IL TESORO NASCOSTO DI VINCENZO MARANO

“Il tesoro nascosto di Vincenzo Marano”, un tesoro in venti opere che va in mostra alla Galleria Michelangelo di Roma dal  22 marzo   al 20 aprile prossimi, per una esposizione che ha il dono della sintesi di interni ed esterni, riflessi che sono altri quadri nel quadro, in cui il reale e il fantastico sono fortemente intricati a rete, come a dire che niente è come appare e non bisogna mai fidarsi di ciò che appare. S’è popolato nei decenni di donne animali e miti, in quest’ordine, il viaggio di Marano, partito da Acicastello alla volta di Roma, dopo l’Accademia di Catania dov’era insieme a Piero Guccione o Franco Piruca, per dire del suo milieu originario. Nel ’68 Marano è già esposto in personali e collettive, a Roma e a Bari, alla Quadriennale di Roma, in USA alla mostra itinerante Print Show Young European Artist e a Bruxelles alla Contemporary Italian and Belgium. A trent’anni ha già conquistato il Metropolitan Museum of Modern Art di New York che acquista due sue opere grafiche, e il Carnegie Institute che ne acquista un’altra. Tra intercettazioni e invenzioni, oltre bianchi-e-neri poveri all’acrilico, in olii e tempere visionari, l’artista ha compiuto un solerte cammino. Incontrando, ad un angolo o l’altro del viaggio, un Giorgio De Chirico che su di lui annotava “riconosco la bella pittura” o un Renato Guttuso che di lui diceva “… il pensiero della pittura, di ciò che deve dire con la pittura, lo possiede in modo totale …”. Dalle donne-vogue del primo decennio, il ritorno in Sicilia coincide con i suoi animali alla deriva in città, sopra semafori bullonati, sfuggiti ad un immaginario diluvio.  E dopo è ancora una nuova storia. Per raccontare la corsa della società verso il baratro della mancanza di etica, l’artista perde i colori, il grigio, il viola, il bianco che costruiscono immagini intorno alle quali il mondo si è dissolto in un improbabile nero. Nel gioco di luce ed ombra è l’ombra che esce vincente. Sono i Settanta che inesorabilmente fluiscono negli Ottanta. E nel crinale di passaggio, Marano espone in collettive e itineranti, ancora a Roma, in Sicilia, a Milano, a Stoccolma. Il viaggio, intanto, prosegue. I corsi e ricorsi si condensano in un’alchimia artistica ch’è espressione di pensiero e di sguardo. E che gli fa scegliere di non esporre più dopo la mostra a Palazzo dei Diamanti del 1984. “Per anni”,   dirà Marano,  “ho creduto che la pittura potesse cambiare il destino dell’uomo, influire sull’andamento della società, denunciandone gli errori e contribuendo a renderla migliore. La pittura come atto di accusa ha avuto una parte importante nella mia produzione,  una pittura esaltata dagli acrilici, dai bianchi e neri”. E poi un giorno il colore, l’olio, la tempera prendono il soppravvento, il quadro non è più un documento o un atto di accusa  ma un intrattenimento per l’anima. Il desiderio di cambiare il mondo si tramuta dentro di me nella avventura di un viaggio attraverso i canoni del mito e della favola, il mio personale percorso verso la soggettività della rappresentazione”. Dipinge, Marano, totalmente votato al suo straordinario mestiere di pittore, ogni giorno per trent’anni, ma decide di non esporre più. Creando così il suo “tesoro nascosto”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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