Il ‘reddito di cittadinanza’ e la postdemocrazia

I leader dei  partiti italiani  hanno formato le liste per le elezioni del 4 marzo  alla luce della ‘postdemocrazia’,  che nulla è se non ‘oligarchia’, ovvero una vera e propria ‘privatizzazione’. 

Assistiamo ad una vera e propria ‘privatizzazione della politica’, gestita in modo personalistico per trasferire alcuni scranni parlamentari a persone di comprovata fedeltà verso il croupier di turno, leggi capi partito,  e di circostanza.  

Renzi, ad esempio,  ha cancellato  dalle liste i candidati delle opposizioni interne  trasformando il partito democratico in un soggetto politico personale,  nella prospettiva di una sconfitta elettorale o, eventualmente, di un governo delle larghe intese. 

 Di Maio poi,  modifica a propria discrezione le liste dei candidati, approvati online dal cosiddetto popolo dei Cinquestelle, sempre con l’avallo del garante, leggi Beppe Grillo.

I programmi sembrano usciti da ‘fantastilandia’  fondati su improbabili tagli alle tasse, redditi garantiti per tutti e riforme previdenziali, senza indicare le necessarie coperture in bilancio in ragione dei vincoli europei.

Il Movimento 5 stelle usa il   ‘reddito di cittadinanza’ come una bandiera esposta al vento senza curarsi che una deriva di vento, in questo caso, conoscerà un angolo d’impatto. Il reddito di cittadinanza è utile dal punto di vista propagandistico ma che risulta, nelle forme prospettate, irrealizzabile.

a) 780 euro al mese (limite di reddito della ‘povertà relativa’stabilito dall’ISTAT);

b) da distribuire ai circa 10,5 milioni di cittadini il cui reddito non supera detto limite;

c) con un onere per lo Stato di circa 14 miliardi l’anno, più 3 Mld ‘una tantum’;

d) importo del contributo ad integrazione del reddito, entro il limite di 780 euro mensili.

Non conosciamo la struttura dei redditi dei 10,5 milioni di ‘poveri relativi’ ipotizzata,  ma qualunque essa sia, non è difficile comprendere che ‘il reddito di cittadinanza’ proposto non regge: basta una semplice divisione per stabilire che 14 miliardi bastano a malapena per dare, in media,  110 euro al mese a ciascuno dei 10,5 milioni di potenziali aventi diritto; un contributo medio totalmente inadeguato a sostenere il reddito della vasta platea di ‘poveri relativi’.

Considerando  che nel nostro Paese vi sono più di 3 milioni di disoccupati, si può fare l’ipotesi (minimale) che un milione di essi non abbia altri redditi. Ad essi occorrerebbe distribuire per intero i 780 euro al mese, con una spesa totale di circa 9 miliardi. Resterebbero 5 miliardi, da distribuire ‘ad integrazione’ del loro reddito agli altri 9 milionidi aventi diritto; il che consentirebbe un contributo medio di appena 46 euro al mese. Occorre avere ben chiaro che per finanziare il progetto del M5S occorrerebbe una disponibilità media di almeno 450-500 euro al mese per i 10,5 milioni di poveri, vale a dire una copertura annuale intorno ai 60 Milardi di euro.

Questo, alla luce di semplicissimi calcoli, è quanto. Nulla di più, nulla di meno.

Un’ulteriore carenza del progetto si riferisce al reperimento dei milioni di posti di lavoro adeguatamente remunerati da offrire alla scelta di ciascuno dei 3,4 milioni di disoccupati; proposte la cui mancata accettazione farebbe decadere il diritto al ‘reddito’,  come prevede il disegno di legge presentato alla Camera.  Ma dove sarebbero trovati i milioni di posti di lavoro necessari allo scopo?

Manca poi una struttura in grado di offrire una valida qualificazione professionale ai milioni di disoccupati, sottoccupati, apprendisti ed altro.  Il disegno di legge presentato alla Camera è ‘fuffa’,  farraginoso e  confuso, che pretenderebbe di costituire e far funzionare un meccanismo complicatissimo deputato a fronteggiare un insieme delle criticità sociali.

Sotto questa luce politica fortemente offuscata da improbabili proposte, o se si vuole, da assurdi progetti politico-sociali possiamo essere sicuri di una impennata dell’astensionismo.

Tutto ciò non potrà che aumentare la disaffezione e il distacco dei cittadini dalla politica, con l’aumento dell’astensionismo, avviato ormai ad essere stabilmente il vero e proprio primo partito.

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