Il Mercante di Parole

Il Mercante di Parole, diretto e interpretato da Caterina Ardizzon, con l’aiuto regia di Giacomo Buonafede e le musiche originali di Antonio Junior Antonaglia.

La storia racconta di un mercante immaginario che viaggia di villaggio in villaggio per comprare e vendere parole. È convinto che l’incomunicabilità tra le persone derivi proprio dall’assenza delle parole giuste per esprimere sentimenti ed emozioni. Una delle prime riflessioni che lo spettacolo ci propone riguarda l’amore: se non esistesse la parola “amore”, non sapremmo nemmeno di che cosa “soffriamo”. Continueremmo a ridere da soli, incapaci di articolare un pensiero compiuto. Sapere che esiste una parola per definire l’amore ci permette di riconoscerlo, di condividerlo.

Il protagonista eredita il mestiere di mercante dal padre, ma viaggia più di lui, e riesce a stimolare l’immaginazione più di chiunque altro. All’inizio, per descrivere l’amore, si usavano parole come “produzione”, “produzione in serie” o “di massa”, come se fosse un bene di consumo. Ma l’amore, come le parole e come le persone, non è una merce: è qualcosa di unico.

In uno dei suoi viaggi, il mercante incontra un musicista che suona uno strumento molto particolare, ammaccato e difficile da intonare: ogni melodia che produce è irripetibile. È lo strumento “Wabi Dabi”, il cui nome viene dal giapponese e rappresenta la bellezza dell’imperfezione e dell’autenticità. Come questo strumento, anche le parole autentiche hanno un valore speciale, anche se non sempre sono le più “vendute”. Tra le parole preferite del mercante ci sono “elegante” (che dovrebbe contenere il concetto già nel suono) e “malinconia”, parola che sembra avere in sé il suono delle campane tristi.

Lo spettacolo ci guida anche attraverso parole intraducibili da altre lingue, come:

“Cursi” (spagnolo): qualcosa di sdolcinato, detto in un lampo.
“Meraki” (greco): fare qualcosa con passione, amore e creatività.
“Kafuné” (portoghese brasiliano): il gesto dolcissimo di passare le dita tra i capelli della persona amata.
“Despedida” (spagnolo): un addio definitivo, che stringe il cuore.

Tutto questo ci fa riflettere su chi abbia deciso la corrispondenza tra parole e concetti, e sul potere che le parole hanno. Dopo la confusione di Babele, Dio punì gli uomini moltiplicando le lingue, ma in questo caos di idiomi è nascosto un dono immenso: la possibilità di comunicare in modi infiniti.

Il mercante, a un certo punto, decide di ritirarsi in un villaggio lontano. Lì incontra molte persone, si invaghisce di alcune, si lascia ispirare. Poi decide di tornare a viaggiare, curioso di vedere cosa accade alle persone che si nutrono di parole nuove. Si innamora perdutamente di una creatura profumata e affascinante. I due si guardano ma non si parlano: forse perché certe emozioni, più che dette, vanno sentite.

Lo spettacolo riflette anche sul valore universale di alcune parole, come “cioccolato”, presente in quasi tutte le lingue. E ci invita a chiederci: “Amore” sarà stata forse la prima parola mai pronunciata? Una parola che racchiude rispetto, legame, connessione. “Io posso essere io solo se connesso con gli altri”, dice il mercante. Senza le parole giuste, siamo sprovvisti anche della capacità di pensare ciò che proviamo.

Negli anni ’70 e ’80, ormai anziano, il mercante fa visita a un vecchio amico, Amid, portando con sé tutta la saggezza accumulata in una vita passata a dare voce alle emozioni.

Dal punto di vista scenico, lo spettacolo era semplice ma potente. Il palco era spoglio, senza una scenografia vera e propria: un’architettura minimale, simile a quella degli edifici popolari. Eppure, grazie alla forza interpretativa di Caterina Ardizzon e alle suggestioni create da luci e suoni, la scena era piena di colori ed emozioni vivissime. La musica accompagnava perfettamente la narrazione: evocava atmosfere indiane alla Ravi Shankar, mescolandosi con la bossa nova e con ritmi africani.

Lo spettacolo colpisce profondamente per l’originalità del tema e la delicatezza con cui è stato trattato. È riuscito a farmi riflettere sul valore delle parole, su quanto sia importante dare un nome a ciò che proviamo e su come la lingua possa diventare un ponte o un ostacolo nella comunicazione. Le parole non sono solo suoni: sono strumenti per dare forma ai pensieri, per capire noi stessi e gli altri.

Marco Zucchi

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