La tregua tanto agognata alla fine è arrivata, dopo 15 mesi di atrocità che hanno accomunato due popoli, mai come oggi così distanti tra loro. Tutti ci chiediamo se è l’ inizio di una nuova fase di pace nel Medioriente. La risposta più plausibile è che è ancora tutto in bilico. Il ritorno della gente di Gaza alle loro case ridotte in polvere parlano di sentimenti estremi e irrisolti, come lo sono da parte delle famiglie israeliane che hanno i loro cari, ancora ostaggi di Hamas. Questo ci fa capire che questa tregua, questo cessate il fuoco sono ancora troppo fragili per indurci a facili entusiasmi. Le ferite dall’ una e dall’ altra parte sono ancora aperte e possono ancora innescare una nuova miccia che divori palestinesi e israeliani. Alla base di tutto c’è la sfida della seconda presidenza Trump, che in poche settimane in quell’area si gioca tutta la sua credibilità internazionale. La prima fase dell’ accordo scadrà tra 42 giorni. Al sedicesimo inizieranno i negoziati per le fasi successive che dovranno portare alla fine permanente del conflitto, al ritiro dell’ esercito israeliano, al rilascio di tutti gli ostaggi, anche di quelli morti, alla stesura del progetto di ricostruzione di Gaza e alla creazione di un governo senza Hamas e successivamente l’ avvio del processo per la costituzione di uno Stato palestinese. Una grande sfida politica e strategica. Gli ostacoli che si incontreranno sono molteplici e arduo sarà, superarli. Il primo è rappresentato dalla politica interna a Israele e ai territori della Cis Giordania; il Premier Netanyahu sottoscrivendo la tregua, ha perso l’ appoggio dell’ultra destra, che minaccia di togliere il proprio sostegno al governo, se non riprenderanno i combattimenti e Israele non occuperà in modo stabile Gaza. Per il Premier non sarà facile, perché schiacciato dall’ ambizione di Donald Trump di mettere fine al conflitto in modo definitivo da una parte, dall’ altra dal timore di essere mollato dai suoi alleati di governo che comprometterebbero irrimediabilmente il suo futuro politico. Ma l’ostacolo più grande è il governo della Striscia. L’ Autorità palestinese di Abu Mazen, ormai vecchia e inadeguata al nuovo ruolo che dovrebbe assumere, andrebbe riformata per prendere il controllo anche di Gaza e garantirne la sicurezza e coordinarne la ricostruzione. Ma molti osservatori occidentali ritengono che l’ Autorità palestinese sia più interessata al fiume di denaro che arriverà nei prossimi mesi piuttosto che a riformarsi. Ci sono, poi, le difficoltà pratiche che conseguono di solito a quelle politiche, come quella di sottrarre Gaza al controllo di Hamas che è indebolita, ma non sconfitta del tutto, la gestione degli aiuti umanitari , la ricostruzione di città e infrastrutture, totalmente distrutte . A questo si aggiunga il futuro incerto della popolazione palestinese che si ritrova senza più una casa, né lavoro, senza scuola per i propri figli e con il dubbio se potranno incominciare a ricostruire o una nuova guerra li costringerà a scappare. E da parte israeliana che non sanno se tutti gli ostaggi torneranno o solo i 33 della prima fase e a tutt’ oggi non hanno idea di chi sia vivo e chi sia morto. Quindi oggi tutti guardano al rieletto Presidente degli Usa, Donald Trump, che al di là dei proclami e/o intimidazioni, dovrà mettere in campo una diplomazia accorta che sappia gestire gli opposti, delicatissimi, equilibri, anche con l’ aiuto di alcuni Paesi arabi alleati. Di sicuro cercherà di portarsi al caso il risultato, decisivo per la sua credibilità agli occhi di Russia e Cina , pronti a sfruttare, in Ucraina, qualsiasi passo falso . È un momento di incertezza che si accompagna a speranza e paura . L’ unico obbiettivo perseguibile è che morte atrocità e terrore cessino per sempre.
Andrea Viscardi