollano la presa sulla riforma del lavoro. E mentre si apre un processo ai tre senatori civatiani usciti dall’Aula al momento della fiducia, Pier Luigi Bersani chiede tempo per modifiche a Montecitorio. All’indomani del primo difficile passaggio parlamentare, però, il governo può incassare il plauso dell’Ocse: il segretario generale Angel Gurria si congratula infatti con Renzi per quello che definisce un avanzamento molto benvenuto che contribuirà a mettere l’Italia su un percorso più dinamico di crescita. Mentre il presidente della Bce Mario Draghi, dopo aver ribadito la necessità di riforme strutturali nell’Eurozona e definito autolesionista mettere in dubbio le norme di bilancio, pronuncia parole di preoccupata attenzione alla questione lavoro: “Gli elettori devono mandare a casa i governi che non sono riusciti ad agire contro la disoccupazione”, dichiara. E aggiunge che bisogna rendere più facile assumere i giovani e non licenziarli. Poi, sul Jobs act: “Non credo”, osserva, che si tradurrà in massicci licenziamenti, anche perché negli anni della crisi le aziende hanno già agito. “L’Italia fa le riforme che servono”, rivendica il ministro Pier Carlo Padoan, che come Draghi è a Washington. Un “grandissimo passo avanti”, si compiace Matteo Renzi, andando di buon mattino a piedi al Nazareno per la segreteria del Pd. Nulla hanno potuto “le amare sceneggiate di alcuni senatori”, che di sicuro hanno “stancato i cittadini”: sente di avere dalla sua la richiesta di cambiamento, il leader del Pd. E a suo favore anche i numeri del Senato dove, sostiene, “sta crescendo il sostegno” al governo. Mai, dopo il voto sulle dichiarazioni programmatiche di inizio mandato, Renzi aveva preso tanti voti: “165 a 111”. Altro che soccorso azzurro. Ma a rovinare la giornata del premier c’è la minoranza del suo partito. A partire dai tre civatiani,  Felice Casson, Corradino Mineo e Loredana Ricchiuti, che non hanno partecipato al voto di fiducia. Per loro tra i renziani c’è chi, come Roberto Giachetti, arriva a evocare l’espulsione. Dal gruppo al Senato frenano su questa eventualità, ma confermano, come annunciato da Lorenzo Guerini, che il comportamento sarà valutato in un’assemblea del gruppo. A Walter Tocci, che ha annunciato le dimissioni da senatore solo dopo aver votato la fiducia, Renzi chiede invece di ripensarci. La diversità di opinioni è una ricchezza, sottolinea il premier, ma poi, come ha fatto Tocci, nelle votazioni ci si deve attenere alla linea. Così, a dire il vero, ha fatto la quasi totalità dei senatori della minoranza dem: il loro sì non è mancato, nonostante il forte dissenso. Ma quel sì non basta, avvertono ora, a cancellare la richiesta di modificare il Jobs act alla Camera. E già si prepara la battaglia, a partire dalla commissione, anche sui tempi: “Non è vero che la vicenda è chiusa: non sono d’accordo che la Camera non discuta”, sottolinea Bersani. Ma la richiesta di tempo sembra incompatibile con il proposito di Renzi di approvare la riforma entro novembre. Ed è proprio sui tempi che il premier incalza, fino al punto di evocare un nuovo via libera con fiducia, se a Montecitorio non si andrà “veloci”. “Non c’è eccesso di delega”, sottolinea nel merito. I più battaglieri, come Stefano Fassina e Pippo Civati, fanno già sapere che la fiducia sul testo attuale non la voteranno. E che non faranno mancare la loro presenza alla manifestazione della Cgil del 25 ottobre. La riforma, denuncia il sindacato guidato da Susanna Camusso, è “una palese forzatura” nella direzione della “ulteriore precarizzazione dei giovani” e del “sopruso” degli imprenditori. E già la Uil stima “preoccupanti” ripercussioni delle nuove norme sugli ammortizzatori sociali: la disoccupazione passerebbe dal 12,2% al 13,7%.

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